Libia, l’incontro tra Conte ed Erdogan ad Ankara

Il 19 gennaio 2020 ci sarà un vertice a Berlino a cui parteciperanno entrambi insieme a Vladimir Putin e agli attori libici.

Il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte ha incontrato ad Ankara, il capo di Stato turco Recep Tayyip Erdogan per discutere della situazione in Libia. Uno dei punti centrali del meeting è stato proprio l’incontro di Mosca tra i due leader libici Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar che dovrebbero firmare una tregua. «Mi auguro che si arrivi al più presto al cessate il fuoco permanente», ha detto Erdogan. Una posizione condivisa anche dal premier Conte che però ha mostrato una maggiore preoccupazione: «Il cessate il fuoco può risultare una misura molto precaria se non inserito in uno sforzo della comunità internazionale per garantire stabilità alla Libia».

IL VERTICE DI BERLINO DEL 19 GENNAIO

Proprio per questo, il primo ministro italiano e il capo di Stato turco hanno annunciato che il 19 gennaio 2020 ci sarà un vertice a Berlino a cui parteciperanno entrambi insieme al presidente della Federazione russa Vladimir Putin. Ma non solo. Conte ha aggiunto che in Germania «ci saranno anche gli attori libici: non è possibile parlare di Libia se non ci sarà un approccio inclusivo. Qui si tratta di un processo politico». E, a proposito di “processo politico”, il presidente del Consiglio ha sottolineato che l’Italia sostiene per la Libia il «percorso già disegnato sotto egida Onu».

L’APPELLO DI CONTE AI CITTADINI LIBICI

Al termine del meeting con Erdogan, il presidente del Consiglio Conte ha fatto un appello a tutti i cittadini che vivono il Libia: «Ogni giorno con ogni comportamento che assumono decidono del loro futuro, se ne vogliono uno di prosperità e benessere e vogliono aprirsi alla piena vita democratica troveranno sempre nell’Italia un alleato, perché non mira a interferenze che possano condizionare uno scenario futuro di piena autonomia e stabilità».

ERDOGAN: «L’ITALIA È UN PARTNER STRATEGICO E ALLEATO»

Durante l’incontro con Conte, Erdogan non ha parlato solo di Libia. Il capo di Stato turco, infatti, si è anche augurato «che questa visita intensifichi i nostri rapporti. Quest’anno terremo un vertice intergovernativo, non ne facciamo uno dal 2012. L’Italia è partner strategico e alleato». Erdogan, poi, ha parlato anche di calcio: «Italia e Turchia giocheranno la partita inaugurale dell’Europeo di calcio 2020. Sono già d’accordo con il premier Conte che la guarderemo insieme».

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Il 2020 sarà un anno pieno di incognite per il Medio Oriente

Iran, Libia, Iraq, Yemen, Egitto: molti Paesi sono in fibrillazione e vedono il ritorno del protagonismo della piazza. Ma la situazione, anche se è gravida di criticità, può aprire orizzonti di positività.

Se è vero che «il buon giorno si vede dal mattino», come recita il detto, il 2020 si prospetta gravido di incognite, non necessariamente gravide di criticità e anzi suscettibili di aprire orizzonti di positività. Non è cominciato bene per l’Iran questo 2020: ha perso un uomo che era un simbolo ma anche uno strumento di penetrazione politico-militare in Medio Oriente sotto le bandiere della rivoluzione islamica iraniana, dal Libano alla Siria all’Iraq a Gaza allo Yemen e ovunque vi fossero comunità sciite in terre a maggioranza sunnita.

Mi riferisco ovviamente a Soleimani, ucciso dal fuoco di droni acceso dal presidente degli Stati Uniti – un omicidio mirato come vengono chiamati asetticamente questi atti di guerra asimmetrici e di dubbia legittimabilità – per una serie di ragioni : di politica interna (l’attacco all’ambasciata Usa a Baghdad, l’uccisione di un combattente americano, l’impeachment) e di politica regionale (il rischio di apparire incapace di reagire a una serie di operazioni aggressive imputabili a Teheran e a suoi proxies come l’abbattimento di un drone americano, i missili sui siti petroliferi sauditi, etc.) e l’opportunità offerta del suo arrivo a Baghdad nelle vesti di un agitatore armato in casa altrui.

Mi riferisco alla clamorosa bugia degli 80 morti provocati dalla rappresaglia ordinata per dare una prima risposta all’omicidio di Soleimani messa a nudo dai servizi di diversi Paesi, in testa gli Usa naturalmente ma anche l’Iraq; bugia che non ha certo giovato all’immagine di determinazione, tempestività e forza che il regime degli Ayatollah intendeva valorizzare nel contesto regionale e oltre. Mi riferisco alle bugie usate per negare qualsivoglia responsabilità nell’abbattimento dell’aereo ucraino – con pesante bilancio di 176 vittime innocenti – e al rifiuto di consegnare la scatola nera che lo stesso regime ha dovuto in qualche modo ammettere seppure col condimento di un rinnovato attacco agli Usa.

A FEBBRAIO TEHERAN VA ALLE ELEZIONI POLITICHE

Penso che queste circostanze, al netto delle responsabilità dell’Amministrazione Trump, e non sono poche, abbiano sporcato l’immagine di un regime cui l’Europa guarda forse con un garbo non del tutto giustificato dai pur rilevanti suoi interessi economici e di sicurezza e dal rispetto della grandiosa storia di questo Paese. Immagine certo appannata sul piano internazionale. Il tutto in un contesto di grandi difficoltà interne, frutto in larga misura dal nodo scorsoio delle sanzioni Usa, che hanno provocato anche forti reazioni popolari represse nel sangue; contesti che in questi giorni si sono arricchite di sonore manifestazioni contro lo stesso Khomeini. Mentre il regime sembra incerto sul da farsi e privilegi, al momento, la logica del contenimento nella sgradevole attesa degli effetti delle nuove sanzioni di Trump. A febbraio sono previste le elezioni: saranno il primo termometro della situazione.

IN IRAQ AUMENTANO LE PROTEST ANTI USA E ANTI IRAN

L’altra incognita riguarda l’Iraq, dove un governo dimissionario fa la voce grossa con gli Usa ma fino a un certo punto visto che nel Paese e soprattutto nell’area sciita cresce la volontà di scrollarsi da dosso le influenze straniere, compresa quella iraniana oltre a quella americana, naturalmente. Le ultime mosse di Teheran non hanno favorito la sua pressione anti-americana su Baghdad e si attendono le determinazioni del presidente Barham Salih che ha rifiutato la nomina di Asaad al-Idani perché troppo ossequiente nei riguardi dei desiderata iraniani. Anche qui il Paese manifesta una diffusa aspettativa di recupero di una “identità irachena” al di là e al di sopra delle distinzioni settarie.

Un governo più rappresentativo delle principali componenti di questo Stato (sciiti, sunniti e curdi) potrebbe rimettere sui binari più costruttivi il futuro di questo Paese

Anche qui con un impressionante bilancio di vittime fra i protestatari mentre Washington non intende farsi mettere alla porta in un momento in cui il governo vigente deve cedere il passo e la minaccia del terrorismo è tutt’altro che superata. Un governo più rappresentativo delle principali componenti di questo Stato (sciiti, sunniti e curdi) potrebbe rimettere sui binari più costruttivi il futuro di questo Paese di nevralgica importanza per gli equilibri della regione e non solo per la sua ricchezza energetica. Ma sarà realistico ipotizzarlo?

LIBIA IN SUBBUGLIO E IL LAVORO PER UNA PACICAZIONE DIFFICILE

Il 2020 è iniziato in Libia con la minaccia di Haftar di sfondare nella capitale e liberarla della presenza dei terroristi, con ciò intendendo la Fratellanza musulmana, fermata dall’annuncio/ordine dl cessate il fuoco venuto da Putin ed Erdogan. Era prevedibile che questi due leader, attestati su posizioni contrapposte – Putin con Haftar (Tobruk) e Erdogan con Serraj (Tripoli) -, arrivassero a una tale intesa, evitando il rischio di un confronto militare che in realtà nessuno dei due voleva correre. Prevedibile pure che Haftar accettasse il cessate il fuoco all’ultimo giorno utile (il 12 gennaio) nell’evidente intento di marcare tutto il terreno conquistabile per poterlo capitalizzare, anche politicamente. Altrettanto prevedibile che lo stesso Haftar abbia minacciato una dura rappresaglia in caso di violazione della tregua (le poche sono apparentemente a lui addebitabili) e che Serraj abbia chiesto l’impossibile e cioè il ritiro del suo avversario che ovviamente non ne ha tenuto minimamente conto.

Intendiamoci, la tregua è la premessa per un’ipotesi di stabilizzazione-soluzione politica che è ancora lontana. È una sorta di parentesi che occorre riempire, auspicabilmente con la politica. Una politica che archivi l’esclusione proclamata da Haftar nei riguardi di una parte libica in ossequio ai suoi sponsor tra i quali stanno l’Egitto, che ha fatto della lotta contro l’Islam politico della Fratellanza musulmana la sua crociata, gli Emirati Arabi, l’Arabia saudita, la Francia, etc. e solo in parte la Russia. Una politica che escluda anche l’invadenza politica ed economica di una Turchia “ottomana”, che tra l’altro non sarebbe ben accolta neppure dai libici. Tutto ciò sullo sfondo di una sistemazione delle tessere sociali di un Paese che, prive del collante gheddafiano, sciolto nell’acido della sua uccisione nel 2011, si sono pericolosamente dissociate in assenza di un nuovo fattore collante. Mosca e Ankara, ancorché forti, non sono i risolutori veri e non tanto perché non siano affidabili quanto perché vi sono altri attori che debbono entrare nella partita. All’interno e all’esterno.

L’ITALIA DEVE RECUPERE IL SUO RUOLO IN MEDIO ORIENTE

Su questo sfondo conforta solo in parte il recupero di ruolo che l’attuale governo italiano sta tentando e che a mio giudizio non dev’essere contrastato dal tradizionale ricorso a un’autoflagellazione che rischia solo di appesantire la posta in gioco, che è politica, economica e di sicurezza. La Germania, con il vertice dell’Unione europea, è nostra importante compagna di viaggio e con l’ombrello delle Nazioni Unite sta lavorando ad una Conferenza internazionale che paradossalmente trova la sua forza proprio nella sua scelta di campo a favore della “soluzione politica”. Ma si corre ancora sul filo del rasoio.

In Medio oriente è tornato il protagonismo della piazza, pesantemente contrastato dal potere locale, ma che merita attenzione perché rappresenta una luce che l’Occidente dovrebbe sostenere

Il 2020 è iniziato anche nel segno di un nuovo protagonismo della “piazza” come si usa dire, in diversi Paesi del Medio Oriente, dall’Iraq al Libano all’Algeria e, carsicamente, anche in Egitto. Sono piazze diverse ma anche almeno tre punti in comune: la scelta della non violenza, la lotta alla corruzione e al mal governo, il recupero di un’identità nazionale liberata dal settarismo. Si tratta di un protagonismo embrionale, forse, e pesantemente contrastato dal potere locale, che merita attenzione perché rappresenta una luce che l’Occidente dovrebbe sostenere sgombrando il campo da ambigui e controproducenti paternalismi. Il 2020 si apre inoltre nell’incerta dinamica yemenita, nell’attesa delle prossime elezioni in Israele, nell’incipiente crisi governativa in Tunisia. Sarà comunque lo si voglia vedere un anno impegnativo.

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Libia, Haftar e Sarraj a Mosca per firmare la tregua

Il capo del governo libico di unità nazionale, Fayez al-Sarraj, e il suo rivale, il maresciallo Khalifa Haftar, uomo forte..

Il capo del governo libico di unità nazionale, Fayez al-Sarraj, e il suo rivale, il maresciallo Khalifa Haftar, uomo forte dell’est della Libia, sono attesi oggi a Mosca per firmare una tregua, sui termini del cessate il fuoco tra le loro truppe, entrato in vigore il 12 gennaio 2020. Dopo oltre nove mesi di micidiali combattimenti alle porte della capitale libica Tripoli, la firma di questo accordo (è l’obiettivo di Russia e Turchia) deve diventare un ulteriore passo per abbassare i toni del conflitto, scongiurandone un’ulteriore internazionalizzazione.

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NON È DETTO CHE HAFTAR E SARRAJ SI INCONTRINO DIRETTAMENTE

Ma non è detto che Haftar e Sarraj si incontreranno direttamente. Secondo quanto dichiarato dal capo del gruppo di contatto russo in Libia, Lev Dengov, i leader libici «avranno incontri separati con i funzionari russi e gli emissari della delegazione turca che sta collaborando con la Russia su questo tema. I rappresentanti degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto saranno probabilmente presenti come osservatori ai colloqui».

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GLI ACCOMPAGNATORI DI HAFTAR E SARRAJ

I due leader libici non arriveranno in Russia da soli. Haftar, che ad aprile 2019 ha tentato senza successo di impadronirsi di Tripoli, sarà accompagnato dal suo alleato Aguila Salah, presidente del parlamento libico con base in Oriente. Assieme a Sarraj ci sarà invece Khaled al-Mechri, presidente del Consiglio di Stato. A Mosca sono attesi anche i ministri degli Esteri e della Difesa turchi, Mevlut Cavusoglu e Hulusi Akar.

MACRON A PUTIN: «CESSATE IL FUOCO SIA CREDIBILE, DUREVOLE E VERIFICABILE»

Dalla Francia arriva il primo commento sull’incontro tra Haftar e Sarraj a Mosca. Durante una chiamata con Vladimir Putin, il presidente Emmanuel Macron ha detto di volere che il cessate il fuoco in Libia sia «credibile, durevole e verificabile».

LA SITUAZIONE IN LIBIA

Il cessate il fuoco in Libia, richiesto da Russia e Turchia, è entrato in vigore alla mezzanotte del 12 gennaio 2020, con il plauso di Unione europea, Stati Uniti, Nazioni Unite e Lega Araba. La Libia, ricca di petrolio, è nel caos dall’autunno del 2011 quando fu rovesciato il regime di Muammar Gheddafi con una rivolta popolare, sostenuta da un intervento militare guidato da Francia, Regno Unito e Stati Uniti.

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La cronistoria della crisi in Libia dal 2011 a oggi

Dalle rivolte contro il regime alla caduta di Gheddafi, fino alle lotte tribali, i tentativi falliti di transizione democratica e gli interessi di potenze straniere. I nove anni di guerra dell'ex Jamahiriya.

Gli ultimi nove anni di crisi libica testimoniano che il Paese nordafricano, nonostante il lungo regno di Muammar Gheddafi, di fatto non sia mai esistito.

Una debolezza storica, che attira ora le mire espansionistiche turche e russe, intenzionate a spartirsi il territorio e a mettere fuori dalla porta europei e italiani.

Ecco una cronistoria della crisi dell’ex Jamahiriya.

16 FEBBRAIO 2011 – LA PRIMAVERA ARABA INFIAMMA LA LIBIA

I primi scontri in Libia scoppiano a febbraio 2011, a seguito delle proteste scatenate dall’arresto dell’avvocato Fathi Terbil, noto oppositore di Gheddafi, che stava curando gli interessi dei parenti di alcuni attivisti politici morti 15 anni prima nelle galere libiche. A Bengasi si riversano in piazza migliaia di persone e la repressione della polizia non si fa attendere: muoiono quattro persone e 14 restano ferite. Ventiquattro ore dopo si incendiano tutte le principali città libiche. Negli scontri del 19 febbraio muoiono oltre 80 civili.

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La Comunità internazionale biasima il pugno di ferro con cui Gheddafi gestisce la situazione. Imbarazzato il governo italiano, storico partner del Paese con noti e ingenti interessi economici in Libia. 

Muammar Gheddafi in visita a Roma nel 2010.

21 FEBBRAIO 2011 – SCOPPIA LA GUERRA CIVILE

Il 20 febbraio, quando i morti sono ormai più di 120 e i feriti superano il migliaio di unità, l’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si limita a dichiarare: «Siamo preoccupati per quello che potrebbe succederci se arrivassero tanti clandestini. La situazione è in evoluzione e quindi non mi permetto di disturbare nessuno».

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Il 21 febbraio Gheddafi dispone l’uso dell’esercito: i tank bombardano i manifestanti, che ormai vengono definiti «ribelli» e hanno preso la città di Bengasi. La propaganda del regime sostiene che dietro le proteste ci sia Osama bin Laden. «Combatterò fino alla morte come un martire», dichiara il raìs alla televisione libica.

26 FEBBRAIO 2011 – L’ITALIA SOSPENDE IL TRATTATO DI AMICIZIA

Il 26 febbraio il nostro Paese sospende unilateralmente il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due Paesi siglato a Bengasi il 30 agosto 2008. Ventiquattro ore dopo il Consiglio di sicurezza dell’Onu impone all’unanimità il divieto di viaggio e il congelamento dei beni di Muammar Gheddafi e dei membri del suo clan mentre il regime viene deferito al Tribunale Corte Penale Internazionale dell’Aja.

Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi.

10 MARZO 2011 – L’UE RICONOSCE IL CNT COME NUOVO INTERLOCUTORE

Si muove infine anche l’Europa. Nel vertice straordinario dei capi di Stato e di Governo di Bruxelles si decide che Gheddafi deve abbandonare subito il potere e il Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) è il nuovo interlocutore politico.

19 MARZO 2011 – LA FRANCIA ENTRA IN GUERRA

Parigi dà il via all’operazione Odissey Dawn. La coalizione, guidata da Parigi e Londra, coinvolge anche gli Usa, la Spagna e il Canada. Roma, per non restare esclusa dalla spartizione che seguirà e non vedere danneggiati i propri interessi, volta le spalle al Colonnello e partecipa al conflitto.

OTTOBRE 2011 – LA FINE DI GHEDDAFI

La situazione per il raìs, che in un primo tempo era sembrato avere la meglio grazie all’arrivo in Libia di migliaia di mercenari al suo servizio, precipita durante l’estate. I ribelli irrompono nella sua fortezza di Tripoli e il Colonnello anziché combattere fino alla fine «come un martire» si dà alla fuga. Viene ucciso il 20 ottobre dello stesso anno, quando cade Sirte, la sua città natale.

GENNAIO 2012 – PROTESTE CONTRO IL CNT

Non c’è però pace per la Libia. Dopo pochi mesi i cittadini tornano in piazza per protestare contro il Consiglio nazionale di transizione. A luglio si elegge il Congresso nazionale generale e ad agosto avviene l’avvicendamento alla guida del Paese dei due collegi. Ma nemmeno questo apparente ritorno alla normalità ferma la rivoluzione.

Scontri in Libia.

11 SETTEMBRE 2012 – VIENE UCCISO L’AMBASCIATORE USA IN LIBIA

Chris Stevens, ambasciatore americano in Libia, viene ucciso da un comando di miliziani islamici nei pressi del consolato Usa di Bengasi, insieme a un agente dei servizi segreti e due marines. L’allora presidente statunitense Barack Obama decide di richiamare tutto il personale diplomatico e invia altre truppe nel tentativo di pacificare un Paese sempre più dilaniato.

ESTATE 2013 – CROLLA LA PRODUZIONE DI PETROLIO

Mentre in parlamento i Fratelli musulmani riescono a intercettare i candidati indipendenti, ponendo fine alla laicità del governo imposta per oltre 40 anni dall’ex dittatore, le guerre tra tribù e gli attentati costringono il Paese a chiudere gli impianti principali. La produzione quotidiana di petrolio crolla dagli 1,5 milioni di barili di giugno 2013 ad appena 180 mila.

FEBBRAIO 2014 – FALLISCE IL GOLPE DI HAFTAR

Contro una Libia sempre più islamica si schiera Khalifa Haftar, generale in pensione (nel 2014 ha già 71 anni) che nel 1969 partecipò al golpe che portò al potere Muammar Gheddafi. Proprio per questo non gode del favore del governo di transizione che teme voglia diventare il nuovo raìs libico. Il militare, che gode invece dell’appoggio dell’Egitto, in febbraio attua un colpo di Stato e prova a destituire il parlamento di Tripoli, ma l’esercito filogovernativo ha la meglio.

AGOSTO 2014 – L’AVANZATA DI ALBA DELLA LIBIA

Nemmeno le nuove elezioni del giugno 2014, con la vittoria di uno schieramento più moderato, consentono al Paese di avviare l’agognata transizione democratica. In estate le milizie islamiste riescono a unirsi sotto la guida dei temuti combattenti di Misurata e fondano il gruppo al Fajr Libya (Alba della Libia), conquistando Tripoli. Si crea così un governo ombra, parallelo a quello ufficiale ma costretto all’esilio nella città di Tobruk che crea ulteriori difficoltà nei rapporti con i Paesi esteri. Sono infatti due i ministri del Petrolio. Gli Emirati arabi sostengono entrambe le fazioni (durante il dialogo con Tobruk hanno infatti finanziato tutte le guerre di Haftar) nel tentativo di far salire al potere l’ex ambasciatore di Tripoli ad Abu Dhabi, Aref Ali Nayed, rendendo ancora più difficile il ruolo delle Nazioni Unite.

OTTOBRE 2014 – NASCE IL CALIFFATO DI DERNA

Dopo il ritiro delle Nazioni Unite e mentre le due milizie combattono per Bengasi, viene fondato a Derna, in Cirenaica, il Califfato islamico di Abu Bakr al Baghdadi. La città diventa covo di jihadisti che esercitano il potere con il terrore ed esecuzioni brutali. Ventuno egiziani cristiani vengono decapitati scatenando la dura repressione militare del Cairo. Intanto l’Isis conquista Sirte e sferra una serie di colpi alle ultime rappresentanze occidentali nel Paese. Il 27 gennaio viene assaltato l’hotel Corinthia di Tripoli, dove alloggia anche il premier islamista Omar al Hasi, scampato all’attentato che però causa la morte di cinque stranieri (tra cui un americano). Il 4 febbraio viene attaccato un giacimento a Mabrouk gestito dalla francese Total.

FEBBRAIO 2015 – CHIUDE L’AMBASCIATA ITALIANA A TRIPOLI

«Siamo pronti a combattere nel quadro della legalità internazionale». Questa frase, pronunciata dall’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è sufficiente a mettere l’Italia nel mirino dell’Isis che dichiara di essere pronta a fermare le nuove «crociate blasfeme» che partiranno da Roma. Il premier Matteo Renzi decide di chiudere l’ambasciata a Tripoli, l’ultima rimasta nel Paese. «Abbiamo detto all’Europa e alla comunità internazionale che dobbiamo farla finita di dormire», è il suo appello, «che in Libia sta accadendo qualcosa di molto grave e che non è giusto lasciare a noi tutti i problemi visto che siamo quelli più vicini».

17 DICEMBRE 2015 – L’ACCORDO DI SKHIRAT

L’accordo di Skhirat, in Marocco, stretto tra gli esecutivi di Tripoli e Tobruk, permette la nascita del governo guidato da Fayez al-Serraj e riconosciuto dall’Onu.

GENNAIO 2016 – IL GOVERNO PROVVISORIO IN TUNISIA

Le Nazioni Unite, finora rimaste sullo sfondo, provano la carta del governo provvisorio, ma la situazione in Libia è tale che deve insediarsi all’estero, in Tunisia e non viene riconosciuto né dal governo più laico di Tobruk né da quello islamista di Tripoli. Verrà fatto sbarcare in nave solo nel mese di marzo che segna il ritorno del personale delle Nazioni Unite nel Paese. 

2016-2018 – LA CACCIATA DELL’ISIS

Inizia la controffensiva nei confronti dell’Isis che durerà più di due anni. Nel luglio 2018 l’esercito di Khalifa Haftar espugna Derna, roccaforte del Califfato.

Emmanuel Macron tra Haftar e al Serraj.

APRILE 2019 – LO SCONTRO FINALE PER TRIPOLI

Archiviata la minaccia dello Stato islamico, nell’aprile 2019 riparte la battaglia per Tripoli. E mentre in strada si combatte, in altre cancellerie si guarda già alla pacificazione. Gli Emirati Arabi non sono i soli a portare avanti la politica dei due forni. 

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2017-2019 – I MALDESTRI TENTATIVI FRANCESI DI ESCLUDERE L’ITALIA

Anche la Francia di Emmanuel Macron è protagonista di una politica assai ambigua: ufficialmente appoggia Serraj, ma ufficiosamente sembra invece puntare su Haftar, nella speranza di ribaltare a proprio favore i rapporti tra Tripoli e Roma in tema di rifornimenti energetici. Il 29 maggio 2018 l’inquilino dell’Eliseo accelera e convoca un vertice con i rappresentanti libici al fine di indire nuove elezioni il 10 dicembre.

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Non è la prima volta: il 24 luglio 2017 Macron aveva chiamato a Parigi Serraj e Haftar con la speranza di arrivare a una pacificazione benedetta dai francesi senza l’ingombrante presenza mediatrice di Roma. Particolarmente duro il ministro dell’Interno italiano, che in quel periodo è Matteo Salvini: «Penso che dietro i fatti libici ci sia qualcuno. Qualcuno che ha fatto una guerra che non si doveva fare, che convoca elezioni senza sentire gli alleati e le fazioni locali, qualcuno che è andato a fare forzature».

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Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan.

DICEMBRE 2019 – GENNAIO 2020 – L’INTERVENTISMO DELLA TURCHIA

Le Forze armate turche a fine dicembre si sono dette pronte a un possibile impegno in Libia a sostegno del governo di Tripoli contro le forze del generale Khalifa Haftar, come richiesto dal presidente Recep Tayyip Erdogan. L’ingresso delle truppe turche, col voto del parlamento di Ankara favorevole all’invio di soldati in aiuto a Fayez Al-Sarraj, è destinato a spostare gli equilibri del conflitto libico. Una mossa che ha spiazzato l’Italia e l’Unione europea, che da tempo cercano una soluzione diplomatica, ma anche gli Stati Uniti, con Donald Trump che ha chiamato Erdogan per esprimergli la sua contrarietà all’intervento. E che ha spinto il generale Khalifa Haftar a lanciare la sua invettiva contro il presidente turco.

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Haftar e Sarraj hanno accettato il cessate il fuoco in Libia

A partire dalla mezzanotte del 12 gennaio, il conflitto si ferma. Ma entrambi promettono una dura reazione contro chi dovesse rompere la tregua.

Il cessate il fuoco in Libia è in vigore dalla mezzanotte del 12 gennaio. Il capo del Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale libico (Gna), Fayez al Serraj, ha infatti accettato la tregua proposta da Turchia e Russia dopo che alla stessa avevano aderito anche le forze del generale dell’Est, Khalifa Haftar. In un comunicato pubblicato nella notte sulla pagina media del Gna, il premier libico Sarraj, oltre a confermare l’adesione al cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte e a promettere di difendersi in caso di sua violazione, invita le parti a una trattativa sotto l’egida dell’Onu su come pervenire a una tregua duratura e a lavorare con tutti i libici per una conferenza nazionale in vista della Conferenza di Berlino per giungere alla pace.

IL MESSAGGIO DI HAFTAR

Poche ore prima, Ahmed Al Mismari, portavoce dell’ Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar, aveva annunciato in un video il cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte. Una dura rappresaglia, ha affermato, verrà attuata contro chi non lo rispetterà. «Le forze di Haftar hanno accettato il cessate il fuoco: è il primo passo per perseguire una soluzione politica. Ancora tanta strada da percorrere, ma la direzione è quella giusta», aveva scritto su Twitter il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che proprio nella giornata di sabato 11 gennaio era impegnato a Roma ad accogliere Sarraj, mentre a Mosca, nelle stesse ore, si incontravano la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente russo Vladimir Putin.

CONTE OSPITA SARRAJ

L’Italia ha avuto il suo bel da fare per rimediare al pasticcio diplomatico della visita a Roma di Haftar. Alla fine il premier libico Fayez al Sarraj ha deciso di accettare l’invito di Conte. «Ho rappresentato con forza ad Haftar» la posizione dell’Italia, ha dovuto chiarire Conte, «che lavora per la pace» e gli ho espresso «tutta la mia costernazione per l’attacco all’accademia militare di Tripoli». Anche Putin ha mandato un messaggio al generale che sostiene, dopo aver incontrato la cancelliera tedesca Angela Merkel. «Conto molto che a mezzanotte, come abbiamo esortato con Erdogan, le parti in contrasto cesseranno il fuoco e smetteranno le ostilità: poi vorremmo tenere con loro ulteriori consultazioni». Messaggio che alla fine è stato recepito.

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A che punto è il cessate il fuoco in Libia proposta da Russia e Turchia

Il governo di accordo nazionale ha accolto la mossa di Putin e Erdogan per fermare i combattimenti a partire dal 12 gennaio. Ma intanto Haftar prosegue i raid.

Il Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale libico (Gna) «accoglie con favore qualsiasi appello alla ripresa del processo politico e ad allontanare lo spettro della guerra, in conformità con l’Accordo politico libico e il sostegno alla Conferenza di Berlino patrocinata dalle Nazioni Unite». Lo si legge in una nota del Gna pubblicata dopo l’incontro dell’8 gennaio ad Istanbul tra il presidente russo Putin e quello turco Erdogan nel quale i due hanno proposto tra le altre cose «un cessate il fuoco in Libia a partire dalla mezzanotte di domenica 12 gennaio».

NUOVO RAID SULL’AEROPORTO DI MITIGA

In attesa di un via libera anche da parte della Cirenaica, gli scontri sul terreno sono continuati. Secondo il giornale The Libya Observer l’aeroporto di Tripoli Mitiga, l’unico funzionante nella capitale libica, è stato oggetto nella notte di nuovi raid aerei da parte dell’aviazione facente capo al generale Khalifa Haftar, in riferimento al supporto dell’aviazione degli Emirati Arabi Uniti. L’8 Ahmed Al Mismari, portavoce del sedicente esercito nazionale libico (Lna) guidato da Haftar, aveva annunciato l’estensione del divieto di sorvolo anche «sulla base e sull’aeroporto Mitiga a Tripoli», richiamando «le compagnie aeree ad attenersi severamente a questo provvedimento e a non mettere in pericolo i loro aeromobili».

SMENTITE OPERAZIONI DI TERRA A MISURATA

Vengono invece smentite informazioni circa incursioni terrestri delle milizie di Haftar vicino allo scalo e anche ai confini della municipalità di Misurata, un altro fronte in cui il generale è all’attacco, più a est. «Smentisco qualsiasi notizia che le truppe di Haftar siano arrivate all’aeroporto o al confine di Misurata», ha detto un consigliere comunale di Tripoli, Ahmed Wali precisando che «sono arrivati a sparare missili da 18 km di distanza».

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Iran e Libia, perché l’Italia rischia la crisi energetica

Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei..

Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei nostri consumi). Al contrario degli americani che con il fracking, il petrolio dal gas scisto delle rocce, stanno estraendo olio nero negli Usa, gli italiani dipendono quasi totalmente dalle importazioni straniere di greggio. La fragilità dell’Italia negli attacchi tra l’Iran e gli Stati Uniti, e nella contemporanea escalation della guerra in Libia, è prima di tutto nelle conseguenze economiche che una crisi petrolifera come quelle degli Anni 70 avrebbe sul Paese a un passo dalla recessione. Dallo strike degli Usa contro il generale iraniano Qassem Soleimani, le Borse sono in calo e il prezzo del greggio è volato sopra 70 dollari al barile. La pioggia di razzi iraniani in Iraq dell’8 gennaio, in rappresaglia, ha provocato una nuova impennata.

DIPENDENTI USA VIA DAI GIACIMENTI IN IRAQ

Dopo le basi militari, i siti petroliferi degli americani in Iraq – dove c’è anche l’Eni a Zubair, vicino a Bassora – e negli altri Stati del Golfo sono i primi target degli attacchi di Teheran. Un assaggio in questo senso è stato il raid messo a segno nel settembre scorso dagli iraniani agli impianti petroliferi più grandi al mondo, in Arabia Saudita. La regia dell’attacco con droni dall’Iran o dallo Yemen, che bloccò il 6% della produzione petrolifera globale mostrando la vulnerabilità di Raid, fu con ogni probabilità del generale Soleimani, da più di 20 anni a capo delle forze d’élite all’estero (al Quds) dei pasdaran. Dopo il suo omicidio mirato del 3 gennaio, le major americane hanno imbarcato i connazionali impiegati nei campi estrattivi del Sud dell’Iraq e del Kurdistan iracheno su voli verso gli Emirati e il Qatar, ha confermato il ministero del Petrolio di Baghdad.

Iran Libia crisi petrolio Putin Erdogan
Il presidente russo Vladimir Putin e l’omologo turco President Recep Tayyip Erdogan discutono di Libia, Iran… e petrolio. GETTY.

LA MINACCIA DEL BLOCCO DELLO STRETTO DI HORMUZ

I mercati sono in fibrillazione anche per la minaccia iraniana, mai così concreta, di bloccare alle petroliere lo Stretto di Hormuz, controllato dai pasdaran, nel Golfo persico. Dalla più importante arteria di transito globale del greggio passa un terzo dell’export totale del petrolio via mare (il 29% verso l’Italia), da tutti i Paesi del Golfo esclusi lo Yemen e l’Oman; e anche tutto il gas naturale liquefatto del Qatar. La possibilità di una crisi energetica per l’Italia è aggravata dalla guerra in Libia diventata aperta tra potenze straniere. Forze rivali libiche e rinforzi arrivati dalla Turchia da una parte e da russi, emiratini ed egiziani dall’altra si dirigono verso la battaglia finale di Tripoli. In Libia gli introiti dell’export del greggio, redistribuite dalla Compagnia nazionale del petrolio (Noc) e dalla Banca centrale libica a tutte le fazioni in campo, sono il carburante del conflitto.

L’uscita o un’estromissione del Cane a quattro zampe dalla Libia è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.

LO STOP DEL GREGGIO DA IRAN E VENEZUELA

Come in Iraq, i vertici delle compagnie rassicurano che le estrazioni proseguono ai livelli invariati del 2019 «attraverso il personale locale». In Libia, a dicembre la produzione nazionale di greggio era arrivata al massimo (1,25 milioni di barili al giorno) da sette anni. Cioè dalla precedente escalation tra il 2013 e il 2014 che sfociò nella battaglia all’aeroporto di Tripoli. Le turbolenze concomitanti in Nord Africa e in Medio Oriente cadono durante un import-export del greggio già rallentato da mesi per le sanzioni massime di Trump all’Iran e dall’embargo totale al Venezuela, maggiore riserva mondiale di petrolio. Se dal 2018 Eni e le altre compagnie occidentali sono uscite dai contratti di esplorazione e di sfruttamento appena avviati con Teheran, dopo l’accordo sul nucleare, in Libia l’uscita o un’estromissione del Cane a sei zampe è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.

Iran Libia crisi petrolio
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’omologo greco Kyriakos Mitsotakis discutono del gasdotto EastMed. GETTY.

L’ACCORDO TURCO-LIBICO PER SPARTIRSI IL MEDITERRANEO

Eni è la prima e storica compagnia straniera a essere entrata ell’ex colonia italiana, negli Anni 50. Un partner strategico consolidato, sopravvissuto nell’Est all’avanzata del generale filorusso Khalifa Haftar e ben impiantato nella Tripoli islamista, sostenuta da anni dalla Turchia e dal Qatar. Con il Noc gestisce il complesso di raffineria di petrolio e gas a Mellitah, terminal del greenstream che porta il gas libico verso l’Italia, i contratti con le società petrolifere durano decenni, e parte del gas di Eni serve le centrali elettriche dei libici. In compenso gli italiani rischiano molto nella corsa alle riserve di gas nel Mediterraneo orientale. Con un colpo di spugna, a novembre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha stretto un accordo bilaterale e arbitrario con la Libia sulla giurisdizione delle acque che spacca in due il mare nostrum, violando il diritto marittimo internazionale.

La disputa sul gas si concentra soprattutto sulle riserve attorno all’isola di Cipro contesa dalla Turchia

TURCHIA CONTRO ITALIANI E FRANCESI A CIPRO

In cambio di armi e rinforzi a terra a Tripoli e Misurata, Erdogan intende accaparrarsi i giacimenti al largo della Grecia e di Cipro, nelle acque dell’Egitto dove l’Eni ha scoperto e sfrutta il grande campo offshore di Zohr, e più a Est in quelle del Leviathan a Sud di Israele. La disputa (anche di altre major straniere) si concentra soprattutto sulle riserve attorno al piccolo Stato dell’Ue conteso dalla Turchia: a ottobre Ankara aveva alzato il livello dello scontro, inviando una nave da trivellazione proprio in un blocco esplorativo affidato da Nicosia a Eni e alla francese Total. Un’entrata a gamba tesa anche nel progetto EastMed – la pipeline concorrente alla russo-turca TurkStream – che passando per Creta dovrebbe portare il gas in Europa. Non a caso, con l’Egitto l’Ue, Italia in testa, ha dichiarato illegittimo l’accordo marittimo turco-libico. Ma mentre l’Ue parla, Erdogan agisce.

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Le mosse diplomatiche di Ue e Italia sulla crisi libica

L'Alto rappresentante Borrell e i ministri degli Esteri di Italia, Francia, Regno Unito e Germania sono rimasti bloccata a Bruxelles senza sbocchi. E il vertice di pace a Berlino resta un miraggio.

Naufragata la missione diplomatica dell’Unione europea che avrebbe voluto tentare di convincere le due fazioni libiche a deporre le armi, l’Alto rappresentante Josep Borrell e i quattro ministri degli Esteri di Italia, Francia, Regno Unito e Germania hanno dovuto ripiegare su una riunione a Bruxelles. Per ragioni di sicurezza dopo gli ultimi attacchi, è stata la motivazione ufficiale, anche se a pesare sulla decisione con ogni probabilità è stata anche la contrarietà all’iniziativa lasciata trapelare nei giorni scorsi dal governo di Tripoli di Fayez al-Sarraj, forte ora del sostegno militare garantito dalla Turchia.

L’INCOGNITA TURCA A BENGASI

Nell’incontro, fatto traslocare in fretta e furia nella capitale europea, non si è potuto dunque fare altro che ribadire una serie di appelli di principio già espressi nei giorni scorsi dagli stessi attori che hanno partecipato alla riunione: la necessità del dialogo, l’invito a interrompere le interferenze esterne, la de-escalation. Mentre sul campo la realtà procede a passi spediti in tutt’altra direzione, con il generale Khalifa Haftar che sfrutta ogni secondo utile per cercare di guadagnare terreno con le sue truppe, con i soldati turchi che hanno già iniziato a dispiegarsi nel Paese per aiutare Sarraj, con la possibile presenza di mercenari e mezzi russi a fianco delle forze di Bengasi.

IL TOUR DE FORCE DIPLOMATICO DI DI MAIO

L’Europa pensa che sia ancora possibile riuscire a fermare con le parole questo marchingegno sempre più veloce e complicato. In Libia «bisogna parlare con tutti e convincerli a un cessate il fuoco», ha insistito il ministro Luigi Di Maio prima di volare alla volta della Turchia per mettere subito in pratica il proposito, incontrando il ministro degli Esteri di Ankara Mevlut Cavusoglu. Il titolare della Farnesina si sposterà poi nel giro di qualche giorno prima in Egitto, Paese vicino invece ad Haftar, e quindi in Algeria e in Tunisia. Una maratona diplomatica che dimostra la volontà italiana di garantirsi un ruolo di mediazione mantenendosi su una posizione equidistante dalle fazioni in lotta. «Ma l’Ue deve parlare con una voce sola», ha ammonito Di Maio a Bruxelles, dicendosi sicuro che le iniziative europee «vedranno un cambio di passo» nei prossimi giorni.

DI MAIO APRE A UN TAVOLO CON ANKARA E MOSCA

A margine dell’incontro con Cavusoglu Di Maio ha detto di essere pronto «ad aprire un tavolo tecnico con la Turchia e anche con la Russia, perchè in questo momento, per trovare una soluzione alla crisi libica» oltre a «partner come gli Stati Uniti, ci sono paesi importanti come la Russia, l’Egitto e la Turchia che sono fondamentali». «È importante dialogare con tutti e trovare una soluzione tutti insieme», ha aggiunto.

IL MIRAGGIO DEL VERTICE DI BERLINO

L’invito del titolare della Farnesina che affonda il coltello in quella che storicamente è una delle debolezze dell’Ue nella sua proiezione sulla politica estera e che fa il paio con l’appello del commissario europeo italiano Paolo Gentiloni, secondo il quale l’Unione europea deve ora «evitare di trovarsi di fronte a fatti compiuti» e farsi superare da una situazione geopolitica che va «più veloce della nostra ambizione». Per ora l’unica iniziativa concreta a livello europeo sembra essere la conferenza sulla Libia di cui si parla da mesi e che a Berlino dovrebbe far sedere intorno a un tavolo tutti gli attori regionali coinvolti in qualche modo nel conflitto. Anche l’Algeria, che era finora stata tenuta fuori, è stata invitata da Angela Merkel a partecipare all’incontro, per il quale tuttavia non è stata fissata ancora nemmeno una data e che continua a slittare.

IL PESO DELLA CRISI IRANIANA SULLA LIBIA

Intanto, mentre tutti osservano gli sviluppi sul terreno, i valzer dei colloqui e delle telefonate incrociate proseguono. Tra i protagonisti c’è naturalmente anche la Russia, con Putin che vedrà prima Erdogan e poi nel fine settimana la cancelliera tedesca. Anche se l’attenzione e la preoccupazione del mondo, probabilmente anche quella dell’Unione europea, in questo momento sembra essere maggiormente concentrata sulla crisi dell’Iran. E tra i corridoi delle istituzioni europee circolano voci, non confermate, sulla possibilità di un vertice a livello di capi di Stato e di governo sulla complessa situazione mediorientale.

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Cosa sappiamo sul raid aereo contro un accademia militare a Tripoli

Violento bombardamento delle forze di Khalifa Haftar nei pressi di Tripoli contro un centro di addestramento. Almeno una trentina i morti.

La battaglia per Tripoli di Khalifa Haftar, divenuta una «guerra santa» per difendere la Libia da una preannunciata invasione turca, ha avuto un sanguinoso inasprimento: un raid aereo delle forze del generale contro l’Accademia militare di Tripoli ha causato almeno una trentina di morti e quasi 20 feriti fra i miliziani-cadetti, con un bilancio di vittime che però potrebbe essere anche doppio stando a quanto rivendicato dalla propaganda dell’uomo forte della Cirenaica.

PER HAFTAR I MORTI SONO OLTRE 70

«Ventotto martiri e 18 feriti fra gli studenti dell’Accademia militare di Tripoli in seguito a un raid dell’aviazione straniera che sostiene il criminale di guerra ribelle Haftar», ha riferito la pagina Facebook dell’operazione “Vulcano di collera” delle forze filo-governative che difendono la Tripoli dove è insediato il premier Fayez al-Sarraj. La cifra di 28 morti per il raid «dell’aviazione di Haftar» è stata accreditata da una fonte ufficiale del ministero della Sanità libico. La “divisione informazione di guerra” delle forze del generale ha però sostenuto che «l’aviazione ha preso di mira un raggruppamento di cento miliziani presso l’Accademia militare che si preparavano a partecipare ai combattimenti in corso e almeno 70 fra loro sono stati uccisi».

RAPPRESAGLIA CONTRO UN PRESUNTO RAID TURCO

L’incursione viene presentata come una rappresaglia per un «bombardamento turco» compiuto all’alba contro la «brigata salafita 210». Immagini diffuse da “Vulcano di collera” mostrano un piazzale con una decina di corpi a terra, pozze di sangue e quattro automezzi bianchi oltre a feriti che vengono curati in una struttura sanitaria. Il raid, assieme a un altro che avrebbe colpito di nuovo l’aeroporto internazionale Mitiga, è stato condotto mentre l’Italia e le altre potenze europee lavorano a una missione diplomatica che eviti un’escalation militare in Libia.

LA JIHAD DI HAFTAR CONTRO ERDOGAN

Il raid è stato sferrato poche ore dopo che Haftar, il quale da aprile cerca di conquistare Tripoli, ha lanciato una drammatica chiamata alle armi: un appello a tutti i libici contro un eventuale intervento militare di Ankara, dove il parlamento ha autorizzato il presidente Recep Tayyip Erdogan a inviare soldati per rafforzare il governo di Tripoli sostenuto dall’Onu. «Noi accettiamo la sfida e dichiariamo il jihad e una chiamata alle armi», ha attaccato Haftar in un discorso trasmesso in tv, invitando «uomini e donne, soldati e civili, a difendere la nostra terra e il nostro onore». L’uomo forte di Bengasi ha quindi insultato Erdogan dandogli dello «stupido sultano» e ha accusato Ankara di essere intenzionata a «riprendere il controllo della Libia», che è stata una provincia dell’Impero Ottomano fino alla conquista coloniale italiana nel 1911.

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Haftar invoca il jihad contro l’intervento turco in Libia

Il generale si scaglia contro Erdogan: «Stupido sultano turco». E invita il popolo a combattere contro l'invio di truppe a sostegno di Sarraj.

L’ingresso delle truppe turche, col voto del parlamento di Ankara favorevole all’invio di soldati in sostegno di Fayez Al-Sarraj, è destinato a spostare gli equilibri del conflitto libico. Una mossa che ha spiazzato l’Italia e l’Unione europea, che da tempo cercano una soluzione diplomatica, ma anche gli Stati Uniti, con Donald Trump che ha chiamato Erdogan per esprimergli la sua contrarietà all’intervento. E che ha spinto il generale Khalifa Haftar a lanciare la sua invettiva contro il presidente turco: «Questo stupido sultano turco ha scatenato la guerra in tutta la regione dichiarando che la Libia è una propria eredità», ha detto nel discorso con cui il 3 gennaio ha lanciato un appello ai libici ad armarsi contro la Turchia. A riportare le parole di Haftar è il sito Libya Akhbar.

«GUERRA AL COLONIALISTA»

Haftar ha sostenuto che la battaglia in corso per la conquista di Tripoli, riporta inoltre il sito fuori virgolette, «si amplia per divenire una guerra feroce a un colonialista brutale che vede la Libia come un’eredità storica e sogna di far rivivere un impero costruito dai suoi avi sulla povertà e l’ignoranza». Il generale ha esortato i libici a mettere da parte i propri contrasti, a rafforzare la fiducia nell’esercito e a difendere la loro terra e il loro onore. «Il nemico ha dichiarato guerra e ha deciso di invadere il Paese», ha affermato ancora Haftar secondo quanto riporta il sito, «sostenendo che l’amico popolo turco, con il quale la Libia ha legami fraterni grazie all’islam, si rivolterà inevitabilmente contro questo insensato avventuriero che spinge il proprio esercito a morire e aizza la discordia fra i musulmani».

RAID SUL COLLEGIO MILITARE DI TRIPOLI

Le forze di Haftar hanno attaccato con un raid aereo il Collegio militare di Tripoli, provocando la morte di diverse decine di persone (28 secondo il governo di Tripoli, 70 secondo Haftar). Altre fonti non verificate parlano di una quarantina di morti. «In risposta al bombardamento turco» compiuto «all’alba, l’aviazione ha preso di mira un raggruppamento di cento miliziani presso l’Accademia militare che si preparavano a partecipare ai combattimenti in corso e almeno 70 fra loro sono stati uccisi»,, scrive la pagina Facebook della “Divisione informazione di guerra” delle forze del generale.

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