Gli Usa e la guerra del gas a Russia e Germania

Pronta a inizio 2020, la pipeline del Baltico russo-tedesca è stata colpita dalle sanzioni americane. Democratici compatti con Trump in difesa della Nato. E dell’Ucraina. Il risiko per Berlino e l’Ue.

Per la Germania di peggiore dei dazi sull’import di auto, minacciati da Donald Trump, c’erano solo le sanzioni Usa sul gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2, e sono arrivate. Un affronto per il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, socialdemocratico (Spd), atlantista, più critico di molti altri ministri e politici europei su Vladimir Putin. Questo Natale anche in crisi con Mosca per l’espulsione reciproca di diplomatici russi e tedeschi, a causa dell’omicidio di un ceceno a Berlino, che si sospetta mirato e sul quale dal Cremlino non collaborano. Ma sulle politiche energetiche non si scherza: «Quelle europee si decidono nell’Ue, non negli Stati Uniti» ha twittato Maas all’approvazione della Camera americana di misure «inaccettabili» contro il Nord Stream 2. Licenziate definitivamente il 17 dicembre al secondo passaggio al Senato, con 86 sì e appena 8 no.

I DEMOCRATICI CON TRUMP

Appena insediato alla Casa Bianca, Trump aveva parlato chiaro con la cancelliera Angela Merkel: «Avrete del fantastico gas americano al posto di quello russo». Ma stavolta non si tratta solo del presidente: le sanzioni contro Russia e Germania – e contro tutte le aziende impegnate nel grande appalto – sono passate senza battute di ciglio alla Camera a maggioranza democratica come al Senato a maggioranza repubblicana. Nei giorni dell’impeachment, tutto il Congresso di Washington si è schierato compatto con Trump. Contro un progetto strategico che gli Usa ritengono un’invasione di campo inaccettabile dei russi nel territorio della Nato. Il guaio è che la Germania ha voluto, cercato e realizzato per anni la partnership energetica sul Nord Stream 2. Pronto nel 2020 per far arrivare il gas all’Europa continentale attraverso il mar Baltico.

L’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder nel board di Gazprom per il Nord Stream 2. GETTY.

COMPLETATO PER L’80%

L’80% del Nord Stream 2 è stato completato. A novembre anche la Danimarca ha approvato il passaggio del gasdotto, raddoppio della già contestata creatura di Gerhard Schröder: il Nord Stream che dal 2011 pompa fino a 55 miliardi di metri cubi di gas l’anno dalla Russia distribuendolo in Europa, erodendo i business delle altre pipeline che corrono attraverso i Paesi dell’Est (Polonia, Slovacchia, Bielorussia e Ucraina). Agli Stati Uniti i piani energetici della Germania non sono mai andati giù: le condutture del gas sono geopolitica, tanto più quando di mezzo c’è un partner come la Russia. Ma per i tedeschi è imprescindibile realizzare la rete del Nord Stream: un raddoppio costato quasi 10 miliardi di euro, il Nord Stream 15 miliardi. Tutti i ministri tedeschi che hanno dovuto affrontare la questione, Sigmar Gabriel prima di Maas, si sono scontrati con gli Usa «sull’interesse nazionale».

Per completare il Nord Stream 2 restano 2 mila chilometri di pipeline offshore, circa 2 mesi di lavori

LE COMPAGNIE EUROPEE A RISCHIO

I 55 miliardi di metri cubi di gas l’anno di forniture da aggiungere o da spostare con il Nord Stream 2 sono un affare per diverse compagnie energetiche europee che partecipano al progetto della sussidiaria del colosso russo Gazprom, Nord Stream 2: per il 50% finanziato da Gazprom, e per il 10% ciascuna dall’anglo-olandese Royal Dutch Shell, dalle tedesche E.On e Basf/Wintershall, dall’austriaca Omv e dalla francese Engie (ex Gdf Suez). Non solo: anche gli svizzeri di Allseas, aggiudicatari dell’appalto da Mosca per la parte offshore, saranno colpiti dalle sanzioni americane (revoca del visto e blocco delle proprietà per gli individui, multe per le aziende) se entro 30 giorni non cesseranno le loro operazioni. Alla loro nave restano da completare più di 2 mila chilometri (circa 2 mesi di lavoro) di tubature nel Baltico. Ma anche il sistema bancario tedesco, da Deutsche Bank a Commerzbank, avrebbe ricadute per le sanzioni.

«UN ATTACCO ALLA SOVRANITÀ NAZIONALE»

È questione di giorni: ci si attende il via libera di Trump alle sanzioni entro Natale, al più tardi la fine dell’anno. Poi l’Amministrazione Usa avrà 60 giorni di tempo per la lista delle compagnie e le persone fisiche coinvolte nella costruzione del Nord Stream 2. La cancelliera Merkel (Cdu-Csu) non ha ancora proferito parola, ma ha sempre difeso il pilastro delle politiche energetiche nazionali, pur senza fare sconti al Cremlino sull’Ucraina e su altri dossier. Per i conservatori ha parlato il referente della Cdu all’Onu, e deputato, Andreas Nick, preoccupato del caso di «sovranità nazionale». Rapporti commerciali ed energetici sacri, con la Russia, anche per i socialdemocratici: l’ex cancelliere Schröder, d’altronde, fu l’anima del consorzio Nord Stream; è in ottimi rapporti con Putin perciò fonte di imbarazzo per la stessa Spd, presiede il board del Nord Stream e accelera sul decollo del raddoppio.

La guerra degli Usa al Nord Stream 2 Germania Russia
Il presidente russo Vladimir Putin durante la costruzione del Nord Stream nel Mar Baltico. GETTY.

I RUSSI PER LE CONTROSANZIONI

La Camera di commercio russo-tedesca ha dichiarato «essenziale» per la sicurezza energetica dell’Europa la nuova conduttura nel mar Baltico e chiede in rappresaglia controsanzioni per gli Stati Uniti, per il Cremlino, una «concorrenza sleale che viola del diritto internazionale». In effetti, come ha fatto presente la rete di industrie tedesche che opera nell’Est, l’Ue ha concesso tutte le autorizzazioni richieste per raddoppiare il Nord Stream, che dal Mar Baltico in Germania si allaccia alla rete di distribuzione europea. La Russia avrebbe da perdere più di tutti dallo stop: con un Nord Stream 2 a regime aumenterebbe le forniture di gas al Nord Europa, il flusso di metano via mare di 110 miliardi di metri cubi all’anno superebbe i 75 miliardi trasportati attraverso l’Ucraina e la Slovacchia, la pipeline finora con la capacità maggiore.

Tutte le rotte del gas attraverso l’Europa dell’Est perderebbero forza e gli ex satelliti dell’Urss sarebbero più esposti alle pressioni russe

L’UCRAINA PUÒ RIESPLODERE

L’Ucraina più di tutti perderebbe almeno 2 miliardi di euro l’anno dalla Russia di diritti di transito. Il rinnovo dei contratti sul gas con l’Ucraina è una delle parti più spinose degli accordi che hanno tamponato precariamente la crisi russo-ucraina del 2014. Il fronte di guerra tra Mosca e Kiev potrebbe riaprirsi, e ancora una volta la Germania si troverebbe in prima linea nei negoziati, più che mai con forti interessi in gioco. Ma in generale tutte le rotte del gas attraverso l’Europa dell’Est perderebbero forza e gli ex satelliti dell’Urss sarebbero più esposti alle pressioni russe. Non caso la Polonia è tra i bastioni del no al Nord Stream 2, appoggiata a spada tratta dagli Stati Uniti che a sorpresa hanno inserito le misure sul gasdotto nel National defense authorization act per l’anno fiscale del 2020. Putin sperava anche di aggirare, con i nuovi contratti, le sanzioni per l’annessione della Crimea, ma non ci riuscirà

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L’accordo sulla Brexit tra l’Ue e Johnson aiuta ma non basta

Superato il voto e la scelta del divorzio, l'Ue trainata dalla Germania vuole ricostruire i rapporti economici con Londra. C'è un anno per un'intesa sul libero commercio. Von der Leyen: «Trarre il massimo dal minimo». Ma per gli economisti la separazione continuerà a pesare sul Pil.

Almeno è finita l’incertezza. Con la Brexit fissata al 31 gennaio 2020 l’Ue può cominciare a organizzarsi, «tutti uniti per costruire un’Europa più forte» spronano ora anche dalla Confindustria tedesca (Bdi), «in un mondo bilaterale, con Stati Uniti e Cina predominanti, dobbiamo combinare le nostre forze». Fino al 2016 in Germania nessun imprenditore si sarebbe mai augurato l’uscita del Regno Unito dall’Ue: l’isola dove ha trionfato il premier Boris Johnson, al voto anticipato del 12 dicembre 2019, era per la locomotiva d’Europa il trampolino di lancio verso gli Usa e verso la rete del Commonwealth. Una strettissima alleata commerciale. Dal referendum sulla Brexit la Germania ha allentato questo interscambio, dirottandolo in parte verso l’Olanda e proiettandolo verso ‘’Asia. Ma nonostante gli sforzi per riassestarsi è l’economia del’Ue che ha più sofferto per lo strappo. Tre miliardi e mezzo di euro persi solo nella prima metà del 2019 dagli esportatori tedeschi per gli effetti della Brexit.

METÀ DEL COMMERCIO BRITANNICO ÈCON L’UE

Fino alle turbolenze di ottobre, con Johnson sul precipizio di una hard Brexit, fornitori dall’Ue e importatori britannici erano paralizzati. Oltremanica si accumulavano merci, mentre nel Vecchio continente si rimandavano gli ordini, nell’eventualità concreta di un’uscita disordinata di Londra dai trattati economici e commerciali comunitari tra la fine del 2019 e il 2020 e quindi di un caos alle dogane e di merci bloccate. Per decenni circa la metà dell’interscambio del Regno Unito è avvenuto con l’Ue, il suo principale partner commerciale, a costi ridotti. Un import-export che tra il 2010 e il 2017 per un quarto del totale è stato con la Germania (Germania, Francia, Belgio e Olanda pesavano per il 60%), secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica britannico per un valore di quasi 850 miliardi di euro. Con le maggiori barriere tra il Regno Unito e l’Ue, uno studio della London School of Economics ha stimato per forza di cose una contrazione di questo flusso commerciale. Anche senza hard Brexit.

Johnson elezioni Regno Unito Brexit Ue
Il premier britannico Boris Johnson torna a al numero 10 Downing Street con pieno mandato. GETTY.

LONDRA PERDERÀ IL DOPPIO DEL PIL DELL’UNIONE

Sempre la stessa ricerca del 2016 ha calcolato una diminuzione, per la Brexit, delle entrate di tutta l‘Unione europea. Un calo del Pil, anche se a BoJo sembra importare poco, per il Regno Unito due volte tanto (tra i 31 e i 66 miliardi di euro) la perdita di ricchezza di tutti gli altri Paesi dell’Ue messi insieme (tra i 14 e i 33 miliardi di euro). Anche di fronte a questa prospettiva, all’investitura di luglio a Strasburgo la nuova presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha parlato di «sfide da affrontare insieme, legati ai valori condivisi che ci uniscono». Anticipando di mettere in campo «tutta la flessibilità possibile del Patto di stabilità, per creare un contesto fiscale più favorevole alla crescita» anche per rispondere ai contraccolpi di frenate nell’export, e nella produzione, a causa della Brexit e del nascente asse commerciale tra gli Stati Uniti e il Regno Unito sganciato dall’Ue.

Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile

Ursula von der Leyen

DOPO LA BREXIT IL LIBERO COMMERCIO DA NEGOZIARE

Von der Leyen spinge per una «partnership ambiziosa e strategica con il Regno Unito»: ricostruire con nuovi trattati quanto più la Brexit voleva distruggere. BoJo, senza più ormeggi in parlamento (364 seggi, per una maggioranza di 326 seggi), scalpita per «fare le valigie e andarsene», «senza se e senza ma» annuncia. Ma lo stesso accordo raggiunto da Johnson con Bruxelles questo autunno prevede quasi un anno di transizione, fino al 31 dicembre 2020, per negoziare nel dettaglio i termini dei rapporti tra il Regno Unito e l’Ue dopo la Brexit. «Un nuovo inizio, ci metteremo al lavoro più presto possibile e trarremo il massimo dal minimo», ha rilanciato la super-commissaria europea alla «chiara vittoria» del premier britannico, sull’onda delle reazioni positive delle Borse e dei mercati. «Gli imprenditori riprendono a respirare, finalmente chiarezza» è il commento anche di der Spiegel. Per la Confindustria tedesca la «nebbia di Londra si dissolve»: almeno gli imprenditori sanno di che morte morire. 

Johnson elezioni Regno Unito Brexit Ue
Il primo ministro britannico Boris Johnson a un comizio sulla Brexit per le Legislative del 2019. GETTY.

IN GERMANIA COLPITI IL SETTORE DELL’AUTO E IL FARMACEUTICO

In tre anni il Regno Unito è stato declassato da quinto a settimo partner commerciale della Germania: un volume d’affari di oltre 8 miliardi di euro sfumato, secondo i calcoli di Deloitte. Il binomio tra i dazi di Trump all’Ue sull’acciaio e la paralisi per la Brexit ha colpito soprattutto il comparto tedesco dell’auto (-23% di esportazioni verso la Gran Bretagna dal 2016 per 6 miliardi di euro bruciati), per il quale il mercato britannico era secondo solo a quello statunitense. Non a caso, nei distretti tedeschi dell’acciaio e dell’automotive quest’anno migliaia di addetti sono finiti in cassa integrazione, tra la Ruhr e la Saarland, mentre le case automobilistiche si apprestano a massicci tagli del personale, e anche l’export del farmaceutico è molto penalizzato. Land ricchi e prosperosi come la Baviera e il Baden-Württemberg, ai massimi tassi di occupazione, risentono dell’effetto Brexit: gli esperti prevedono perdite ancora maggiori nel secondo semestre del 2019, con ripercussioni anche sull’indotto italiano della componentistica.

Non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza cala ma resta alta

Kiel Institute for the World Economy

TRUMP CONTRO UE: IL NUOVO BRACCIO DI FERRO

A settembre la locomotiva d’Europa ha frenato più del previsto, -0,6% della produzione industriale. La crisi delle spedizioni navali, anche per la guerra commerciale tra Usa e Cina, ha esposto nel 2019 diverse banche regionali tedesche a misure di salvataggio. Con una Brexit pianificata al via, se non altro lo stallo è superato: la «catastrofe di un no deal» temuta dall’Associazione per il commercio estero tedesca (Bga) è scongiurata, l’Europa è attrezzata e presto potrà ricominciare a investire verso il Regno Unito. Ma Trump preme molto su Johnson per sganciarsi dall’orbita Ue, gli osservatori economici avvertono che anche il 2020 non sarà una passeggiata. Per il Kiel Institute for the World Economy (IfW)«non c’è una exit dalla Brexit, l’insicurezza è diminuita ma resta alta». Per l’IMK di Düsseldorf la «Brexit continuerà a pesare nei prossimi mesi sulla crescita britannica come su quella tedesca». Anche perché all’Istituto Ifo di Monaco sono molto scettici che «si concordi un nuovo contratto sul libero commercio entro il 2020».


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Perché il Mes rischia di mandare l’Italia in Serie B

La riforma del fondo salva-Stati crea un'Eurozona a due velocità. E il nostro Paese, il secondo più indebitato dell'Ue dopo la Grecia, è fuori dai parametri di sostenibilità. Così i Btp finiscono nel mirino delle speculazioni. Anche per i vincoli dei tedeschi sull'unione bancaria. I no degli esperti.

Riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità per finanziare gli Stati dell’euro in gravi difficoltà in base alla sostenibilità dei loro debiti. Poi un’unione bancaria a patto che si valuti il tasso di rischio dei titoli sovrani (Btp) o con tetti alla loro detenzione. Su entrambe le manovre di politica monetaria dell’Unione europea l’Italia è esposta significativamente per il debito pubblico al 135% del Pil – molto oltre la soglia massima del 60% del Fiscal compact – e per i circa 400 miliardi di euro in Btp custoditi nelle banche del Paese, circa un quinto delle emissioni totali.

RISOLUZIONE APPROVATA DALLE CAMERE

Non a caso prima del Consiglio europeo del 12 e del 13 dicembre 2019, sulle modifiche al Fondo salva-Stati, il governo giallorosso ha messo all’approvazione di Camera e Senato una risoluzione per escludere in particolare «interventi di carattere restrittivo sulla dotazione di titoli sovrani da parte di banche e istituti finanziari, e comunque la ponderazione dei titoli di Stato».

L’APPELLO PER IL NO SU MICROMEGA

La lente del Mes sull’indebitamento (l’Italia è il secondo Paese nell’Ue per debito pubblico dopo la Grecia), e di conseguenza sui suoi mattoni dei Btp, ha fatto sobbalzare anche economisti come il governatore di Bankitalia Ignazio Visco o come Carlo Cottarelli dell’Osservatorio sui conti pubblici. Allarmati dalla possibilità, scongiurata all’ultimo vertice dell’Eurogruppo, che per accedere al nuovo Fondo salva-Stati i Paesi con un debito insostenibile (in Italia per il 70% in mano agli italiani) dovessero necessariamente ristrutturarlo. La prospettiva getterebbe le banche del Paese in pasto alle speculazioni dei mercati ben prima dell’ipotesi di salvataggio di uno Stato, incentivandolo. Scrivono 32 economisti nel loro appello su Micromega “No al Mes se non cambia la logica europea”, di non voler pensare che la «strada individuata dai nostri partner europei per forzare una riduzione del debito pubblico italiano sia quella di provocare una crisi».

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Il tedesco Klaus Regling, a capo del Mes, nel 2014 con l’allora capo della Bce, Mario Draghi. (Getty).

PIÙ VULNERABILI AI MERCATI

Il pericolo di una spirale per l’Italia era noto agli ultimi governi e al mondo finanziario ben prima che il dibattito sul Mes si infiammasse, visto che i capitoli sulla riforma sono all’esame dei Paesi membri dell’eurozona dal 2018. Ma che alla fine siano spariti i passaggi sulla ristrutturazione automatica del debito non ripara dal rischio di avvitamento. Vladimiro Giacché, presidente del Centro Europa ricerche, dice a Lettera43.it: «Basta che resti la divisione tra i Paesi con i requisiti per una fast line sui finanziamenti e quelli senza, perché la vulnerabilità sia da subito molto chiara ai mercati». Un rating targato Ue istituzionalizzerebbe un’Europa a due, tre velocità. E le banche, anche quelle francesi con in pancia il 16% dei Btp, inizierebbero a disfarsi dei titoli di Stato con minori garanzie. A maggior ragione se nell’Ue prendesse corpo la proposta sull’unione bancaria del ministro alle Finanze tedesco Olaf Scholz, con garanzie e limitazioni sui titoli dei debiti sovrani.

CRISI INTERNE MA CONTAGI LIMITATI

Gli economisti della lettera sul “No al Mes” ammoniscono: «Uno strumento che dovrebbe aumentare la capacità di affrontare le crisi può trasformarsi nel motivo scatenante di una crisi». Il paradosso della riforma è che se anche «i giudizi sul debito» facessero «precipitare tutto il sistema creditizio» della terza economia dell’eurozona, cioè dell’Italia, sempre grazie al Mes le altre economie dell’euro sarebbero più protette rispetto, per esempio, agli effetti della crisi del debito sovrano della Grecia nel 2010. Il Fondo Ue salva-Stati è stato istituito nel 2012 proprio per ridurre i danni del contagio, e allo stesso scopo viene perfezionato. Giovanni Dosi dell’Istituto di economia della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, tra i firmatari dell’appello, spiega a L43: «È un meccanismo per isolare i mercati finanziari del Nord. Con questa riforma le probabilità di crisi interne in alcuni Stati dell’Ue aumenteranno, mentre diminuirà ancora il rischio sistemico per l’Europa».

I CRITERI DEL FISCAL COMPACT NEL MES

Anche uno studio del Centro Europa ricerche mette in guardia sui «nuovi strumenti di sostegno finanziario dell’Eurozona» che «si baserebbero ab origine su una distinzione fra buoni e cattivi». Le economie al momento più sensibili al monitoraggio del Mes sono nell’ordine la Grecia, l’Italia, la Spagna e il Portogallo. «Ed è evidente che il nostro Paese, al contrario di altri, non possa soddisfare a priori alcuni dei criteri inseriti per definire la sostenibilità», precisa Dosi, «oltre al tetto del debito sotto il 60% del Pil, a nostro svantaggio c’è il calcolo del saldo di bilancio strutturale pari o superiore al valore minimo di riferimento. In questo modo non si esce dalla logica dell’austerity, tanto più che con la riforma si rafforza il peso sulla politica del Mes, un organo tecnico con ai vertici economisti e banchieri centrali tedeschi e francesi». La combinazione del nuovo Fondo salva-Stati e dell’unione bancaria alla tedesca, aggiunge, sarebbe poi «esplosiva» per la tenuta dei Btp italiani.

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Christine Lagarde, nuova presidente della Bce, con il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz. (Getty).

CONVERGENZA SULL’UNIONE BANCARIA

Va detto che mentre sul Mes si accelera per chiudere all’inizio del nuovo anno, sull’unione bancaria l’intesa è più lontana e resta problematica. Proprio la Germania – alle prese con una serie crescente di problemi bancari (di istituti nazionali e locali) sia a causa del peso dei derivati sia per la frenata dell’economia reale nel 2019 – quest’autunno ha aperto il dibattito nell’Ue per creare un’assicurazione comune che sia di aiuto nelle crisi bancarie dell’eurozona. Proponendo però valutazioni di rischio per i titoli di Stato, piuttosto che per prodotti opachi come i derivati. Di nuovo, un concept ritagliato sulle esigenze finanziarie di Stati come la Germania, piuttosto che come l’Italia. «C’è una convergenza in una direzione. Con la riforma del Mes, la proposta di completamento dell’unione bancaria, e anche con le pressioni per lo stop al Quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli dalle banche da parte della Bce per stimolare la crescita, si accende un faro sul debito pubblico».

Sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes


Vladimiro Giacché, Centro Europa Ricerche

I COEFFICIENTI DI RISCHIO SUI BTP

Segnali chiari per i mercati e di impatto per i risparmiatori, come lo fu nel 2016 in Italia l’introduzione del bail-in: il «salvataggio interno» alle banche imposto dalla direttiva Ue che sgrava gli Stati dai salvataggi con fondi pubblici, scaricando i dissesti sugli azionisti e sugli investitori privati. Prima del bail-in obbligazionisti e correntisti non correvano rischi particolari, perché le banche non potevano fallire: il solo via libera alla nuova legge costò al sistema bancario italiano una perdita di capitalizzazione di 46 miliardi. Lo stesso scossone si avrebbe con i coefficienti di rischio sui titoli di Stato, premessa per la loro svalutazione. «Oltretutto, anche con una cornice ideale per le banche tedesche, i salvataggi resteranno complicati anche per i tedeschi a causa delle rigidità sulle norme del bail-in» conclude il presidente del Centro Europa ricerche, «sarebbe più utile per tutti modificare le regole sul bail-in che non completare l’unione bancaria a condizioni inaccettabili o modificare il Mes».

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I temi al centro dell’incontro fra Di Maio e Lavrov

Il ministro degli Esteri ha chiesto all'omologo russo di rimuovere le sanzioni sul parmigiano reggiano. E sulla Libia ha invitato Mosca ad agire nell'alveo della Conferenza di Berlino.

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha incontrato a Roma Sergej Lavrov, capo della diplomazia russa. Tanti i temi al centro del bilaterale: dalla guerra in Libia alle sanzioni che l’Unione europea ha imposto alla Russia, passando per le contromisure di Mosca che hanno colpito, tra le altre cose, anche le esportazioni italiane di parmigiano.

«Questo confronto conferma l’importanza della Russia per l’Italia come interlocutore fondamentale», ha detto Di Maio in conferenza stampa, «ho rappresentato al ministro Lavrov le nostre preoccupazioni per l’intensificarsi della guerra civile in Libia, ribadendo che per noi non esiste una soluzione militare». Mosca, tuttavia, appoggia il generale Khalifa Haftar e sarebbe presente sul campo con alcune migliaia di mercenari. Una scelta opposta rispetto a quella fatta da Roma, che al contrario sostiene il governo del premier Fayez al-Serraj.

In Libia, secondo Di Maio, ci sono «troppe interferenze, mentre ogni iniziativa dovrebbe entrare nell’alveo della Conferenza di Berlino. Non perché ci sian una presunzione di superiorità europea, ma perché se tutti sono impegnati a lavorare sul cessate il fuoco è importante non promuovere fughe in avanti».

Quanto alle sanzioni, Di Maio ha detto che l’Italia «si muove nel solco dell’Unione europea, ma vogliamo promuovere una riflessione politica che preveda gli effetti sulle nostre aziende delle sanzioni e delle contromisure russe. Allo stesso tempo servono passi avanti sugli accordi di Minsk, fondamentali per riuscire a scongelare la situazione». Il titolare della Farnesina ha quindi chiesto a Lavrov di «rimuovere le sanzioni sul parmigiano reggiano», perché a suo giudizio «non rientrano nei parametri di quelle ideate nei confronti dell’Unione europea».

Il leader del M5s ha infine annunciato che a luglio sarà in Russia per ricambiare la visita e per partecipare all’Innoprom, la fiera sulla tecnologia.

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La riforma del Mes e l’unione bancaria viste da Berlino

Scholz, vice di Merkel, ha un piano soft per assicurare i risparmi nell’Ue. Anche attraverso il fondo Salva-Stati. Ma restano le resistenze della Bundesbank. E, sullo sfondo, aleggia la crisi della Grande Coalizione. L'analisi.

L’Italia è il secondo Paese con il debito pubblico più alto dell‘Eurozona dopo la Grecia. Ma è anche la terza potenza dell’area dopo la Germania e la Francia.

Su questa contrapposizione si basa la dialettica tra il ministro delle Finanze italiano Roberto Gualtieri e l’omologo tedesco Olaf Scholz. Appendice della battaglia che sta portando avanti il nostro Paese per strappare più concessioni possibili sul Fondo salva-Stati Ue (il Meccanismo europeo di stabilità, Mes), come parte della riforma complessiva dell’Unione economica e monetaria per un’unione bancaria tra i gli Stati membri.

Il premier Giuseppe Conte c’è, la cancelliera Angela Merkel all’apparenza molto meno. Preferisce stare dietro le quinte, disposta molto più di anni fa a sostanziali compromessi. Ma solo se costretta e soprattutto senza darlo a vedere, per non scatenare un vespaio.

IL SILENZIO DI MERKEL

In un mese Merkel non si è espressa sulla proposta di unione bancaria del suo ministro e vice socialdemocratico Scholz, che in Italia ha fatto sollevare i vertici di Bankitalia e di Palazzo Chigi. Ma che in Germania non è mai diventata oggetto di dibattito tra i conservatori (Cdu-Csu) e i socialdemocratici (Spd) della Grande coalizione. Si attendeva, e non a torto, l’esito della consultazione tra gli iscritti del partito socialdemocratico per la nuova leadership. Al primo turno era prevalso proprio il vice-cancelliere che, anche per accendere i riflettori su di sé, con un editoriale sul Financial Times aveva presentato la proposta di unione bancaria come un modo «per sbloccare lo stallo che si ripercuote sul mercato interno e sulla fiducia dei cittadini europei». Scholz, ex ministro del Lavoro del Merkel II e sindaco di Amburgo fino alla seconda chiamata a Berlino nel 2018, tra i più borghesi e competenti della Spd, sperava di dare così prova di leadership. Aumentando sia il suo consenso interno e sia la visibilità nell’Ue.

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Angela Merkel (Cdu) con il vice cancelliere Olaf Scholz (Getty).

GLI IMPRONUNCIABILI EUROBOND

Il ricambio all’Europarlamento e a Bruxelles – determinato dal sì di Merkel al presidente francese Emmanuel Macron – permetteva a Scholz di distanziarsi dalla rigida austerity del predecessore Wolfgang Schäuble. Nell’Ue c’erano, e ci sono, i margini per compiere dei progressi. La Francia e la Commissione Ue guardano con favore all’iniziativa del ministro tedesco, sebbene il vice di Merkel non possa permettersi (né probabilmente neanche la vorrebbe) la parola eurobond – da sempre amata dall’Italia – per lo stesso motivo per il quale la cancelliera resta così cauta. Il silenzio della Germania è dovuto però a ragioni opposte rispetto a quelle che hanno scatenato il frastuono dell’Italia su Mes e unione bancaria all’Eurogruppo del 4 dicembre a cui seguirà il Consiglio europeo del 12. Il cuore finanziario protezionista della Bundesbank rema contro, come i Paesi nordici e il blocco sovranista dell’Est, anche alla proposta ponderata di Scholz, ben accolta invece a sorpresa da parte delle banche tedesche.

UN’ASSICURAZIONE DELL’UE CONTRO L’INSOLVENZA

La cancelliera deve fronteggiare il dissenso dei bavaresi (Csu) e di frange più a destra della Cdu. Ma a maggior ragione in queste settimane l’Italia può spingere l’acceleratore sulle sue pretese, di fronte a una Germania indebolita dalla frenata economica e da una Grande coalizione tornata molto fragile. La linea moderata di Scholz è sconfessata dalla maggioranza degli iscritti ai socialdemocratici, che gli ha preferito Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans, il duo dell’ala più solidale e comunarda, probabilmente anche più favorevole agli eurobond per spalmare i debiti dell’Ue. Il vice-cancelliere, visibilmente deluso, partecipa all’Eurogruppo fresco di sconfitta mentre il quarto governo Merkel traballa: il progetto di rilancio della Spd a sua immagine è fallito. Ma se non altro l’intenzione di «riattivare un dibattito morto» nell’Ue ha avuto successo: la sua proposta di creare un sistema comunitario di assicurazione sui depositi, anche attraverso il paracadute del fondo Salva-Stati europeo, per integrare il settore finanziario dell’Eurozona a tutela dei risparmiatori degli istituti insolventi, ha un senso per tutti i 19 Stati nell’euro.

Germania Scholz unione bancaria Mes Conte
Il premier italiano Giuseppe Conte con il ministro delle Finanze Roberto Gualtieri (Getty).

UN’UNIONE A IMMAGINE DELLA GERMANIA?

Ma è da evitare che con l’unione bancaria si ripetano i soliti squilibri dell’euro a vantaggio della Germania, per i rapporti di forza che hanno prodotto anche i vincoli del Mes attuale, in vigore dal 2012 e figlio dell’austerity di Schäuble. Scholz non è così fiscale, vuole mitigare: «Accettare un meccanismo comune di assicurazione dei depositi non è un piccolo passo per un ministro delle Finanze tedesco», ha scritto pensando a un sistema di riassicurazione che aiuterebbe i fondi nazionali a coprire i risparmi bancari fino a 100 mila euro. Il contraltare dell’unione bancaria sarebbe valutare i titoli di Stato in base al loro fattore di rischio, impiccando l’Italia (con un debito pubblico pari al 138% del Pil) e gli altri Stati dell’Eurozona esposti sui Btp come la Spagna. Allora sì, costretti a interventi di salvataggio del Mes. Comprensibile che il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e Gualtieri siano inorriditi di fronte alla prospettiva di un possibile scaricabarile a Bruxelles sui bond statali, dati in pasto allo spread assieme alle banche italiane che ne sono piene. 

IL NODO DEUTSCHE BANK

Va poi capito quanto bisogno abbia ora anche la Germania di un’unione bancaria. Prima della crisi di Deutsche Bank e del calo interno di produzione a causa dei dazi degli Usa all’Ue e alla Cina, i fortini finanziari di Francoforte dietro i governi di Berlino respingevano piani europei che esponessero i contribuenti tedeschi ad alleggerire i crac in altri Paesi. Abbattere le barriere nazionali – con particolari garanzie – faciliterebbe però di questi tempi la fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank, fallita per il rischio che il secondo gigante tedesco affondasse sotto il peso del primo. Tra le precondizioni per l’unione bancaria, nella proposta di Scholz non si accenna alle masse di derivati presenti in gruppi come Deutsche Bank. Mentre si chiede per esempio di ridurre sotto il 5% dei crediti totali i crediti inesigibili che affliggono gli istituti italiani in sofferenza. Non c’è da stupirsi se le reazioni della finanza su Scholz riflettono gli interessi in gioco: per Deutsche Bank «carte molto benvenute», per Commerzbank un’unione che «rafforzerebbe l’Europa». Gruppi tedeschi più sani sono molto più prudenti.

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Europarlamento contro Consiglio: «La proposta sul bilancio fa fallire l’Europa»

Gli eurodeputati contro la bozza della presidenza finlandese che programma solo 1,07% del reddito per le politiche Ue. Il ministro per gli Affari europei Amendola: l'Italia è «assolutamente contraria».

Emmanuel Macron ne aveva fatto la sua scommessa. Con il ministro dell’Economia dell’Eurozona bocciato dalla Germania, con un vero fondo salva Stati sotto controllo del governo, almeno l’obiettivo di un vero bilancio europeo doveva essere centrato. E invece, quello che è maturato sotto la presidenza socialista finlandese è un compromesso che, complice la Brexit, definire al ribasso è poco. Il parlamento europeo non a caso lo ha bocciato sonoramente.

«CON QUESTE RISORSE PROGRAMMA IMPOSSIBILE»

La posizione della squadra di eurodeputati che dovrà negoziare il dossier con il Consiglio e la Commissione Ue è chiara: «La proposta della presidenza di turno finlandese per il bilancio Ue 2021-2027, inviata il 2 dicembre alle rappresentanze dei Paesi membri, «condanna l’Unione europea al fallimento» perché sarà «impossibile mettere in pratica» il programma della Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen.

TROPPO POCO PER INVESTIMENTI, CLIMA, SICUREZZA E GIOVANI

Helsinki ha messo sul tavolo un bilancio per il prossimo settennato di programmazione pari all’1,07% del reddito nazionale lordo europeo. La Commissione ha proposto l’1,11%, mentre l’Eurocamera vorrebbe l’1,3%. Oggi, il bilancio 2014-2020 vale l’1,16% del Rnl Ue a 27 (Regno unito escluso). «La proposta della presidenza finlandese è molto al di sotto delle aspettative del Parlamento per quanto riguarda il rispetto degli impegni dell’Ue sugli investimenti, i giovani, il clima e la sicurezza», ha dichiarato in una nota il presidente della commissione bilanci del Pe, Johan Van Overtveldt. Il Pe critica anche il fatto che il documento faccia una «menzione molto limitata della riforma del sistema delle risorse proprie» del nuovo bilancio.

ITALIA «ASSOLUTAMENTE CONTRARIA»

Il ministro per gli affari europei Vincenzo Amendola in un incontro con le imprese appartenenti al Gii, Gruppo di iniziativa italiana, ha detto che l’Italia è «assolutamente contraria» alla proposta di bilancio per il periodo 2021-2027 presentata dalla presidenza di turno finlandese dell’Ue. Amendola ha criticato in particolare i tagli prospettati per la politica di coesione osservando che quest’ultima, insieme alla politica agricola (che invece registrerebbe un aumento delle risorse), vengono comunque trattate come “vecchi arnesi”, senza comprendere che possono essere il motore del New Green Deal. «Rifiutiamo questa logica e chiediamo di lavorare molto di più sulle nuove risorse», ha osservato il ministro che era accompagnato dal rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue, ambasciatore Maurizio Massari. «Non credo che la proposta della Finlandia raggiungerà alcun risultato».

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Lagarde conferma la linea Draghi: «La politica Bce resta espansiva»

La linea Draghi per ora non si tocca, anche perché le decisioni prese nelle ultime fasi della presidenza italiana all’Eurotower..

La linea Draghi per ora non si tocca, anche perché le decisioni prese nelle ultime fasi della presidenza italiana all’Eurotower hanno blindato le politiche dei prossimi mesi. «La Bce rimane risoluta nel perseguire il proprio mandato» e la posizione di politica monetaria accomodante, un pilastro della domanda interna durante la ripresa, «rimane al suo posto», ha detto la presidente della Bce, Christine Lagarde, durante un’audizione all’Europarlamento. a crescita dell’Eurozona rimane debole, con il Pil in crescita solo dello 0,2% su base trimestrale nel terzo trimestre 2019. Questa debolezza è stata dovuta principalmente a fattori globali», ha detto Lagarde, durante un’audizione all’Europarlamento. «Le prospettive dell’economia mondiale rimangono fiacche e incerte. Questo riduce la domanda di beni prodotti nell’Eurozona e influisce anche sul clima delle imprese e gli investimenti».

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Abbiamo un debito fuori controllo ma temiamo il Mes

Più i sovranisti attaccano in modo sconclusionato il Salva Stati e più ottengono l'effetto di un Trattato scritto in modo improvvido: confermano ai mercati che i nostri conti pubblici sono davvero qualcosa da cui stare alla larga.

Mes sta per Meccanismo europeo di stabilità (o Esm, European stability mechanism), meglio noto agli italiani come Meccanismo salva Stati. «E rovina famiglie», aggiungono ora molti nel nostro Paese. Quando tutto è stato detto sul Mes, quando attorno a esso sono state combattute tutte le battaglie possibili, commessi (da parte del governo Conte I e Conte II) vari errori di mancata informazione e coinvolgimento del parlamento e da parte di Matteo Salvini, di Giorgia Meloni e di altri sono state fatte squillare tutte le trombe più stonate del nazionalismo anti Ue, restano due domande ineludibili.

COSA RESTA DEL POLVERONE SUL MES

La prima e più importante è questa: ma quanto pensiamo di potere andare avanti con un debito pubblico in costante crescita e non lontanissimo ormai dal ferale traguardo psicologico del 140% del Prodotto interno lordi (Pil) e dei 2.500 miliardi di euro, superato il quale tutto si complicherà ancor più? Siamo infatti oggi a 2.439 miliardi e al 137,7% del Pil. Secondo la Commissione Ue, a politiche costanti il debito aumenterebbe di 10 punti di Pil in meno di un decennio; secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi) salirebbe – e anche questa come quella dell’Ue è una previsione del luglio 2019 – al 160% del Pil in circa 15 anni. La classe politica italiana – e con lei molti milioni di cittadini – rifiuta di porsi questa domanda; quando altri la mettono nero su bianco si adontano, rifiutano di ammettere che il primo problema è il debito in sé, non il fatto che gli altri ce lo ricordino.

I DUBBI SENSATI DI GALLI

La seconda domanda recita: ma questo meccanismo del Mes a noi conviene? Chi ha additato molto di recente tutti i problemi e indicato la necessità di alcuni cambiamenti nella riforma del trattato Mes, come l’economista Giampaolo Galli in una recente audizione alla Camera, ha comunque una risposta chiara, che quanti fra le file della Lega e altrove hanno utilizzato la parte critica del suo intervento si sono regolarmente dimenticati di menzionare.

Le proposte di riforma formulate dall’Eurogruppo presentano aspetti positivi, ma anche alcune delle criticità per un Paese come l’Italia

Giampaolo Galli, economista

«Il Mes», dice Galli concludendo, «è un’istituzione molto utile che deve continuare ad avere il pieno sostegno dell’Italia. Le proposte di riforma che sono state formulate dall’Eurogruppo (i ministri economici della zona euro, ndr) dello scorso giugno presentano aspetti positivi, ma anche alcune delle criticità per un Paese come l’Italia…». Ugualmente parziale è stato l’uso delle parole del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, che comunque ha chiaramente espresso preoccupazione per alcuni passaggi della proposta di riforma. Va aggiunto il recente e chiarissimo avvertimento del presidente Abi Antonio Patuelli: se il testo definitivo Mes avrà clausole che di fatto indeboliscono da subito la credibilità del debito pubblico italiano le banche, che hanno oggi circa 400 miliardi di titoli sovrani italiani in portafoglio, ridurranno gli acquisti.

IL SALVA STATI, PICCOLO FONDO MONETARIO DEI PAESI EURO

Il Mes è nato nel 2011 per volontà degli allora 17 e oggi 19 Paesi dell’area euro, della Commissione e della Bce, ed è attivo dal 2012; inglobava forme già esistenti ma meno strutturate di aiuto dell’Unione monetaria a chi fra i Paesi membri fosse in difficoltà, in particolare di fronte a una sfiducia dei mercati e a un rischio di default. I primi crediti sono andati a Portogallo, Irlanda e Grecia e completano la lista di quanto concesso a Spagna e Cipro. È una specie di “piccolo” Fondo monetario dei Paesi euro. Come il Fondo fa dal 1946 per un numero crescente di Paesi – 26 all’inizio e oggi 189 – il Mes indica le condizioni del suo aiuto, che possono arrivare a una ristrutturazione del debito, come noto con conseguenze, tra l’altro, per i creditori.

Il leader della Lega Matteo Salvini.

In definitiva, il Mes fa quello che la Bce, data la sua natura sovranazionale, ha difficoltà a fare, e cioè il prestatore di ultima istanza. È autonomo dalla Commissione, che come la Bce partecipa ai suoi lavori ma senza diritto di voto, e ha una struttura con sede a Lussemburgo, quasi 190 dipendenti, un segretario generale di fresca nomina, uomo chiave della struttura, che è italiano, Nicola Giammarioli (quindi non è vero che non c’è nessun italiano, come detto da Claudio Borghi). Ha un capitale di 500 miliardi di euro assicurato, e di cui solo una quota minore è disponibile, dagli Stati dell’euro e proporzionale alla loro quota di partecipazione alla Bce; il Mes inoltre si finanzia all’occorrenza sul mercato obbligazionario con titoli garantiti dal sistema Ue.

ABBIAMO UN DEBITO FUORI CONTROLLO MA TEMIAMO IL MES

Sarebbe lungo elencare nei dettagli le “criticità” per l’Italia e altri, dettagli tutti importanti in questioni di questo tipo e tutti analizzati ad esempio da Galli, il cui chiarissimo intervento alla Camera, una decina di cartelle, è reperibile sul sito personale Giampaologalli.it. Basti dire che ciò che viene lamentato dai critici – in primis Matteo Salvini, in modo però troppo enfatico, catastrofico e irresponsabile, tipico della permanente campagna elettorale italiana – è la inevitabile creazione di due categorie di Paesi, i “buoni” e i “cattivi”. I “cattivi” sarebbero quindi subito svantaggiati sui mercati. Questo vuol dire Salvini quando afferma in vari modi che il nuovo Mes danneggia gli italiani.

Arrivato a un certo punto ogni debito pubblico è un rischio nazionale e danneggia anche i partner di un’unione economica e monetaria

Questo ovviamente va evitato a ogni costo, anche perché ci sono due verità solo apparentemente contraddittorie che convivono: la prima è che arrivato a un certo punto ogni debito pubblico è un rischio nazionale e danneggia anche i partner di un’unione economica e monetaria; la seconda è che per valutare non questo debito, fatto oggettivo, ma la sua sostenibilità va considerato il quadro complessivo di un Paese, dai conti con l’estero al risparmio ad altro, tutti fattori che l’Italia cita molto spesso a sostegno della chiara sostenibilità della sua situazione. È anche per questo che, giustamente, insieme ad alcuni altri Paesi l’Italia è tiepida verso una riforma che accentua l’autonomia iniziale del Mes rispetto alla Commissione Ue, sede più adatta per valutazioni politiche, mentre con il Mes sono i governi e il Consiglio che preferiscono tenere il pallino in mano.

uscita italia euro conseguenze borghi
Claudio Borghi.

Quello che ci dimentichiamo volentieri è la realtà dei conti pubblici e il fatto che prima o poi qualcuno, i mercati in ultima istanza e prima ancora eventualmente il Mes, ci diranno di usarla quella massa di risparmio per avviare la discesa del debito, ad esempio con un prestito forzoso e quindi assai doloroso. Se va avanti così, se nessuna finanziaria riesce a invertire la rotta dei conti pubblici, non potrà che accadere, a qualche punto nel prossimo decennio. E allora, sarà colpa del Mes, di Bruxelles, o di Berlino, o sarà prima di tutto colpa nostra, e dei politici che non solo non ci hanno messo sull’avviso, non solo non ci hanno provato, ma dicevano che era tutta «colpa dell’Europa»? Il senatore Salvini dovrebbe guardare per primo con grande timore a questo redde rationem.

QUELLE PAROLE DI BORGHI PERICOLOSE PER I MERCATI

Certo, Berlino vuole ora, con altri, la riforma Mes perché ha il problema di alcune sue banche a partire da Deutsche Bank ma non solo, e presto sarà assai costoso salvarle, e vuole dare più sostanza alla triade Mes -Unione bancaria- avvio (prudente) di un bilancio comune dell’area euro. Ma è proprio su questo do ut des che si doveva e si deve trattare, mercanteggiare in perfetto stile Ue, creandosi alleati, e difendendo le buone ragioni italiane. Indebolite da tempo, tuttavia, dall’intrattabilità del debito. Oggi Salvini minaccia querele, fa circolare sindromi da complotto anti italiano, parla di tradimento, termine cruciale per ogni nazionalista quando passa dalla contesa politica alla criminalizzazione dell’avversario. Ma Salvini e con lui Luigi Di Maio non si sono macchiati di nessuna forma di tradimento quando per propri vantaggi elettorali hanno aggiunto ai conti nazionali voci di spesa ingenti e discutibili come il Reddito di cittadinanza e Quota 100?

La polemica sul Mes ha fatto uscire in fretta e alla grande Borghi dal sottoscala dove la apparente semi-conversione salviniana sui temi europei

E come fa l’ineffabile Claudio Borghi a tuonare contro il «pericolo devastante» del nuovo Mes, lui che ha dato – l’anno scorso soprattutto – un contributo notevole con le sue parole avventate a indebolire il valore dei Btp e di altri titoli sovrani italiani, per arrivare poi al capolavoro monetario da Repubblica delle banane dei minibot? La polemica sul Mes ha fatto uscire in fretta e alla grande Borghi dal sottoscala dove la apparente semi-conversione salviniana sui temi europei, vana illusione, sembrava averlo confinato. Ora è di nuovo un combattente per la libertà dall’Europa e dall’euro, emblema di una nazione alla deriva. Più attaccano in modo sconclusionato il Mes e più fanno ciò che ugualmente fa e farebbe un Trattato scritto in modo improvvido sui temi del debito: confermano ai mercati nel dubbio che i nostri conti pubblici sono davvero qualcosa da cui stare alla larga. L’ultima asta dei titoli di Stato italiani è risultata infatti la settimana scorsa un mezzo flop.

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Gli aggiornamenti del dibattito sul Mes del 30 novembre

Di Maio torna a invocare miglioramenti del trattato già criticato dal Pd. Lunedì 2 dicembre Conte riferisce in Senato.

L’appuntamento in Senato è fissato per lunedì 2 dicembre alle ore 15.30, quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si presenterà a Palazzo Madama per un’informativa sulle modifiche al Trattato sul Meccanismo europeo di stabilità. Ma la polemica è già iniziata da tempo, con le accuse di Salvini al premier e le minacce di querela di quest’ultimo. Sabato 30 novembre, a due giorni dall’incontro in parlamento, è stato Luigi Di Maio a parlare a lungo di un tema che lascia non poche perplessità all’interno della maggioranza stessa: «L’Italia non può pensare di firmare al buio», ha detto il leader pentastellato, «è bene che ci sia una riflessione».

«SERVONO MIGLIORAMENTI»

Il Ministro degli Esteri ha risposto alle domande dei giornalisti al Villaggio contadino di Natale allestito a Matera dalla Coldiretti. Il Mes «come tanti altri trattati, ha bisogno di tanti miglioramenti», ha detto, aggiungendo che il fondo salva Stati «è solo una parte: c’è l’Unione bancaria, c’è l’assicurazione sui depositi. Quando avremo letto tutto, potremo verificare se il pacchetto convenga all’Italia oppure no. Secondo me, è sano per l’Italia non accelerare in maniera incauta ma difendere i propri interessi, aspettando la fine dei negoziati anche su tutti gli altri aspetti di questo pacchetto».

DI MAIO PREOCCUPATO DALL’UNIONE BANCARIA

A preoccupare Di Maio, più del Mes, è l’Unione bancaria. «L’assicurazione sui depositi va messa a posto: quindi ci sono dei negoziati in corso ed è bene che questi negoziati proseguano con il protagonismo dell’Italia che sicuramente negli ultimi mesi ha avuto difficoltà perché c’è stato un cambio di governo». Di Maio ha aggiunto che «anche il ministro Gualtieri lo ha detto: in questo momento il negoziato ha tutte le possibilità di poter migliorare questo trattato».

FRANCESCHINI: «ORA I FATTI»

Il dialogo all’interno dell’esecutivo prosegue. «Sul Mes in queste ore ci giochiamo la credibilità del Paese, l’andamento dello spread e dei mercati», ha detto a Milano il ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini, all’assemblea dell’area del Pd di Base Riformista. «Non si può giocare con il fuoco. Prendo per buone le parole di Di Maio di questa mattina e da qui a lunedì vedremo se alle intenzioni seguiranno i fatti e i comportamenti, perché ci sono anche i comportamenti in politica».

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Di Maio: «La riforma del Mes stritola l’Italia». Ma difende Conte

Il capo politico del M5s dice che il vertice dei deputati grillini non era contro di lui. E sul premier: «Non ha firmato nulla».

Cerca di rassicurare Luigi Di Maio, chiamato in causa nella polemica sul Mes, il meccanismo europeo di stabilità direttamente dai suoi parlamentari. Il premier «non ha firmato nulla», e il vertice che i parlamentari M5s chiedono non è contro di lui, ma è giusto fare il punto. Luigi Di Maio interviene con un’ intervista in apertura del Corriere sulla vicenda del meccanismo di stabilizzazione finanziaria europea: «una riforma del Mes che stritola l’Italia non è fattibile». E dopo le parole del leader dem Zingaretti che sollecitava a ‘trovare un’anima’, dice di vedere un clima positivo, ma invita a non rovinarlo con slogan per l’elettorato. Dopo la manovra, spiega, nel 2020 avanti su salario minimo, conflitto di interessi e riforma della sanità.

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