La lotta non è più di classe, ma tra generazioni

I sintomi si sono visti nelle elezioni britanniche. Ma presto contageranno (acuendosi) gli altri Paesi occidentali. L'analisi.

«Dato che esistono oratori balbuzienti, umoristi tristi, parrucchieri calvi, potrebbero anche esistere politici onesti» (Dario Fo). «Ogni cuoca dovrebbe imparare a reggere lo Stato» (Vladimir Lenin). Due citazioni estreme, ma che ben riassumono spirito e stato dell’arte della politica attuale. Un po’ ovunque agitata da leader divisivi, arroganti, presuntuosi. Talmente eccessivi nei loro comportamenti pubblici da riuscire, per colmo di paradosso, ad apparire normali. Scorrono le immagini di Donald Trump che twitta insulti e rabbia da impeachment, di Boris Johnson che fa jumping in un luna park, di Silvio Berlusconi che alla presentazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa sembra Maurizio Crozza. Ma in assoluto l’immagine più desolante, per me almeno, è del ministro degli Esteri Luigi Di Maio alle prese con l’aggravarsi della crisi libica e l’intervento di Russia e Turchia nel conflitto. Qui anche la classica casalinga di Voghera capisce che il cuoco non è assolutamente all’altezza. Riuscite a immaginare il capo politico dei grillini che fronteggia Tayyip Erdogan e Vladimir Putin? Non vi viene da rimpiangere l’astuzia levantina di Giulio Andreotti?

NELLA MENTE DELL’OPINIONE PUBBLICA

Sono però sociologiche e non politiche le questioni che voglio affrontare e che scaturiscono dall’evidente contraddizione, manifestata dalla nostra classe politica, fra principi e azioni, fra richiami teorici alla coerenza e alla fedeltà (di partito) puntualmente smentiti dalla realtà. Una contraddizione questa che fa malauguratamente parte del patrimonio politico nazionale, ma che deve fare i conti, si spera fortunatamente, come dirò in seguito,con avvenimenti nuovi, veloci e imprevedibili. Ma facciamo alcuni esempi di giornata. Matteo Salvini che twitta il benvenuto ai tre senatori transfughi dal M5s, dimentico, come gli viene subito ritwittato e ricordato, che due anni fa auspicava l’inserimento nella costituzione del vincolo di mandato.

Il senatore Gian Luigi Paragone che vota no alla finanziaria, ma invocando la fedeltà al programma elettorale dei 5 Stelle. I deputati di Forza Italia che chiedono invece il referendum, dopo avere nei giorni scorsi votato la riduzione del numero dei parlamentari. Però il meglio del peggio, ossia il pessimo, lo offrono i due ex alleati Salvini-Di Maio che ora si insultano. Anche se è il leghista la dissociazione fatta persona, visto che lo si dà in avvicinamento all’altro Matteo (Renzi) e favorevole a un governo di grande coalizione guidato dal sino a ieri odiato banchiere europeista Mario Draghi. L’interrogativo più pertinente non riguarda la pena e il danno che l’attuale classe politica italiana procura al Paese, perché ormai sono conclamati, bensì l’atteggiamento delle opinioni pubbliche, dei gruppi sociali e anche dei rispettivi sostenitori ed elettori. Visto che su di esso sembra non avere effetto alcuno questa deplorevole e generalizzata abitudine a dire una cosa, pensarne un’altra e farne una diversa.

LA STANCHEZZA DIETRO UN’INDIFFERENZA MANIFESTA

A promettere fedeltà al partito o agli alleati e poi tradirli alla prima occasione utile, così come rinfacciare alla parte avversa, quando si è all’opposizione, un comportamento istituzionale scorretto, salvo poi praticarlo, una volta passati al governo. Come è puntualmente accaduto con la soppressione del dibattito parlamentare in occasione della recente legge finanziaria. Credo che sull’indifferenza dei cittadini-elettori a cambiare giudizio di fronte a scelte politiche incoerenti o infedeli giochi la stanchezza e il fastidio. Ma anche l’imporsi di un’adessitudine o presentismo famelico che cancella sia il futuro sia il passato. Internet e il web sono stati e sono un potente azzeratore di memoria. Ma della memoria a breve, perché quella remota, anche per reazione a un presente che comunque non piace, si attiva con i colori e la forza della nostalgia.

L’apparente dejà vu è preso all’interno di una struttura sociale nuova e di un contesto tecnologico totalmente diverso

Quasi nessuno credo ricordi il ministro Franco Frattini o di cosa sia stata ministra Maria Elena Boschi. Tutti però ci troviamo a rimpiangere i leader di un tempo quasi remoto: Enrico Berlinguer, Giorgio Almirante, Aldo Moro. Perfino Winston Churchill viene scomodato per confronti fuori tempo e fuori luogo. Ma comunque denotativi di una generalizzata tendenza a correre velocissimi in ogni ambito, non solo in politica. Però con la testa girata all’indietro. «A tutta velocità guardando lo specchietto retrovisore», ha scritto il sociologo Th. Eriksen in Tempo tiranno. Velocità e lentezza nell’era informatica. È la nostalgia del buon tempo che fu e della “buona politica “, rivendicata dal movimento delle Sardine, che alimenta questa ambivalenza? Certamente sì. Ma c’è anche molto di nuovo in questo riproporsi, peraltro ciclico, di corsi e ricorsi. Il fatto fondamentale che l’apparente dejà vu è preso all’interno di una struttura sociale nuova e di un contesto tecnologico totalmente diverso.

IL WEB RIDISEGNA RAPPORTI E RELAZIONI

Il fascismo non tornerà, perlomeno nelle forme che abbiano conosciuto, non tanto perché lo scrive Vespa, ma perché i media di riferimento non sono più la radio e il cinematografo bensì il web. Che ridisegna rapporti e relazioni. Per molti aspetti inediti, anche quando sembrano riproporre vecchi schemi. Un mix di edito e inedito, di confermativo e sorprendente, di passato che ritorna e futuro che ricomincia, che emerge nitidamente dalle recenti elezioni nel Regno Unito. Gli inglesi che con il loro voto hanno espresso nostalgia per l’Inghilterra imperiale, che però non c’è più, hanno nello stesso tempo indicato, sia pure inconsapevolmente, che il trionfo delle piazze virtuali, ovvero la trasformazione esclusiva della politica in tweet e streaming su Facebook, è di là da venire. Nel contempo che il trionfo di Johnson segnala un inedito assoluto: non è più la lotta di classe il motore del confronto e scontro politico, bensì il conflitto fra generazioni.

IL CASO DELLE ELEZIONI NEL REGNO UNITO

Jeremy Corbyn ha infatti strabattuto il rivale sul web, ma ha rimediato la peggiore sconfitta elettorale dal 1935. Il Labour ha vinto su Internet, facendo uso di meme, post virali su Facebook e video che hanno attirato l’attenzione degli elettori. I fan di Corbyn sono stati molto più coinvolti sui social media rispetto a quelli di Johnson, e i video dei laburisti contro i conservatori hanno ottenuto milioni di visualizzazioni. Ma ciò non si è tradotto in voti, e i Tory hanno conquistato 364 seggi contro i 203 di Labour. Questo risultato costringe tutti a rifare i conti digitali con la politica. E a riconsiderare il ruolo e il potere delle piazze reali, che date per morte, si riscoprono improvvisamente, come l’ascesa del movimento delle Sardine, vitali, attuali. Capaci di indicare nuove traiettorie e dinamiche alla dialettica sociale e alla lotta politica. Che, come mostra l’analisi del recente voto britannico di Yougov, sembra spostarsi dal piano degli interessi di classe a quelli di età.

Il labour di Corbyn ha infatti stravinto nella fascia 18-24 anni e prevalso in quella 25-49, ma straperso in quelle 50-64 e oltre i 65. È molto probabile che questo scontro fra generazioni sia destinato, a breve, a generalizzarsi e acuirsi in tutti i Paesi dell’Occidente sviluppato. Quelli del welfare generoso con i pensionati. Ma non più sostenibile e ancor meno accettabile per un numero crescente di giovani. Che sono scesi in piazza e intendono continuare a farlo. Perchè, come hanno scritto a Repubblica i quattro promotori delle Sardine, «siamo stati per troppo tempo sdraiati».

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L’impeachment non scalfirà Trump ma era una questione di valori

Il Senato repubblicano salverà il presidente dalla messa in stato d'accusa. Eppure bisognava farlo: per difendere la democrazia contro la corruzione. C'entrano giustizia, etica e morale. Un giorno l'America si libererà di questo despota senza scrupoli.

Dopo Andrew Jackson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998, Donald J. Trump è il terzo presidente nella storia degli Stati Uniti a essere messo in stato d’accusa: il Congresso ha votato per l’impeachment. Benché sia un’accusa estremamente grave, starà al Senato decidere se le sue azioni sono gravi abbastanza da rimuoverlo dalla sua posizione di presidente. Se dovesse succedere, cosa molto improbabile, la presidenza passerà al vicepresidente Mike Pence. Insomma, gli americani passerebbero dalla padella alla brace.

THE DONALD CONTINUERÀ A ESSERE POPOLARE

Alla fine, dunque, chi ha vinto? C’è chi pensa che malgrado tutto, Trump e i repubblicani ne escano vincitori: dopo tutto l’economia sta andando molto bene e il tasso di approvazione di Trump non è cambiato di molto durante questo periodo. I repubblicani potrebbero passare come i vincitori perché malgrado la gravità dell’impeachment, il presidente ne uscirà senza nessun danno permanente: continuerà a essere popolare tra i suoi fedeli come lo era all’inizio di questo processo.

IL SISTEMA NON FUNZIONA A DOVERE

Inoltre, in questi mesi è riuscito a raccogliere milioni di dollari per la campagna elettorale per la presidenza del 2020, presentandosi come vittima del complotto democratico che dall’inizio della sua candidatura ha cercato di cacciarlo. Immaginiamo l’inimmaginabile: nel 2020 Trump viene rieletto. Sicuramente cadrà ancora nella trappola della disonestà, come ha fatto in questi anni decine di volte. Cosa succederà a quel punto? Ci potrà essere un altro tentativo di impeachment nei suoi confronti? Probabilmente no. Insomma, malgrado la sua dimostrabile corruzione, finora il sistema, creato apposta per prevenire azioni corrotte, non è stato in grado di funzionare come avrebbe dovuto. Non con Trump.

PELOSI POTREBBE PROLUNGARE L’ATTESA

E i democratici? Malgrado un quasi sicuro insuccesso al Senato, forse hanno ancora una carta da giocarsi. Potrebbero non consegnare i documenti necessari al Senato per procedere fino a quando i repubblicani concordano nel condurre un vero processo, con tanto di testimoni, cosa che per adesso rifiutano di fare. L’impeachment, dunque, potrebbe rimanere irrisolto per molto tempo: non scade. Nancy Pelosi, per ora, non ha commentato se deciderà di seguire questa possibilità, ma se scegliesse di farlo la conclusione dell’impeachment potrebbe diventare molto lunga, addirittura oltrepassare la data delle elezioni.

I DEM HANNO DIFESO LA COSTITUZIONE AMERICANA

I dem sono stati assaliti da insulti, attacchi alla loro integrità e trattati come bugiardi dai repubblicani, eppure tutto questo non li ha intimiditi. Hanno mantenuto la loro calma, la loro professionalità e sono andati avanti, come richiesto dalla Costituzione. Come tutti i rappresentanti del Congresso, hanno giurato che avrebbero difeso la Costituzione a spada tratta. E così hanno fatto: hanno deciso di prendere la strada di giustizia, etica e morale che il loro ruolo richiede. Sanno bene che al prossimo giro, e cioè durante le discussioni in Senato, di maggioranza repubblicana, le probabilità che il presidente sia rimosso dal suo ruolo sono molto basse, anzi inesistenti. Ma almeno sanno che in coscienza hanno mantenuto fede ai valori che rendono questa una democrazia: hanno scelto la strada della giustizia a quella della corruzione.

L’ERA DEL DESPOTA SENZA SCRUPOLI FINIRÀ

Hanno detto e ripetuto che nessuno, neanche il presidente, è al di sopra della legge, e che la Costituzione è nata dal desiderio non essere mai guidati da sovrani. Durante il suo discorso conclusivo Adam Schiff, a capo della Commissione Giustizia del governo, invoca uno dei principali redattori della Costituzione, Alexander Hamilton. Nel 1792 fu lungimirante quando mise in guardia gli americani sulla possibilità, un giorno, di essere guidati da un uomo senza scrupoli, despota, capace di imbarazzare il governo, pronto a tutto pur di mantenere il suo potere. Quando questo succederà, continua Hamilton, marcherà la fine della democrazia e il ritorno alla monarchia. Direi, caro Alexander, che quel despota senza scrupoli è arrivato e non ha nessuna intenzione di andarsene. Faremo di tutto per liberarcene.

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Come funziona il processo di impeachment al Senato

La messa in stato d'accusa di Trump si configura come un vero e proprio dibattimento con accusa e difesa, prove e testimonianze. Ecco come si svolge passaggio per passaggio.

Ora che la Camera ha deciso per l’impeachment di Donald Trump la palla passerà al Senato, dove la maggioranza repubblicana – a scanso di sorprese decisamente improbabili – salverà il presidente.

Al di là dell’esito finale, è utile capire come il Senato affronterà quello che si sviluppa come un vero e proprio processo e soprattutto chi tra i repubblicani e i democratici si avvantaggerà maggiormente in vista delle elezioni presidenziali di novembre 2020. Ecco quali sono i passaggi previsti:

1. La Camera nomina un team di giuristi, che rappresenterà l’accusa nel processo, e passa la palla al Senato (la data prevista è il 6 gennaio).

2. Il giudice capo della Corte suprema Usa, John G. Roberts Jr, presta giuramento e diventa ufficialmente il giudice del processo.

3. Il Senato cita in giudizio il presidente, chiedendogli di rispondere alle accuse fissate dagli articoli dell’impeachment votati alla Camera (in questo caso, abuso di potere e ostruzione). Il presidente o il suo avvocato (il legale della Camera, Pat Cipollone) risponde alle accuse. Una mancata risposta viene considerata come dichiarazione di non colpevolezza.

4. Il Senato può decidere di votare subito per far finire il processo, in questo caso basta una maggioranza semplice. Non è detto, tuttavia, che i repubblicani vogliano intraprendere questa strada: un processo lungo potrebbe mettere in difficoltà per primi i democratici, con Trump convinto di poter avvantaggiarsi di uno show al Senato e i sondaggi che rivelano che il 51% degli americani è contro l’impeachment, un incremento del 5% da quando la speaker della Camera Nancy Pelosi ha annunciato l’avvio dell’inchiesta. Se nessun senatore chiede di andare subito al voto il processo procede regolarmente.

5. L’accusa e gli avvocati del presidente espongono il loro punti di vista.

6. Vengono presentate le prove e sentiti i testimoni di accusa e difesa. Anche i senatori possono fare domande ai testimoni, ma devono prima sottoporle al giudice.

7. I pubblici ministeri della Camera e i difensori del presidente discutono la loro arringa finale.

8. Il Senato vota: per una condanna sono necessari due terzi dei voti per uno o più articoli. Se la maggioranza qualificata vota per la condanna, il presidente Trump viene rimosso dall’incarico.

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Come l’impeachment mette il turbo alla campagna elettorale di Trump

O con lui o contro di lui: la contrapposizione aiuta i repubblicani nella corsa alle Presidenziali 2020. The Donald pronto alla grande battaglia mediatica. Mentre i dem restano senza leader carismatici. E quattro di loro si sfilano dall'incriminazione.

«L’assalto all’America». «Una vergogna e una disgrazia per il Paese». Anzi di più, un «colpo di Stato» della «sinistra radicale dei democratici nullafacenti». Nei 45 tweet scaricati a caratteri cubitali sul web al via libera all’impeachment della Camera, a Donald Trump è bastato scrivere «pregate per me» perché il repubblicano Barry Loudermilk, deputato per lo Stato della Georgia, lo paragonasse a Gesù: «Nel processo farsa di Ponzio Pilato gli furono concessi più diritti di quanti i democratici non ne abbiano lasciati al presidente americano», ha commentato. La potenza di fuoco del tycoon contro la «messinscena» e la «follia politica assoluta» contro di lui – terzo presidente degli Stati Uniti con l’onta del processo al Senato – è l’arma migliore dei repubblicani per le Presidenziali del 2020.

THE DONALD FISSO AL CENTRO DELL’ATTENZIONE

Si può dire che la corsa di Trump al secondo mandato sia scattata con i 230 sì dei deputati democratici «consumati dall’odio» all’incriminazione per abuso di potere del presidente della (197 i no). Dal 19 dicembre tutta la campagna elettorale del 2020 per la Casa Bianca sarà incentrata sulla «minaccia costante per la sicurezza nazionale», come ha definito Trump la presidente della Camera Nancy Pelosi. Per la controparte, il presidente è il più perseguitato dai nemici democratici. L’inquilino della Casa Bianca più eccentrico della storia degli Usa sarà in ogni caso al centro dell’attenzione, e tutto il resto in secondo piano. Anche come presidente, dal 2017 Trump ha brillato solo per pressapochismo e megalomania: se c’è una cosa che sa far bene, l’unica, è insomma mettersi in mostra.

FARLO MARTIRE È STATO UN REGALO

Anche nella campagna del 2016 il tycoon dell’Apprentice vinse grazie alla spregiudicatezza nella comunicazione: la competizione è il suo ambiente ideale. Farlo martire dell’impeachment è, anche per alcuni democratici, il regalo più grande che gli si potesse fare. Non a caso i repubblicani puntano ad aprire e chiudere il processo al Senato (a maggioranza repubblicana) prima possibile, tra gennaio e febbraio 2020, in modo da procedere come vincitori nella corsa contro il «partito dell’odio». Mentre Trump, che quando ne vale la pena rilancia sempre la posta, vorrebbe trascinare l’impeachment di alcuni mesi, citando in Senato come testimoni proprio Hunter Biden e il padre Joe. Cioè lo sfidante dem alle Presidenziali e la famiglia cuore delle accuse dell’impeachment

Alla Camera i dem si sono dimostrati compatti in larghissima maggioranza, ma non granitici. Al contrario dei repubblicani

LO SCONTRO AIUTA I REPUBBLICANI

Imbastire una campagna mediatica e svergognare i democratici è il programma elettorale di Trump. Un terreno molto scivoloso per i democratici: la stessa ex first lady di Barack Obama, Michelle, è parecchio scettica sulla scelta di Pelosi – pressata dalla maggioranza dei democratici alla Camera – di avviare l’impeachment. Alla votazione, i deputati dem si sono dimostrati compatti in larghissima maggioranza, ma non granitici. Al contrario dei repubblicani che, seppur da sempre in diversi perplessi verso il loro ultimo presidente, hanno fatto tutti quadrato su Trump: un altro vantaggio del clima di contrapposizione creato. Tre deputati democratici si sono invece sfilati dal sì alla prima accusa di abuso di potere, due di loro anche dalla seconda per ostruzionismo al Congresso; un terzo dem dalla seconda accusa.

PER QUALCHE DEM È UN’ESAGERAZIONE

I dissidenti si contano sulle dita: non abbastanza per intaccare la maggioranza semplice che bastava per l’impeachment, ma niente affatto edificanti. Jeff Van Drew, dem per il New Jersey, è stato molto franco: «Così le chance di Trump alle Presidenziali del 2020 si alzano ancora». E dirlo da democratico proprio non aiuta. Un altro campanello d’allarme è il no di Collin Peterson, moderato, rappresentante del Minnesota nel 2016 andato a Trump, sconfitto in passato dai repubblicani: ebbene per Peterson «Trump non ha commesso alcun crimine». Quanti la pensano come lui nel Minnesota, e prima del voto il 3 novembre 2020 oscilleranno tra democratici e repubblicani? L’ex soldato d’élite Jared Golden, deputato per il Maine, ritiene per esempio esagerata l’accusa di ostruzionismo, e non quella di abuso di potere.

Impeachment Trump Usa Presidenziali 2020
Tulsi Gabbard, democratica filorussa, con Bernie Sanders alla campagna presidenziale del 2016. (Getty).

GABBARD, LA DEMOCRATICA PIÙ AMATA DAL CREMLINO

Un’astensione molto imbarazzante, per i democratici privi di un leader carismatico, è arrivata (su entrambi e capi di accusa) dalla giovane deputata e militare Tulsi Gabbard, eletta alle Hawaii. Figlia di un repubblicano, ex soldatessa in Iraq, per welfare e istruzione universali, prima super delegata donna a sostenere Bernie Sanders nel 2016, Gabbard è considerata una stalinista tra i dem: pro Bashar al Assad in Siria, filorussa in politica estera, ora isolata anche nella sinistra radicale per l’impeachment, il soldato Gabbard corre da solo. Ma soprattutto, come ha annunciato, correrà per una nomination alle Presidenziali del 2020. Di lei Hillary Clinton aveva detto che la Russia sta facendo tra i dem quello che fece con Trump tra i repubblicani, aprendo una lite prima con l’interessata poi con Sanders.

PELOSI LEADER SOLO PERCHÉ È L’ANTI-TRUMP

Tutte queste divisioni indeboliscono i democratici. Mentre il Gran old party (Gop) si stringe attorno al corpo estraneo di Trump. È significativo che tra i dem emerga come leader solo la 79enne speaker della Camera: non perché prima donna e prima italo-americana a presiedere l’assemblea legislativa degli Usa, non perché deputata democratica di più alto grado mai ammessa nei Comitati di intelligence, non perché tra le donne dem – insieme a Clinton e Michelle Obama – con più accesso alle informazioni sulla Difesa e sulla Sicurezza nazionale – e tanto meno perché sfidante alle Presidenziali. Pelosi non è candidata alla Casa Bianca né lo è mai stata, è leader perché ha mosso l’impeachment a Trump. Una retorica che, finora, negli States non ha spostato consensi dai repubblicani ai democratici.

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Le reazioni internazionali dopo l’impeachment contro Donald Trump

Il mondo sovranista si stringe intorno al presidente Trump dopo la messa in stato d'accusa. Putin: «Solo accuse inventate». E Salvini parla di una sinistra globale che «vuole sovvertire la volontà popolare».

L’internazionale sovranista si muove in difesa di Donald Trump, dopo il via libera della Camera dei Rappresentati all’impeachment. Il presidente russo Vladimir Putin, nella sua conferenza stampa di fine anno, ha toccato brevemente il caso sottolineando che la messa in stato d’accusa «si basa su accuse inventate e il Senato respingerà le imputazioni contro il presidente americano». «È estremamente difficile», ha aggiunto il capo del Cremlino, «che i repubblicani tolgano la carica di presidente a un rappresentante del loro stesso partito per motivi che sono assolutamente inventati».

ANCHE SALVINI CORRE IN DIFESA DI TRUMP

In Italia intanto è corsa a destra per dare il proprio sostegno al tycoon. Matteo Salvini, che dovrà fronteggiare la Giunta per le Immunità sul caso Gregoretti, ha espresso tutto il suo sostegno a Trump e vedendo nei due casi un certo parallelismo: «Mal comune e mezzo gaudio», ha detto in una conferenza stampa alla Camera, «Evidentemente c’è una reazione al sistema politico mediatico e giudiziario, non solo in Italia: pensiamo agli Usa, coi risultati economici della presidenza Trump che sta ottenendo dati alla mano… C’è un Presidente che deve passare le sue giornate preoccupandosi di difendersi da un impeachment che lo vedrebbe come traditore del popolo… Evidentemente in giro per il mondo a sinistra c’è qualcuno che usa qualsiasi arma per sovvertire la volontà popolare».

MELONI ESPRIME SOLIDARIETÀ VIA TWITTER

Appoggio sovranista via Twitter anche dalla presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: «Negli Usa una sinistra perdente e incapace di dare risposte tenta di salire al potere rovesciando con ogni mezzo chi è stato eletto e sta ottenendo risultati straordinari. La sinistra è uguale in tutto il mondo. Solidarietà e sostegno a Donald Trump e al popolo americano».

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Donald Trump è stato messo sotto Impeachment

La Camera ha approvato i due capi di imputazione contro il presidente con poche defezioni. Furiosa la reazione di Trump che in un comizio in Michigan attacca: «Vogliono annullare le elezioni».

Agognava di finir nei libri di scuola come un presidente migliore di Abramo Lincoln. Invece Donald Trump è entrato nella storia indossando gli umilianti panni del terzo presidente Usa messo in stato d’accusa con la procedura di impeachment. Prima di lui sono finiti a giudizio solo Andrew Johnson nel lontano 1868 e Bill Clinton nel 1998. Entrambi sono stati assolti in Senato, come succederà con ogni probabilità in gennaio anche al tycoon, che conta sulla granitica maggioranza repubblicana nella camera alta del parlamento. Richard Nixon invece si dimise nel 1974 prima di essere imputato.

LEGGI ANCHE: Perchè l’impeachment contro Trump può essere un boomerang sui dem

MOZIONE VOTATA DOPO UN DIBATTITO DURATO ORE

Due i capi di imputazione: abuso di potere per le pressioni su Kiev per far indagare il suo principale rivale nella corsa alla Casa Bianca Joe Biden e ostruzione del Congresso per aver bloccato testimoni e documenti. Il voto della Camera è arrivato dopo settimane di aspre polemiche e dopo un lungo, a tratti velenoso dibattito in un ramo del Congresso saldamente controllato dai democratici. Alcuni repubblicani sono arrivati a paragonare l’indagine di impeachment all’attacco di Pearl Harbor o alla crocefissione di Cristo, sostenendo che Ponzio Pilato si è comportato meglio con Gesù. Alla fine i due articoli sono stati approvati rispettivamente con 230 e 229 voti, tutti dem tranne tre contrari. Compatto invece il no del Grand Old Party.

La prima pagina della risoluzione contro Donald Trump.

SI PREPARA LA BATTAGLIA AL SENATO

Ma ora si apre un nuovo fronte di guerra: dopo il voto la speaker della Camera Nancy Pelosi ha annunciato che i due articoli non saranno inviati al Senato finchè non ci saranno garanzie di un processo giusto in quel ramo del Congresso, finora negate a suo avviso dalle mossa del leader dei senatori Mitch McConnell, che è andato alla Casa Bianca per coordinare le strategie e affermato che non sarà un giudice imparziale. Nel giorno più buio della sua presidenza, il tycoon ha aspettato la votazione prima twittando nel bunker della Casa Bianca e poi tenendo un comizio in Michigan, Stato cruciale per la sua rielezione. È li che ha saputo la notizia ma ha reagito come sempre attaccando, osannato dalla folla che gridava «altri quattro anni».

I democratici stanno cercando di annullare il voto di decine di milioni di patrioti americani

Donald Trump

LA FURIA DI TRUMP: «VOGLIONO ANNULLARE LE ELEZIONI»

«Non abbiamo fatto nulla di sbagliato. Abbiamo l’appoggio del partito repubblicano», ha esordito. «Dopo tre anni di caccia alle streghe, bufale, vergogne, truffe, i democratici stasera stanno cercando di annullare il voto di decine di milioni di patrioti americani», ha denunciato, accusando l’opposizione di «abuso di potere». «Questo è il primo impeachment dove non c’è un reato», ha incalzato, convinto che sarà un «suicidio politico» per i dem. E ha vantato l’unità del partito: «Non abbiamo perso neanche un voto dei repubblicani e tre democratici hanno votato con noi». La sua bestia nera resta Nancy Pelosi, cui alla vigilia del voto aveva inviato un’infuocata lettera di sei pagine accusandola di aver «dichiarato guerra aperta alla democrazia americana» con la «crociata» di un impeachment che è «un fazioso e illegale colpo di stato».

LA SPEAKER DELLA CAMERA PELOSI: «NON AVEVAMO ALTRA SCELTA»

Una lettera «ridicola» e «triste», ha replicato la Pelosi, ammonendo che «se consentiamo ad un presidente, qualsiasi presidente, di proseguire su questa strada, diremo addio alla repubblica e buongiorno al presidente re». La speaker democratica ha rincarato la dose aprendo il dibattito alla Camera. «Trump non ci ha dato altra scelta. Il presidente ha violato la costituzione e resta una costante minaccia per la sicurezza del nostro Paese e l’integrità delle nostre elezioni», ha denunciato, dopo aver letto accanto ad un tricolore americano il Pledge of Allegiance, il giuramento di fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti.

La prima pagina dle New York Times del 19 dicembre 2019

UN PAESE SPACCATO SULL’IMPEACHMENT

Nel frattempo davanti a Capitol Hill centinaia di attivisti manifestavano a sostegno dell’impeachment, dopo gli oltre 600 tra raduni e marce in varie città di tutti i 50 Stati Usa, a partire da New York. «Che atroci bugie. Questo è un assalto all’America e al partito repubblicano», le ha risposto su Twitter il tycoon, che mira a galvanizzare la sua base e a trasformare l’impeachment in un boomerang politico contro i democratici. I sondaggi mostrano un Paese spaccato a metà sulla messa in stato d’accusa ma nel frattempo il gradimento del presidente sembra salire, stando all’ultimo sondaggio di Gallup: dal 39% di quando è iniziata l’indagine all’attuale 45%.

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L’impeachment contro Trump può essere un boomerang sui dem

La Camera presieduta da Pelosi e a maggioranza di sinistra va al voto sulla messa in stato d'accusa al presidente. Ma a gennaio tocca al Senato controllato dai repubblicani. E verso le elezioni 2020 l'asinello risulterebbe un partito battuto e indaffarato a distruggere invano l'avversario.

Dal voto alla Camera del 18 dicembre, Donald Trump sarà il terzo presidente degli Stati Uniti a finire sotto impeachment, l’incriminazione del Congresso con l’accusa di aver gravemente violato la Costituzione.

DUE PRECEDENTI PRIMA DI LUI

Il primo fu, nel 1868, il presidente Andrew Johnson, democratico e massone, quello dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia, assolto per il voto di un repubblicano che tradì la linea del partito. Il secondo fu, nel 1998, Bill Clinton, anche lui assolto pochi mesi dopo. L’impeachment sul Watergate a Richard Nixon invece non fu mai votato: Nixon si dimise prima della sua messa in stato di accusa della Camera.

REPUBBICANI PRONTI A COMPATTARSI

I numeri del Senato, dove si svolge il processo finale degli impeachment approvati dalla Camera, sono favorevoli anche a Trump. Per rimuoverlo  servono due terzi dei voti (maggioranza qualificata) tra i 100 senatori: 53 sono repubblicani e il loro leader Mitch McConnell richiama alla compattezza, in «totale coordinamento con la Casa Bianca».

PRESSING DELLA SINISTRA SU PELOSI

Tra i democratici al contrario non tutti erano per aprire la procedura, né ancora si sono convinti. Il pressing per l’impeachment alla Camera, dove i dem sono la maggioranza (233 seggi contro 197 repubblicani) dalle elezioni di Midterm del 2018, è durato mesi sulla presidente, democratica, Nancy Pelosi. Soprattutto da parte dell’ala radicale dello squad, la squadra delle agguerrite neo-deputate cresciute nelle comunità musulmane e latine e poi alla scuola politica di Bernie Sanders, aggredite a più riprese da Trump con invettive razziste e denigranti.

Trump impeachment Usa Presidenziali 2020
La speaker della Camera americana, Nancy Pelosi, avvia la procedura di impeachment contro Donald Trump. (Getty).

WARREN SI È NETTAMENTE SCHIERATA

Alla fine anche la candidata alle Presidenziali del 2020 più quotata (e in ascesa) della sinistra dei dem, Elizabeth Warren, si è schierata per la messa in stato di accusa del presidente per il cosiddetto Kievgate. La soffiata arrivata da più gole profonde dell’intelligence sulle pressioni di Trump all’Ucraina per far indagare l’avversario dem alle Presidenziali ed ex vicepresidente Joe Biden sui business del figlio nel Paese.

A SETTEMBRE ATTIVATE COMMISSIONI E PROCEDURE

Alla Camera montava la difesa di Biden e il rigetto per Trump. Agli oltre 170 deputati dem già in pressing per l’impeachment fallito sul Russiagate (l’inchiesta giudiziaria sul sospetto di manipolazione delle Presidenziali del 2016 da parte di Mosca, attraverso Trump assolto per mancanza di prove) si sono aggiunti i sì di Warren e altri. E Pelosi, tra i più cauti sulla procedura, alla fine di settembre ha dovuto rompere gli indugi sul passo «ormai inevitabile», attivando le Commissioni e le procedure per la votazione.

I DUE WHISTLEBLOWER AL CENTRO DEL CASO

D’altronde proprio al Congresso era stata recapitata la denuncia scritta del primo whistleblower del 25 settembre 2019. Un secondo segnalatore si è fatto avanti il 5 ottobre rivelando una telefonata di Trump del 25 luglio 2019 al presidente ucraino Volodymyr Zelensky (ammessa anche dall’Amministrazione Usa) per far indagare Biden padre e figlio. Dopo aver fatto bloccare, in quelle settimane, gli aiuti militari all’Ucraina già approvati dal Congresso.

Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le elezioni 2020


Nancy Pelosi, presidente della Camera

PER I DEM PROVE SCHIACCIANTI

La dinamica è stata confermata dall’inviato diplomatico statunitense in Ucraina William Taylor Jr, da funzionari del Pentagono e della Casa Bianca e da svariati testimoni. «Prove schiaccianti e incontestabili, non ci hanno lasciato altra scelta», secondo il presidente della Commissione d’intelligence alla Camera Adam Schiff, democratico. Alla fine di ottobre la Camera di Washington ha licenziato le prassi da seguire per le udienze sull’impeachment, compatta negli schieramenti (232 sì e 196 no).

LE ACCUSE: ABUSO DI POTERE E OSTRUZIONE AL CONGRESSO

Il 13 dicembre la Commissione giustizia ha formalizzato le accuse di abuso di potere e ostruzione al Congresso. La linea di Schiff è che Trump abbia «cercato aiuto dall’Ucraina per i suoi interessi personali. Per essere rieletto e non per il bene degli Usa». Pelosi ha scandito: «Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le prossime elezioni».

OPINIONE PUBBLICA SPACCATA

Il via a procedere, per i democratici, si impone dai fatti chiari e inequivocabili ricostruiti. Non è affatto solido però il consenso per l’impeachment nell’opinione pubblica che Trump conta
di trascinare dalla sua parte, da vittima del «partito dell’odio» e  di «un’assoluta follia politica!», come ha rilanciato su Twitter. Da un sondaggio del 10 dicembre della Quinnipiac university ci sono in effetti margini di manovra: il 51% tra gli elettori interpellati pensa che il tycoon non debba essere incriminato e rimosso dalla Casa Bianca, al contrario del 45%.

METÀ ELETTORATO RITIENE LA VICENDA ECCESSIVA

Altre rilevazioni, come quella diffusa da Fox News a metà dicembre, sono più negative, con circa il 50% favorevole all’impeachment: sempre una buona metà dell’elettorato ritiene tuttavia la procedura eccessiva. Nello specifico, nell’indagine della Quinnipiac university il 99% degli elettori di Trump è contrario alla messa in stato di accusa, mentre solo l’81% di chi vota dem la appoggia.

Il presidente Trump.

PER MICHELLE OBAMA SAREBBE UN AUTOGOL

Un pezzo da novanta come l’ex first lady Michelle Obama resta scettica sul «surreale» impeachment: «Non credo che la gente sappia cosa farne», ha dichiarato da avvocato ancor prima che da democratica, sperando che «si torni indietro». Se il Senato, già a febbraio, dovesse rigettare l’accusa della Camera (come avvenne con Clinton) il boomerang è dietro l’angolo: alle Primarie che contano del super martedì del 3 marzo (California, Texas, Massachusetts e Michigan), i dem apparirebbero come un partito indaffarato solo a tentare di distruggere – invano – l’avversario.

CAMPAGNA ELETTORALE CHE SI SPOSTEREBBE DA ALTRI TEMI

Tutta la campagna del 2020 si concentrerebbe sull’impeachment piuttosto che, per esempio, sulle leggi sul welfare e per i diritti civili passate alla Camera dal 2018 nonostante Trump. Non per niente i repubblicani premono per aprire il processo al Senato già il 6 gennaio, e chiuderlo poi rapidamente senza chiamare testimoni. Per assurdo Trump rema contro puntando all’impeachment show.

TESTIMONI DA METTERE ALLA BERLINA

Prima Trump ha invitato i testimoni di punta convocati dai dem alla Camera a non comparire (l’ex advisor alla Sicurezza John Bolton e il capo di Gabinetto della Casa Bianca Mick Mulvaney hanno disertato). E sempre il presidente degli Usa e il braccio destro nelle operazioni in Ucraina, l’avvocato Rudolph Giuliani, premono per chiamare come testimoni al Senato Joe Biden e il figlio Hunter. Metterli alla berlina ribalterebbe i giochi.

UNA FRONDA NELL’ELEFANTINO NON C’È

McConnell ha decretato le accuse «terribilmente deboli», il processo al Senato sarà presieduto dal giudice capo della Corte Suprema John Glover Roberts Jr, repubblicano. La destra punta a scardinare l’equazione – immediata ma non dimostrabile – tra lo stop agli armamenti a Kiev e la telefonata anti-Biden: infatti non ci sono stati gli estremi per inserire l’accusa di «corruzione» nel testo di impeachment. Portare una fronda di senatori repubblicani contro Trump, come speravano i dem, sarà più scivoloso che convincere l’elettorato.

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L’impeachment contro Trump può essere un boomerang sui dem

La Camera presieduta da Pelosi e a maggioranza di sinistra va al voto sulla messa in stato d'accusa al presidente. Ma a gennaio tocca al Senato controllato dai repubblicani. E verso le elezioni 2020 l'asinello risulterebbe un partito battuto e indaffarato a distruggere invano l'avversario.

Dal voto alla Camera del 18 dicembre, Donald Trump sarà il terzo presidente degli Stati Uniti a finire sotto impeachment, l’incriminazione del Congresso con l’accusa di aver gravemente violato la Costituzione.

DUE PRECEDENTI PRIMA DI LUI

Il primo fu, nel 1868, il presidente Andrew Johnson, democratico e massone, quello dell’acquisto dell’Alaska dalla Russia, assolto per il voto di un repubblicano che tradì la linea del partito. Il secondo fu, nel 1998, Bill Clinton, anche lui assolto pochi mesi dopo. L’impeachment sul Watergate a Richard Nixon invece non fu mai votato: Nixon si dimise prima della sua messa in stato di accusa della Camera.

REPUBBICANI PRONTI A COMPATTARSI

I numeri del Senato, dove si svolge il processo finale degli impeachment approvati dalla Camera, sono favorevoli anche a Trump. Per rimuoverlo  servono due terzi dei voti (maggioranza qualificata) tra i 100 senatori: 53 sono repubblicani e il loro leader Mitch McConnell richiama alla compattezza, in «totale coordinamento con la Casa Bianca».

PRESSING DELLA SINISTRA SU PELOSI

Tra i democratici al contrario non tutti erano per aprire la procedura, né ancora si sono convinti. Il pressing per l’impeachment alla Camera, dove i dem sono la maggioranza (233 seggi contro 197 repubblicani) dalle elezioni di Midterm del 2018, è durato mesi sulla presidente, democratica, Nancy Pelosi. Soprattutto da parte dell’ala radicale dello squad, la squadra delle agguerrite neo-deputate cresciute nelle comunità musulmane e latine e poi alla scuola politica di Bernie Sanders, aggredite a più riprese da Trump con invettive razziste e denigranti.

Trump impeachment Usa Presidenziali 2020
La speaker della Camera americana, Nancy Pelosi, avvia la procedura di impeachment contro Donald Trump. (Getty).

WARREN SI È NETTAMENTE SCHIERATA

Alla fine anche la candidata alle Presidenziali del 2020 più quotata (e in ascesa) della sinistra dei dem, Elizabeth Warren, si è schierata per la messa in stato di accusa del presidente per il cosiddetto Kievgate. La soffiata arrivata da più gole profonde dell’intelligence sulle pressioni di Trump all’Ucraina per far indagare l’avversario dem alle Presidenziali ed ex vicepresidente Joe Biden sui business del figlio nel Paese.

A SETTEMBRE ATTIVATE COMMISSIONI E PROCEDURE

Alla Camera montava la difesa di Biden e il rigetto per Trump. Agli oltre 170 deputati dem già in pressing per l’impeachment fallito sul Russiagate (l’inchiesta giudiziaria sul sospetto di manipolazione delle Presidenziali del 2016 da parte di Mosca, attraverso Trump assolto per mancanza di prove) si sono aggiunti i sì di Warren e altri. E Pelosi, tra i più cauti sulla procedura, alla fine di settembre ha dovuto rompere gli indugi sul passo «ormai inevitabile», attivando le Commissioni e le procedure per la votazione.

I DUE WHISTLEBLOWER AL CENTRO DEL CASO

D’altronde proprio al Congresso era stata recapitata la denuncia scritta del primo whistleblower del 25 settembre 2019. Un secondo segnalatore si è fatto avanti il 5 ottobre rivelando una telefonata di Trump del 25 luglio 2019 al presidente ucraino Volodymyr Zelensky (ammessa anche dall’Amministrazione Usa) per far indagare Biden padre e figlio. Dopo aver fatto bloccare, in quelle settimane, gli aiuti militari all’Ucraina già approvati dal Congresso.

Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le elezioni 2020


Nancy Pelosi, presidente della Camera

PER I DEM PROVE SCHIACCIANTI

La dinamica è stata confermata dall’inviato diplomatico statunitense in Ucraina William Taylor Jr, da funzionari del Pentagono e della Casa Bianca e da svariati testimoni. «Prove schiaccianti e incontestabili, non ci hanno lasciato altra scelta», secondo il presidente della Commissione d’intelligence alla Camera Adam Schiff, democratico. Alla fine di ottobre la Camera di Washington ha licenziato le prassi da seguire per le udienze sull’impeachment, compatta negli schieramenti (232 sì e 196 no).

LE ACCUSE: ABUSO DI POTERE E OSTRUZIONE AL CONGRESSO

Il 13 dicembre la Commissione giustizia ha formalizzato le accuse di abuso di potere e ostruzione al Congresso. La linea di Schiff è che Trump abbia «cercato aiuto dall’Ucraina per i suoi interessi personali. Per essere rieletto e non per il bene degli Usa». Pelosi ha scandito: «Trump è una minaccia continua alla nostra democrazia e alla sicurezza nazionale. Ha usato il potere del suo ufficio contro un Paese straniero per corrompere le prossime elezioni».

OPINIONE PUBBLICA SPACCATA

Il via a procedere, per i democratici, si impone dai fatti chiari e inequivocabili ricostruiti. Non è affatto solido però il consenso per l’impeachment nell’opinione pubblica che Trump conta
di trascinare dalla sua parte, da vittima del «partito dell’odio» e  di «un’assoluta follia politica!», come ha rilanciato su Twitter. Da un sondaggio del 10 dicembre della Quinnipiac university ci sono in effetti margini di manovra: il 51% tra gli elettori interpellati pensa che il tycoon non debba essere incriminato e rimosso dalla Casa Bianca, al contrario del 45%.

METÀ ELETTORATO RITIENE LA VICENDA ECCESSIVA

Altre rilevazioni, come quella diffusa da Fox News a metà dicembre, sono più negative, con circa il 50% favorevole all’impeachment: sempre una buona metà dell’elettorato ritiene tuttavia la procedura eccessiva. Nello specifico, nell’indagine della Quinnipiac university il 99% degli elettori di Trump è contrario alla messa in stato di accusa, mentre solo l’81% di chi vota dem la appoggia.

Il presidente Trump.

PER MICHELLE OBAMA SAREBBE UN AUTOGOL

Un pezzo da novanta come l’ex first lady Michelle Obama resta scettica sul «surreale» impeachment: «Non credo che la gente sappia cosa farne», ha dichiarato da avvocato ancor prima che da democratica, sperando che «si torni indietro». Se il Senato, già a febbraio, dovesse rigettare l’accusa della Camera (come avvenne con Clinton) il boomerang è dietro l’angolo: alle Primarie che contano del super martedì del 3 marzo (California, Texas, Massachusetts e Michigan), i dem apparirebbero come un partito indaffarato solo a tentare di distruggere – invano – l’avversario.

CAMPAGNA ELETTORALE CHE SI SPOSTEREBBE DA ALTRI TEMI

Tutta la campagna del 2020 si concentrerebbe sull’impeachment piuttosto che, per esempio, sulle leggi sul welfare e per i diritti civili passate alla Camera dal 2018 nonostante Trump. Non per niente i repubblicani premono per aprire il processo al Senato già il 6 gennaio, e chiuderlo poi rapidamente senza chiamare testimoni. Per assurdo Trump rema contro puntando all’impeachment show.

TESTIMONI DA METTERE ALLA BERLINA

Prima Trump ha invitato i testimoni di punta convocati dai dem alla Camera a non comparire (l’ex advisor alla Sicurezza John Bolton e il capo di Gabinetto della Casa Bianca Mick Mulvaney hanno disertato). E sempre il presidente degli Usa e il braccio destro nelle operazioni in Ucraina, l’avvocato Rudolph Giuliani, premono per chiamare come testimoni al Senato Joe Biden e il figlio Hunter. Metterli alla berlina ribalterebbe i giochi.

UNA FRONDA NELL’ELEFANTINO NON C’È

McConnell ha decretato le accuse «terribilmente deboli», il processo al Senato sarà presieduto dal giudice capo della Corte Suprema John Glover Roberts Jr, repubblicano. La destra punta a scardinare l’equazione – immediata ma non dimostrabile – tra lo stop agli armamenti a Kiev e la telefonata anti-Biden: infatti non ci sono stati gli estremi per inserire l’accusa di «corruzione» nel testo di impeachment. Portare una fronda di senatori repubblicani contro Trump, come speravano i dem, sarà più scivoloso che convincere l’elettorato.

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Quali sono le tappe per la procedura di impeachment di Trump

Dopo l'ok della commissione Giustizia, settimana prossima la Camera (a maggioranza dem) dovrebbe mettere il presidente in stato d'accusa. A gennaio il processo in Senato, dove è previsto che la maggioranza repubblicana lo scagioni.

Dopo l’ok della commissione Giustizia al voto sull’impeachment, sarà l’aula della Camera la settimana prima di Natale a decidere se mettere o meno Donald Trump in stato di accusa. Alla House of Representatives è necessario il 50% più uno di voti favorevoli per far proseguire la procedura. Considerato che i dem hanno la maggioranza alla camera bassa, il via libera è quasi scontato.

AL SENATO UN VERO E PROPRIO PROCESSO

A quel punto la palla passa al Senato, dove l’impeachment si configura come un vero e proprio processo al presidente in parlamento. Alla fine del dibattimento, con tanto di testimonianze e arringhe, si avrà il voto finale. Per far decadere il capo di Stato sono necessari due terzi dei voti, ma visto che il Senato è a maggioranza repubblicana è altamente improbabile che Trump perda la battaglia finale. Il processo si terrà a gennaio, un mese prima dell’inizio delle primarie.

La Casa Bianca ha fatto sapere che non parteciperà ad un procedimento che ritiene «infondato e illegittimo». La strategia di Trump e del suo partito sembra chiara: negare ogni accusa e trasformare il processo in una zuffa politica montando un ring da pugilato al Senato per un contro processo ai Biden. Il presidente sta già preparando il terreno insieme al suo avvocato personale Rudy Giuliani, che è andato in Ucraina per raccogliere informazioni sull’ex vicepresidente e su suo figlio nonostante sia emerso nell’indagine di impeachment come l’uomo chiave incaricato dal tycoon della campagna di pressione su Kiev.

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Questi repubblicani senza senso della nazione si meritano Trump

Difendono strenuamente il loro leader dall'impeachment nonostante sia il peggior presidente della storia degli Stati Uniti. I democratici ai tempi della messa in stato d'accusa di Clinton erano stati più severi.

Credo di essere una delle poche persone ad aver ascoltato tutte le testimonianze date sia alla Commissione di Intelligence che a quella di Giustizia riguardo l’impeachment di Donald Trump. Come è ormai noto, gli articoli sono due: abuso di potere e ostruzione al Congresso.

UNA DIFESA SCONTROSA E MALEDUCATA

Fino alla fine, i democratici hanno mostrato un rigore e un’organizzazione nello spiegare con più dettagli possibili gli eventi che hanno portato alla decisione di messa in stato d’accusa del presidente americano, mentre i repubblicani, che non sembrano interessati ai fatti ma alle teorie complottistiche, non hanno mai perso occasione di pretendere in modo scontroso e maleducato di spiegare l’innocenza del loro leader. La frase che hanno pronunciato più spesso è la seguente: «Da quando Trump è stato eletto, i democratici hanno fatto di tutto per dargli l’impeachment».

L’AMMINISTRAZIONE PIÙ CORROTTA DI SEMPRE

Hanno ragione, ma è anche vero che nella storia degli Stati Uniti non c’è stata amministrazione più corrotta e azioni fatte dal presidente così scandalose. È stato accusato di aver accettato soldi illeciti da Paesi esteri (vietato dalla Costituzione), di avere un conflitto di interessi tra la sua posizione di potere e il suo business, che ha tentato più volte di promuovere (vietato dalla Costituzione), ostruzione alla giustizia, associazione con gruppi neo nazisti, e di promozione dell’odio, è tutt’ora indagato per possibili azioni illecite finanziarie.

DAGLI IMMIGRATI ALL’FBI, QUANTE MACCHIE PER DONALD

Ma non solo: ha pubblicamente insultato l’Fbi, gli immigrati messicani («Sono tutti spacciatori e vengono qui a violentare le nostre donne!»), ha incarcerato migliaia di bambini ai confini con il Messico, separandoli dalle loro famiglie. Per non parlare della sua amministrazione: molti sono stati accusati di corruzione, alcuni (compreso il suo ex avvocato Cohen) sono ancora in carcere. Tutto questo per dire che i repubblicani hanno ragione a dire che si sta cercando di fermare Trump dall’inizio del suo mandato, ma anche che qualche ragione per farlo mi sembra che ci sia.

Donald Trump.

LA “PISTOLA FUMANTE” C’È ECCOME

Un’altra frase che i repubblicani insistono a ripetere è che «There is no smoking gun!». Non capisco davvero a cosa si riferiscano: più della famosa telefonata tra Trump e Volodymyr ZelenskyI have a favor, though»), più che le decine di testimonianze date da esperti, spesso repubblicani, che confermano la tesi che Trump ha abusato del suo potere, negando l’aiuto finanziario all’Ucraina e l’invito alla Casa Bianca del neopresidente in cambio di un aiuto politico per denigrare il suo rivale alla presidenza per il 2020, più che prendere atto del fatto che la Casa Bianca abbia negato accesso a documenti importanti e a testimoni, cosa serve ai repubblicani per capire che la smoking gun è davanti ai loro occhi?

TRA I DEM ALMENO C’ERA DELUSIONE PER CLINTON

Eppure nessuno di loro ha mostrato di essere amareggiato, deluso, perplesso dei comportamenti del loro beniamino. Durante l’ultimo iter per l’impeachment di Bill Clinton, per esempio, molti democratici avevano a gran voce condiviso la loro delusione nei confronti delle azioni del presidente, anche se non tutti pensavano che una reazione tanto grave come l’impeachment fosse necessaria. I repubblicani che appoggiano Trump (tutti) devono andare alle elezioni per il Senato tra qualche anno, e non vogliono certo contrariare il presidente pubblicamente, per paura di perdere il loro potere, visto che il tycoon in certi ambienti è, malgrado tutto, ancora molto popolare. Così hanno deciso di farlo perdere a istituzioni di importanza vitale per la democrazia americana come il Congresso.

SENZA SENSO PER IL BENE DELLA NAZIONE

A volte mi viene da pensare che forse queste persone, che non sono in grado di mettere il bene della nazione davanti al loro potere, si meritino un presidente come il loro: una persona che da subito si è sentita al di sopra della giustizia, e che passerà alla storia come il peggior presidente americano. Indagato, corrotto e, lasciatemelo dire, ignorante come una capra.

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