Gli analisti di Pechino sono convinti che l'attacco americano che ha portato all’uccisione di Soleimani sia una provocazione contro la Repubblica popolare. Perché gli Usa vogliono contrastare l'espansione commerciale cinese nel Medio Oriente che ha in Teheran il suo partner principale.
Attaccando l’Iran gli Stati Uniti hanno voluto attaccare la Cina. I “falchi” a Pechino ne sono convinti fin dal primo momento dell’attacco americano che ha portato all’uccisione del generale Qassen Soleimani. Tra gli altri sostiene questa tesi un interessante editoriale apparso sul quotidiano in lingua inglese di Hong Kong, il South China Morning Post, firmato da Ann Lee, dal titolo The real target of the US assassination of Iranian military leader Qassen Soleimani: China (Il vero obiettivo dell’assassinio del leader militare iraniano Qassen Soleimani: la Cina, ndr).
Ann Lee è un’analista cinese molto accreditata, già docente di relazioni internazionali alla Peking University e professore aggiunto alla New York University and Pace University dove insegna macroeconomia e finanza internazionale, oltre che autrice di molti volumi sui rapporti Stati Uniti-Cina, come What the US Can Learn from China e Will China’s Economy Collapse?. La tesi della Lee è piuttosto chiara: «Gli Stati Uniti hanno reso pubblicamente evidente che considerano la Cina un “concorrente strategico”, un modo ducato per dire che la Cina è un nemico» scrive la professoressa nel suo editoriale. «L’America», spiega Lee, «ha attivamente cercato di trascinare la Cina in uno scontro militare fin dal 2013, sotto l’amministrazione Obama, trasformando improvvisamente i mari della Cina meridionale e della Cina orientale in punti caldi dopo decenni di pace nella regione».
«Dal momento che il presidente cinese Xi Jinping non ha abboccato su quel fronte, l’amministrazione Trump ha cercato di provocare la Cina sollevando ulteriori problemi con Taiwan, la Corea del Nord e lo Xinjiang. Le azioni statunitensi relative a Hong Kong sono coerenti con questa strategia», è la tesi dell’analista. «Infine», continua l’editoriale, «nonostante l’accordo commerciale Usa-Cina, gli Stati Uniti hanno discriminato apertamente i cinesi cercando di danneggiarne l’economia con ogni mezzo. Dal blocco degli investimenti cinesi in società statunitensi alla limitazione per i fornitori americani di alta tecnologia di fare affari con aziende cinesi come Huawei, fino alle false accuse mosse a studenti e scienziati cinesi di essere spie».
NEL MIRINO LO STRETTO RAPPORTO COMMERCIALE CINA-IRAN
Fin qui, le tesi portate avanti dalla Lee non si discostano dalle ragioni della propaganda ufficiale anti-Usa di Pechino. Ma in che modo Soleimani si inserirebbe in questo scenario? Qui gli argomenti portati avanti dalla professoressa si fanno decisamente più interessanti, e in parte anche condivisibili. La Cina è uno dei maggiori importatori di petrolio iraniano. E fa anche parte della Shanghai Cooperation Organization, il che la rende un partner stretto della Russia. Ed è altrettanto vero che da tempo Pechino investe in Iran per consolidare la sua presenza in Medio Oriente, rischiando così di creare nuove tensioni in una regione già problematica.
Xi Jinping sta cercando di costruire una rotta commerciale preferenziale per collegare in maniera più efficiente l’Asia all’Europa
Negli ultimi tempi Teheran si è trasformata nella punta di diamante della nuova Via della Seta cinese, il mega-progetto infrastrutturale attraverso cui il presidente Xi Jinping sta cercando di costruire una rotta commerciale preferenziale per collegare in maniera più efficiente l’Asia all’Europa. E in quest’ottica, non è certo un caso che il primo capo di Stato straniero a recarsi in visita ufficiale in Iran dopo la cancellazione delle sanzioni sia stato, a suo tempo, proprio Xi Jinping, che ha approfittato dell’occasione per firmare un accordo che aumenterà l’interscambio commerciale tra le due nazioni da 55 a 600 miliardi di dollari in appena 10 anni.
Una strategia rischiosa, quella cinese, che ha dimostrato con chiarezza di voler privilegiare le relazioni con Teheran cercando nello stesso momento di approfondire le relazioni con tutti gli altri Paesi del Medio Oriente. Insomma, la tesi dei “falchi” pechinesi è che l’attacco a sorpresa americano intenda proprio colpire e frenare questa politica “espansionistica” della Cina in Medio Oriente bloccandone l’avanzata in un Paese strategico come l’Iran. Uno scenario decisamente “bellicoso”, quello descritto dalla professoressa Lee nel suo editoriale, che contrasta apertamente però con l’atteggiamento molto prudente assunto da Pechino fin dai primi momenti dello scoppio della crisi tra Usa e Iran.
IN GENNAIO LA FIRMA PER METTERE FINE ALLA GUERRA COMMERCIALE USA-CINA
L’impressione infatti è che la Cina sia consapevole che non può permettersi di mettere a repentaglio i rapporti finalmente distesi con gli Stati Uniti e l’imminente firma della “fase”1” degli accordi per mettere fine alla guerra commerciale in corso. Una firma confermata da Donald Trump, malgrado la delicata situazione, per il 15 gennaio, e che difficilmente, stando alle previsioni, potrà slittare. Ma i “falchi” a Pechino, come la professoressa Lee, la vedono molto diversamente.
In Cina sono assolutamente convinti che gli Stati Uniti intendano trascinare Pechino in una guerra attraverso un l’Iran
Sono assolutamente convinti che, dal momento che gli Stati Uniti non hanno avuto un grande successo nel provocare la Cina in uno scontro militare in altre possibili teatri di conflitto, intendano trascinare Pechino in una guerra attraverso un altro Paese, l’Iran appunto, allo stesso modo in cui la Germania fu trascinata nella Prima guerra mondiale dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando. «E non è un caso», conclude la professoressa Lee nel suo editoriale, «se i dati delle ricerche su Google delle parole “Franz Ferdinand” hanno visto un picco proprio pochi minuti dopo l’assassinio di Soleimani. E la stragrande maggioranza di queste ricerche proveniva da Washington!».
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