Siano le banche a salvare il sistema creditizio, non lo Stato

Se volete evitare il fallimento di una banca aumentate le quote di partecipazione degli istituti al Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi. Perché stare sul mercato è una cosa seria e richiede correttezza, professionalità e onestà.

La Divina Commedia è sempre attuale. Ma gli ultimi capitoli non sono stati scritti da Dante ma dalla storia (e dalla cronaca) e riguardano i nostri banchieri, peccatori condannati, in base alla legge del contrappasso, a scontare una pena simile alla colpa. È quanto sta avvenendo negli ultimi anni per le banche che hanno dovuto aderire obbligatoriamente al Fondo interbancario di Tutela dei Depositi.

Ricordiamo che il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (Fitd) è un consorzio di diritto privato, disciplinato dal Decreto Legislativo 24 marzo 2011, n.49, che ha recepito la Direttiva 2009/14/CE, supervisionato dalla Banca d’Italia, cui devono obbligatoriamente aderire tutte le banche italiane aventi come forma societaria la Società per Azioni, e le banche extracomunitarie (che hanno filiali in Italia) che non aderiscano a sistemi di garanzia equivalenti. Non vi devono aderire le banche di Credito Cooperativo, che devono però al Fondo di Garanzia dei Depositanti del Credito Cooperativo, regolato dalla stessa normativa e con funzioni analoghe.

La finalità del Fondo è di tutelare i risparmi (non gli investimenti) dei clienti di banche che dovessero trovarsi in situazioni di insolvenza, quindi depositi in conto corrente, conti di deposito, certificati di deposito nominativi, libretti di risparmio nominativo e assegni circolari, garantiti in caso di fallimento dell’istituto di credito fino a 100 mila euro. Azioni, obbligazioni, pronti conto termine emessi dalla banca in liquidazione coatta, non rientrano nell’oggetto della tutela offerta dal Fitd. Nessuna scelta, nessuna opzione. Se un tuo collega, caro banchiere, ha gestito male (eufemismo) la sua banca, tu sei costretto a pagare le sue inefficienze! Il meccanismo del consorzio prevede infatti che le banche versino i loro contributi soltanto in caso di necessità (“ex post”) a chiamata entro 48 ore. L’impegno oscilla tra lo 0,4% e lo 0,8% dei fondi rimborsabili (la massa totale dei depositi presenti nelle filiali degli istituti italiani) di tutte le consorziate.

IL MERCATO NON DEVE PRIVATIZZARE GLI UTILI E SOCIALIZZARE LE PERDITE

In questi giorni ho sentito i direttori generali di due piccole banche che smadonnavano per dover assicurare la sopravvivenza di Banca Popolare di Bari con un contributo di circa 100 mila euro ciascuno. E si tratta di due piccole banche sane ed efficienti. Immaginate quanto possa pesare nel conto economico di grandi banche in difficoltà il salvataggio di una consorella in default? Milioni di euro che mettono in pericolo la vita della stessa banca soccorrente! E se, tra le varie misure più volte proposte su queste colonne, si pensasse di regolamentare un settore praticamente devastato anche aumentando la quota di partecipazione delle banche al Fondo e riducendo al minimo l’intervento dello Stato?

Se una banca è fuori mercato, allora fatela salvare dalle altre banche. Altrimenti che fallisca!

In tal modo aumenterebbero le pene all’interno del girone dantesco. La legge del contrappasso rappresenterebbe una sorta di “mano invisibile”, grazie alla quale, in una economia liberista, la ricerca egoistica del proprio interesse gioverebbe a se stessi e all’interesse dell’intero settore tentando di riequilibrarlo attraverso organi di controllo ricettivi agli input che vengono da quei manager che oggi bestemmiano turco perché efficienti, liberi, indipendenti e creditori nei confronti di Bankitalia che ha, invece, chiuso più di un occhio, ad esempio nella individuazione dei requisiti di onorabilità, nei confronti della mala gestione della maggior parte dei banchieri.

Ribadiamo che il mercato non deve più essere il luogo dove si privatizzano gli utili e si socializzano le perdite. Se una banca è fuori mercato, allora fatela salvare dalle altre banche. Altrimenti che fallisca! La prossima volta si eviterà di gestirla in maniera scorretta, spavalda e clientelare. Lo Stato non può fare tutto, né può continuare a essere il padre generoso che salva i suoi figli spericolati e scapestrati. È arrivato il momento di far capire che stare sul mercato è una cosa seria e richiede correttezza, professionalità e onestà. Perché poi lo Stato siamo noi che pagheremo le tasse per salvare quelle catapecchie che sono ormai diventate le banche del nostro Paese.

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Le quotazioni di Borsa e spread del 9 gennaio 2020

La giornata di Piazza Affari e degli altri listini europei. In attesa di Wall street. La diretta dai mercati.

Apertura in rialzo per la Borsa italiana l’8 gennaio. Con gli investitori che confidano nel fatto che non ci sarà escalation tra Usa e Iran. Positive anche le Borse europee con Francoforte che corre (+1,16%) grazie al dato sulla produzione industriale tornato positivo. Bene anche Parigi (+0,59%) e Londra (+0,44%).

SPREAD STABILE A 162,3 PUNTI BASE

Lo spread tra Btp e Bund apre stabile. Il differenziale è a 162,3 punti base, dai 162 della chiusura di ieri, con un tasso di rendimento per il decennale italiano dell’1,41%.

SU I LISTINI ASIATICI

Intanto è rally per i listini asiatici sull’onda del recupero di Wall Street, dopo che le quotazioni del greggio hanno annullato la recente corsa, grazie ai toni tutto sommato moderati usati da Donald Trump sull’Iran, che hanno allontanato i timori di un inasprimento del conflitto armato. Tokyo ha messo a segno un rialzo del 2,31% e a seduta ancora in corso è bene intonata anche Hong Kong (+1,28%). Bene hanno fatto i listini cinesi di Shanghai (+0,91%) e Shenzhen (+1,76%) mentre sono stati diffusi i dati sull’inflazione e in attesa della visita del capo negoziatore Liu He a Washington fra il 13 e il 15 gennaio per l’accordo sui dazi. Forte anche Seul (+1,63%).

I MERCATI IN DIRETTA

9.20 – CORRE FRANCOFORTE, BENE ANCHE PARIGI

Avvio all’insegna dei rialzo per i listini europei. In un clima rasserenato sull’evoluzione dello scontro Usa-Iran corre Francoforte (+1,16%) grazie al dato sulla produzione industriale tornato positivo a novembre dopo due mesi di cali. Bene anche Parigi (+0,59%) e, con meno impeto, Londra che alle prime battute segna un rialzo dello 0,44%.

9.10 – APERTURA IN RIALZO PER LA BORSA DI MILANO

Avvio positivo per Piazza Affari. L’ indice Ftse Mib segna un rialzo dello 0,62% a 23.979 punti a ridosso della soglia 24.000.

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Lo spread e la Borsa italiana del 6 gennaio 2020

Partenza negativa per Piazza Affari e mercati Europei. Lo spread apre stabile.

Apertura negativa per la Borsa di Milano e i mercati europei il 6 gennaio. Sull’onda lunga delle perdite registrate a Tokyo e in Asia nel primo giorno di contrattazioni dell’anno per il Giappone, anche Piazza Affari cede pesantemente. Apertura stabile, invece, per lo Spread Apertura stabile per lo spread Btp-Bund: il differenziale tra il decennale italiano e quello tedesco segna 163 punti base, sul livello della chiusura di venerdì. Il rendimento del Btp decennale scende all’1,32%.

9:39 – ANCORA CALI IN EUROPA. Dopo una partenza debole ma senza scosse, corrente di vendite sulle Borse europee: Francoforte è la peggiore e cede l’1,6%, Milano l’1,3% con l’indice Ftse Mib e Parigi l’1,1%, mentre Londra prova a contenere le perdite con un calo dello 0,7%. In Piazza Affari scivolano Unicredit e Banco Bpm che cedono oltre il tre per cento, deboli tutti gli industriali (Pirelli -2,9%), bene sempre Eni che sale dell’1,6% sulla corsa del prezzo del petrolio.

9:06 – TUTTA EUROPA NEGATIVA. Mercati azionari del Vecchio continente tutti negativi in avvio: Londra ha aperto in ribasso dello 0,5%, Francoforte dell’1% e Parigi dello 0,7%.

9:02 – MILANO PARTE MALE. Avvio negativo per Piazza Affari: il primo indice Ftse Mib segna una perdita dello 0,55%, l’Ftse It All-Share un calo dello 0,50%.

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Quello che Visco fa finta di non capire

Il governatore di Bankitalia non dice bugie, ma omette. Palesando problemi nella distinzione tra malafinanza e finanza inefficiente.

In un paese che non cresce e che non crescerà nei prossimi anni, la funzione del sistema bancario diventa ancor più determinante. Semplicisticamente, nelle fasi di stagnazione, per sostenere l’economia produttiva si ha bisogno di credito. La Bce ha rivisto al ribasso la crescita del Pil nell’eurozona nel 2020 (solo +1,1%) e uno studio del Pardee Center della Università di Denver afferma che nel 2100 il Pil dell’Italia sarà al 23esimo posto nel mondo. Altro che G8. Il nostro Pil varrà un misero 0,82% di quello mondiale, contro il 2,55% di oggi. Davanti all’Italia in rapporto al PIL ci saranno anche paesi come l’Indonesia, la Nigeria, l’Iraq, il Pakistan, l’Etiopia, la Tanzania, e l’Uganda. La decrescita europea non crea benessere ma povertà, i flussi di ricchezza si spostano verso oriente ed il nostro Pil perde slancio. Poca innovazione, poca flessibilità e troppa burocrazia. La ricerca di un nuovo benessere può passare anche da una decrescita ma solo con una sana politica del credito. In questo scenario cosa fa il governatore della Banca d’Italia? Lo struzzo. Facendo finta di non capire.

L’ARCHETIPO DEL BANCHIERE ITALIANO

Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è l’archetipo del banchiere e bancario italiano: non dice bugie ma omette. L’omissione è la regola. Anche in occasione della intervista rilasciata al Corsera il numero uno di palazzo Koch ha ribadito che «queste banche (quelle in crisi) rappresentavano, nel complesso, il 10% degli attivi totali, il che vuol dire che il restante 90% ha fatto fronte alle gravissime conseguenze della crisi dell’economia reale». L’arte del minimizzare è spesso l’unica arma che hanno tra le mani i perdenti. È l’ atteggiamento che ha avuto Visco (e alcune penne di sistema) che difende un mondo che presenta ormai più buchi di una fetta di formaggio svizzero. È vero che solo le banche che rappresentavano il 10% degli attivi totali ha manifestato pubblicamente lo stato di crisi. Visco non ha detto una bugia. Ma ha dimenticato di aggiungere, ecco la strategica omissione, che il sistema bancario nella sua interezza ha evidenziato una palese inefficienza più volte ribadita ed analizzata su queste colonne.

LA DIFFERENZA TRA MALAFINANZA E INEFFICIENZA

Ancora oggi si fa fatica a capire la differenza tra malafinanza (bilanci falsi, politiche commerciali violente, abusi sui clienti, corruzione, collusione, ecc.) dalla finanza inefficiente. Quella finanza che non riesce più a fare ricavi e che produce utili (pochi) solo attraverso il contenimento dei costi, quella che continua a fare credito con modelli di analisi superati, quella che non si è ancora accorta dell’arrivo della fintech e dei mostri (Yahoo, Amazon, Google, Facebook, ecc) , quella che ha perso completamente il capitale di fiducia dei clienti, quella con un management obsoleto e vecchio (che non è la stessa cosa). Basta guardare l’andamento del Ftse Italia All Share Banks, l’indice settoriale delle banche italiane quotate, per capire quanto le politiche gestionali dei banchieri nostrani hanno inciso sulla capitalizzazione (il valore di mercato delle azioni in circolazione) complessiva del sistema. A fine 2009 l’indice valeva circa 21.640 punti, oggi vale 9.440 punti. Il 56% di riduzione di valore. E di chi è la responsabilità? Il regolatore dovrebbe ripensare forse ad un modello di sistema bancario più coerente con la nostra economia? Ne riparleremo presto.

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I testimonial delle banche sanno cosa pubblicizzano?

Tanti personaggi di cultura, spettacolo e sport sono chiamati a fare spot per brand finanziari. Senza pensare agli effetti della cattiva reputazione di alcuni istituti di credito coinvolti in scandali e default o di certi prodotti. Questione di etica, troppo spesso trascurata.

Mi sono sempre chiesto, guardando gli spot pubblicitari di banche e società finanziarie, quanto e cosa sapessero di quell’azienda o di quel prodotto i personaggi del mondo della cultura, informazione, spettacolo e sport chiamati a fare i testimonial. Probabilmente nulla. Come la maggior degli italiani, tra l’altro, che in termini di informazione e cultura finanziaria sono tra i meno preparati rispetto ai cittadini dell’Unione europea e in generale di altri Paesi avanzati.

SPESSO AVVIENE UNA SIMBIOSI TRA BRAND E PERSONAGGIO

Una cosa è certa: il testimonial viene scelto per rappresentare un brand. Il marchio, a cui si associa il personaggio-persona fisica che lo pubblicizza, deve rispecchiarsi nel testimonial e viceversa. Si assiste, molto spesso, a una simbiosi tra brand e persona. Talmente forte che i contratti che di solito regolano questo tipo di pubblicità possono prevedere clausole e obblighi comportamentali che devono essere rispettati dal testimonial anche nella vita privata. Perché il personaggio famoso ha delle responsabilità ben precise che riguardano anche la vita privata, nei confronti dei suoi fan e del brand che pubblicizza.

NEI CONTRATTI CI SONO PURE CLAUSOLE MORALI

All’interno dei contratti ci sono molto spesso anche le cosiddette clausole morali. In altri termini la celebrity ha l’obbligo, per esempio, di mantenere nella vita privata comportamenti eticamente corretti oppure di non rilasciare dichiarazioni che in un certo qual modo possano incidere negativamente sulla reputazione dell’azienda.

I TESTIMONIAL SI TUTELANO DALLA BAD REPUTATION DI UNA BANCA?

Ma, in termini di responsabilità, è garantita la reciprocità? Cioè i vip si sono mai preoccupati di tutelarsi dai rischi derivanti dalla bad reputation del brand bancario o del prodotto finanziario? Sono convinto che il simpaticissimo Nino Frassica non sia assolutamente consapevole del fatto che, pubblicizzando una carta di credito revolving (carta Easy di Compass) stia spingendo i cittadini ignari verso un certo tipo di prodotto (tasso medio circa 16%; soglia usura del 24%) e in una spirale di pagamenti imposti prima di poter sancire la chiusura del debito.

PROPAGANDA CHE ARRIVA ANCHE DALL’INFORMAZIONE

Non solo, ma nei miei 22 anni di permanenza in quel sistema mi sono spesso imbattuto in famosi e gloriosi personaggi del mondo dell’informazione che partecipavano, retribuiti profumatamente, a convention aziendali dove si magnificavano i comportamenti virtuosi del management (di banche poi coinvolte in scandali e default). Ho ascoltato peana che la propaganda della Romania di Ceausescu al confronto sembrava ridicola.

NON BASTA L’ONESTÀ, SERVE ANCHE L’ETICA

Quello che stona, però, è che poi molti personaggi spesso vanno in televisione a fare i moralizzatori del sistema-Paese nel rispetto di una etica dei comportamenti che riguarda però… sempre gli altri. Etica, che parolone. E soprattutto che abuso improprio nel nostro Paese. Spesso confusa con il concetto di onestà. Senza voler scomodare filosofi e sacre scritture, forse è il caso di ricordare semplicisticamente che una persona onesta è «quella che non ruba» mentre una persona orientata a vivere secondo principi etici è «quella che non solo non ruba, ma che se vede un altro rubare lo denuncia». Intendendo come denuncia anche la capacità di dire no a un’agenzia pubblicitaria.

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Ottimismo e sangue freddo: identikit del buon investitore

Sappiamo che nei momenti peggiori si colgono le migliori opportunità. Peccato però che quando poi ci si trova a tu per tu con un calo del 50%, le teorie crollano e le emozioni (negative) dominano. Ecco come e perché tenerle a bada.

Nel processo di controllo (e autocontrollo) dei propri investimenti visto nelle ultime settimane occorre analizzare l’ultimo passaggio fondamentale per il risparmiatore alle prime armi: inserire il pilota automatico. Che i mercati non possano solo salire lo sappiamo tutti. Così come tutti, nei momenti peggiori, ci diciamo: «Nelle discese più profonde si colgono le migliori opportunità». Peccato però che quando poi ci si trova a tu per tu con un calo del 50%, le teorie crollano e le emozioni (negative) dominano. La verità, infatti, è che appena i mercati iniziano a scendere riaffiorano i comportamenti irrazionali, e con questi la voglia di entrare e uscire dai mercati, anticipare i crolli, investire nei minimi per uscire sui massimi: comportamenti che nel 99,99999999% dei casi non riescono mai a produrre l’effetto desiderato.

LE VOSTRE SCELTE FORMANO I PREZZI DEI PRODOTTI FINANZIARI

I mercati (azionari, obbligazionari o di qualunque altro tipo) semplicisticamente non sono che la somma di tutte le scelte di acquisto e di vendita di tutti i partecipanti ai mercati stessi. Le scelte formano i prezzi dei singoli prodotti finanziari e determinano i rialzi e i ribassi di un determinato mercato. Può essere interessante osservare come negli ultimi 11 anni, a partire dalla pesantissima crisi del 2008, l’indice della paura, il cosiddetto «VIX» (Volatility Index), utilizzato dalla maggioranza degli analisti per «prevedere» l’imminente crollo dei mercati, abbia dato a più riprese una serie di falsi segnali spiazzando completamente chi, più furbo degli altri, aveva pensato di uscire dal mercato per poi rientrarci a prezzi più convenienti. Bene, in quest’ultimo decennio i «furbetti del mercatino» sono più volte rimasti a bocca asciutta, proprio perché, a dispetto delle previsioni, il mercato ha continuato a salire senza soluzione di continuità. Il singolo investitore, in pratica, può essere paragonato alla classica goccia in un oceano formato da tantissime goccioline che oscillano, scivolano le une sulle altre, creano onde, si mischiano e fluttuano, ma in cui nessuna può condizionare il movimento complessivo del mare. Tutte ne fanno parte, ma nessuna può avere la forza di andare contro corrente, può solo accettare l’evoluzione delle onde.

LA CONSAPEVOLEZZA FINANZIARIA PRIMA DI TUTTO

Per questo per investire bene bisogna maturare buone abitudini finanziarie, quelle piu volte suggerite in questa rubrica, inserire il pilota automatico (magari aiutati da un fedele e professionale consulente-copilota) e lasciarsi trasportare dalla propria consapevolezza (finanziaria). Quella consapevolezza che è stata sempre il vero e unico motivo per cui scrivo. Questa rubrica compie oggi cinque anni e negli oltre 250 articoli scritti per questo giornale non vi ho mai parlato di marche di prodotti. Non vi ho mai consigliato uno specifico strumento. Non ho mai magnificato una determinata griffe. Perché non era e non è l’obiettivo di questa rubrica, che tenta solo di farvi maturare più consapevolezza e sicurezza quando entrate in un negozio e il commesso vi accoglie con la classica frase: «Prego, di cosa ha bisogno? Posso esserle d’aiuto?».

BISOGNA SAPERE SCHIVARE CERTE PRESSIONI

Ma, come già sapete, nei «negozi finanziari» i prodotti non si acquistano, si vendono. I commessi-consulenti vi accolgono con la frase: «Ho questo prodotto per lei, lo deve acquistare», senza nemmeno chiedervi se soddisfa i vostri bisogni. Ecco: spero, mi auguro che in questi cinque anni abbiate avuto quasi tutti gli elementi per acquistare un prodotto e schivare certe pressioni. Un po’ come avviene quando entrate in un negozio per acquistare una cravatta avendo già bene in mente che:
• dovete abbinarla a un abito formale scuro e scarpe classiche nere;
• dovete indossarla per una cerimonia in un ambiente molto chic;
• dovete indossarla in piena estate.
Consapevoli di tutto questo, non credo che riuscirete a farvi convincere dal commesso-venditore ad acquistare una cravatta di lana a motivi floreali di colori sgargianti. Buon Natale a voi tutti.

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Quelle opportunità nascoste dietro un crollo della Borsa

Come (e perché) sfruttare il calo di titoli prestigiosi. Gettando lo sguardo oltre i dubbi di breve periodo. Rapida introduzione al "mix in caduta".

Nel processo di controllo dei propri investimenti, anche il risparmiatore alle prime armi deve approfittare del “mix in caduta”. Di cosa si tratta? Il monitoraggio dei portafogli va fatto cogliendo le opportunità che il mercato offre lungo il percorso di investimento. Se applicate il constant mix in automatico a determinate scadenze (almeno ogni 12 mesi, come già visto la settimana scorsa), il mix in caduta si attiva ogni qualvolta un vostro asset subisce un calo importante (nel caso dell’azionario, superiore al 30%; nel caso dell’obbligazionario, superiore al 10%). Riequilibrando il portafoglio secondo la regola del constant mix di cui sopra, o in alternativa investendo nuove risorse (nel rispetto dei vostri obiettivi e del profilo di rischio, naturalmente). Spieghiamo il perché.

UNA QUESTIONE DI PROSPETTIVA

Abbiamo detto a più riprese che l’economia globale cresce sempre e che noi, investendo in strumenti efficienti, siamo in grado di incorporare questa crescita. Ma abbiamo anche sottolineato che i mercati finanziari non crescono in modo costante e lineare, perché nel breve periodo sono condizionati da fattori emotivi e speculativi che generano oscillazioni incontrollabili. Pertanto, ogni volta che il mercato crolla abbiamo un’opportunità unica di acquisto. È un po’ come durante i saldi, ma su prodotti di lusso: chi si farebbe sfuggire l’occasione di acquistare a metà prezzo una Mercedes, un iPhone, una borsa di Louis Vuitton o un Rolex? Ebbene sì: quando crolla la Borsa abbiamo l’occasione unica di comprare a metà prezzo le azioni di tutte queste aziende, quindi perché non farlo? Se non lo fate è perché il vostro sguardo non è rivolto lontano, all’orizzonte temporale giusto, ma è concentrato sul breve periodo, sulla piccola tragedia che state vivendo in quel momento. Vi impantanate a rimuginare che state momentaneamente perdendo il 30-40%. È solo questione di prospettiva.

Se per almeno una settimana sentite al telegiornale commenti del tipo «La Borsa sta crollando», allora è il momento di sedersi al tavolo con il vostro consulente

Mi direte: «E come faccio a seguire i mercati in caduta? Non ho tempo e competenze per poterlo fare!» Non lo accetto più. Si tratta dei vostri soldi e un minimo di attenzione dovere averlo. Ma la soluzione smart c’è. In questo i media contribuiscono parecchio a spaventarvi. Se per almeno una settimana sentite al telegiornale o nei talk televisivi o leggete sul giornale commenti del tipo: «La Borsa sta crollando», «I mercati non reagiscono» e altre frasi a effetto negativo, allora è il momento di sedersi al tavolo con il vostro consulente e verificare se è il caso di approfittare del mix in caduta. E comunque è venuto il momento di non fare l’italiano figlio di Guicciardini perché dietro quelle notizie ci potrebbe essere anche l’opportunità per il vostro investimento.

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La Bce di Lagarde in pressing sui Paesi che possono spendere

Stime di crescita al ribasso: +1,1% per il 2020. La presidente dell'Eurotower: «I governi che hanno spazio di bilancio dovrebbero essere pronti ad agire in maniera efficace e tempestiva». E poi precisa: «Non sono né una colomba né un falco, la mia ambizione è essere un gufo, che è dotato di saggezza».

La prima riunione di politica monetaria della Banca Centrale Europea guidata da Christine Lagarde si è conclusa lasciando i tassi d’interesse invariati: il tasso principale resta fermo a zero, quello sui prestiti marginali allo 0,25% e quello sui depositi a -0,50%.

«NÉ FALCO NÉ COLOMBA, SARÒ GUFO»

La Bce ha «leggermente rivisto» al ribasso le stime di crescita per il 2020, a 1,1%. Le stime sono ora di una crescita dell’1,2% quest’anno, dell’1,1% il prossimo, e dell’1,4% nel 2021 e 2022. Nella conferenza stampa al termine del board Lagarde ha spiegato: «Non sono né una colomba né un falco, la mia ambizione è essere un gufo, che è dotato di saggezza».

«CHI HA SPAZIO DI BILANCIO, AGISCA IN MANIERA TEMPESTIVA»

Poi Lagarde è tornata in pressing sulla Germania e gli altri Paesi che hanno surplus di bilancio: «I governi che hanno spazio di bilancio dovrebbero essere pronti ad agire in maniera efficace e tempestiva» per stimolare la crescita.

«L’EUROPA NON VA VERSO LA JAPANIFICATION»

Infine, riferendosi al rischio, evocato da alcuni economisti, di una spirale di deflazione e bassa crescita come quella del ‘decennio perduto’ giapponese, ha commentato: «Una ‘Japanification’? non credo affatto che siamo a questo punto, il credito alle imprese europee presenta un quadro completamente diverso da quello giapponese. Non credo affatto che una ‘Japanification’ sia fra le ipotesi sul tavolo»

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Perché il Mes rischia di mandare l’Italia in Serie B

La riforma del fondo salva-Stati crea un'Eurozona a due velocità. E il nostro Paese, il secondo più indebitato dell'Ue dopo la Grecia, è fuori dai parametri di sostenibilità. Così i Btp finiscono nel mirino delle speculazioni. Anche per i vincoli dei tedeschi sull'unione bancaria. I no degli esperti.

Riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità per finanziare gli Stati dell’euro in gravi difficoltà in base alla sostenibilità dei loro debiti. Poi un’unione bancaria a patto che si valuti il tasso di rischio dei titoli sovrani (Btp) o con tetti alla loro detenzione. Su entrambe le manovre di politica monetaria dell’Unione europea l’Italia è esposta significativamente per il debito pubblico al 135% del Pil – molto oltre la soglia massima del 60% del Fiscal compact – e per i circa 400 miliardi di euro in Btp custoditi nelle banche del Paese, circa un quinto delle emissioni totali.

RISOLUZIONE APPROVATA DALLE CAMERE

Non a caso prima del Consiglio europeo del 12 e del 13 dicembre 2019, sulle modifiche al Fondo salva-Stati, il governo giallorosso ha messo all’approvazione di Camera e Senato una risoluzione per escludere in particolare «interventi di carattere restrittivo sulla dotazione di titoli sovrani da parte di banche e istituti finanziari, e comunque la ponderazione dei titoli di Stato».

L’APPELLO PER IL NO SU MICROMEGA

La lente del Mes sull’indebitamento (l’Italia è il secondo Paese nell’Ue per debito pubblico dopo la Grecia), e di conseguenza sui suoi mattoni dei Btp, ha fatto sobbalzare anche economisti come il governatore di Bankitalia Ignazio Visco o come Carlo Cottarelli dell’Osservatorio sui conti pubblici. Allarmati dalla possibilità, scongiurata all’ultimo vertice dell’Eurogruppo, che per accedere al nuovo Fondo salva-Stati i Paesi con un debito insostenibile (in Italia per il 70% in mano agli italiani) dovessero necessariamente ristrutturarlo. La prospettiva getterebbe le banche del Paese in pasto alle speculazioni dei mercati ben prima dell’ipotesi di salvataggio di uno Stato, incentivandolo. Scrivono 32 economisti nel loro appello su Micromega “No al Mes se non cambia la logica europea”, di non voler pensare che la «strada individuata dai nostri partner europei per forzare una riduzione del debito pubblico italiano sia quella di provocare una crisi».

Mes riforma Fondo salva-Stati Italia Draghi
Il tedesco Klaus Regling, a capo del Mes, nel 2014 con l’allora capo della Bce, Mario Draghi. (Getty).

PIÙ VULNERABILI AI MERCATI

Il pericolo di una spirale per l’Italia era noto agli ultimi governi e al mondo finanziario ben prima che il dibattito sul Mes si infiammasse, visto che i capitoli sulla riforma sono all’esame dei Paesi membri dell’eurozona dal 2018. Ma che alla fine siano spariti i passaggi sulla ristrutturazione automatica del debito non ripara dal rischio di avvitamento. Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa ricerche, dice a Lettera43.it: «Basta che resti la divisione tra i Paesi con i requisiti per una fast line sui finanziamenti e quelli senza, perché la vulnerabilità sia da subito molto chiara ai mercati». Un rating targato Ue istituzionalizzerebbe un’Europa a due, tre velocità. E le banche, anche quelle francesi con in pancia il 16% dei Btp, inizierebbero a disfarsi dei titoli di Stato con minori garanzie. A maggior ragione se nell’Ue prendesse corpo la proposta sull’unione bancaria del ministro alle Finanze tedesco Olaf Scholz, con garanzie e limitazioni sui titoli dei debiti sovrani.

CRISI INTERNE MA CONTAGI LIMITATI

Gli economisti della lettera sul “No al Mes” ammoniscono: «Uno strumento che dovrebbe aumentare la capacità di affrontare le crisi può trasformarsi nel motivo scatenante di una crisi». Il paradosso della riforma è che se anche «i giudizi sul debito» facessero «precipitare tutto il sistema creditizio» della terza economia dell’eurozona, cioè dell’Italia, sempre grazie al Mes le altre economie dell’euro sarebbero più protette rispetto, per esempio, agli effetti della crisi del debito sovrano della Grecia nel 2010. Il Fondo Ue salva-Stati è stato istituito nel 2012 proprio per ridurre i danni del contagio, e allo stesso scopo viene perfezionato. Giovanni Dosi dell’Istituto di economia della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, tra i firmatari dell’appello, spiega a L43: «È un meccanismo per isolare i mercati finanziari del Nord. Con questa riforma le probabilità di crisi interne in alcuni Stati dell’Ue aumenteranno, mentre diminuirà ancora il rischio sistemico per l’Europa».

I CRITERI DEL FISCAL COMPACT NEL MES

Anche uno studio del Centro Europa ricerche mette in guardia sui «nuovi strumenti di sostegno finanziario dell’Eurozona» che «si baserebbero ab origine su una distinzione fra buoni e cattivi». Le economie al momento più sensibili al monitoraggio del Mes sono nell’ordine la Grecia, l’Italia, la Spagna e il Portogallo. «Ed è evidente che il nostro Paese, al contrario di altri, non possa soddisfare a priori alcuni dei criteri inseriti per definire la sostenibilità», precisa Dosi, «oltre al tetto del debito sotto il 60% del Pil, a nostro svantaggio c’è il calcolo del saldo di bilancio strutturale pari o superiore al valore minimo di riferimento. In questo modo non si esce dalla logica dell’austerity, tanto più che con la riforma si rafforza il peso sulla politica del Mes, un organo tecnico con ai vertici economisti e banchieri centrali tedeschi e francesi». La combinazione del nuovo Fondo salva-Stati e dell’unione bancaria alla tedesca, aggiunge, sarebbe poi «esplosiva» per la tenuta dei Btp italiani.

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Christine Lagarde, nuova presidente della Bce, con il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz. (Getty).

CONVERGENZA SULL’UNIONE BANCARIA

Va detto che mentre sul Mes si accelera per chiudere all’inizio del nuovo anno, sull’unione bancaria l’intesa è più lontana e resta problematica. Proprio la Germania – alle prese con una serie crescente di problemi bancari (di istituti nazionali e locali) sia a causa del peso dei derivati sia per la frenata dell’economia reale nel 2019 – quest’autunno ha aperto il dibattito nell’Ue per creare un’assicurazione comune che sia di aiuto nelle crisi bancarie dell’eurozona. Proponendo però valutazioni di rischio per i titoli di Stato, piuttosto che per prodotti opachi come i derivati. Di nuovo, un concept ritagliato sulle esigenze finanziarie di Stati come la Germania, piuttosto che come l’Italia. «C’è una convergenza in una direzione. Con la riforma del Mes, la proposta di completamento dell’unione bancaria, e anche con le pressioni per lo stop al Quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli dalle banche da parte della Bce per stimolare la crescita, si accende un faro sul debito pubblico».

Sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes


Vladimiro Giacché, Centro Europa Ricerche

I COEFFICIENTI DI RISCHIO SUI BTP

Segnali chiari per i mercati e di impatto per i risparmiatori, come lo fu nel 2016 in Italia l’introduzione del bail-in: il «salvataggio interno» alle banche imposto dalla direttiva Ue che sgrava gli Stati dai salvataggi con fondi pubblici, scaricando i dissesti sugli azionisti e sugli investitori privati. Prima del bail-in obbligazionisti e correntisti non correvano rischi particolari, perché le banche non potevano fallire: il solo via libera alla nuova legge costò al sistema bancario italiano una perdita di capitalizzazione di 46 miliardi. Lo stesso scossone si avrebbe con i coefficienti di rischio sui titoli di Stato, premessa per la loro svalutazione. «Oltretutto, anche con una cornice ideale per le banche tedesche, i salvataggi resteranno complicati anche per i tedeschi a causa delle rigidità sulle norme del bail-in» conclude il presidente del Centro Europa ricerche, «sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes».

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Stadio della Roma, l’immobiliarista ceco Vitek compra i debiti di Eurnova

Dopo 72 ore di ininterrotta trattativa, sabato è arrivata la firma con Unicredit. Ora, senza Luca Parnasi, il progetto ha la strada spianata.

Nel pomeriggio di sabato 7 dicembre, dopo 72 ore di ininterrotta trattativa, l’imprenditore ceco Radovan Vitek ha acquistato da Unicredit i crediti ipotecari che pesavano su Eurnova. Sarà dunque lui ora a decidere sullo stadio della Roma. E senza Luca Parnasi sarà più facile per la Giunta Raggi dare il via libera al progetto. Come ricordato dal Sole24Ore, che aveva anticipato la trattativa, Eurnova aveva debiti con la banca di Jean Pierre Mustier per 50-60 milioni di euro. Mentre gli altri debiti del gruppo Parnasi sono in capo a Parsitalia e Capital Dev. La realizzazione dello stadio della Roma dunque ora ha la strada spianata. Insieme con il business park da 140 mila metri quadri, il progetto ha un valore di 1,3 miliardi. Un tesoro su cui Vitek vuole mettere le mani per poi rivenderlo.

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