Trump sa solo destabilizzare perché è incapace di ricostruire

Il presidente Usa ha commesso l’errore di voler abbandonare un mondo, quello disegnato 70 anni fa dalla leadership americana, senza proporne un altro. Così rischia l'arroccamento degli Stati Uniti fra i due Oceani.

Una campagna elettorale sarebbe, in tempi normali, già decisa. La disoccupazione è negli Stati Uniti ai minimi storici dal 1969 anche se in un mercato assai diverso e molto più “atipico”; la Borsa è ai massimi; la crescita del Pil ha continuato con il presidente in carica una marcia avviata nel giugno del 2009, ormai da sei mesi un record storico, superiore all’espansione marzo 1991-marzo 2001 e primato assoluto di durata da quando vengono elaborati dati del genere, cioè dal 1854.

Tutto è più contenuto che in passato, la crescita cumulativa è più bassa, la disoccupazione è calata più lentamente, ma i risultati ci sono. In più, gli avversari democratici del presidente Donald Trump non hanno in campo per ora candidati particolarmente forti. Ma Trump ugualmente, pur rimanendo a tutt’oggi il favorito, non avrà una campagna scontata in partenza, anche se non è facile scalzare al voto un presidente in carica.

L’impeachment deciso dalla Camera il 18 dicembre 2019, e che probabilmente il Senato a controllo repubblicano boccerà (serve la maggioranza qualificata dei due terzi), c’entra fino a un certo punto, anche se trasformerà il voto presidenziale del prossimo 3 novembre più che mai in un referendum sull’immobiliarista newyorkese diventato campione del neonazionalismo americano.

LA POLITICA ESTERA DI TRUMP NON ESISTE

La decisione di far saltare in aria a Baghdad il 3 gennaio scorso con razzi sparati da un drone il generale delle milizie iraniane Qasem Soleimani, l’organizzatore da 20 anni della presenza armata iraniana in tutto il Medio Oriente, spiega meglio le difficoltà del presidente. Da un lato un gesto rapido e decisivo contro un ben noto nemico dell’America è piaciuto in sé alla base che ha dato a Trump nel 2016 la Casa Bianca, grazie a 77 mila voti giudiziosamente distribuiti in vari collegi di Pennsylvania, Michigan e Wisconsin e con un voto popolare nazionale inferiore a quello ottenuto da Hillary Clinton, cosa però perfettamente legittima nel sistema americano dove conta non solo il numero ma anche la geografia delle scelte popolari.

Cortei in America contro la decisione degli Usa di bombardare l’Iran.

Dall’altro però il caso Suleimani, seguito subito da un Trump minaccioso e poi dopo pochi giorni da un Trump che tende la mano all’Iran, pone allo stesso elettorato trumpiano, in genere molto contrario ad avventure internazionali e tutto concentrato sull’economia, l’immigrazione e la riaffermazione di una supremazia dell’America bianca, un chiaro quesito: che politica estera ha il presidente? Trump ha una politica elettorale, non una politica estera.

L’ATTACCO ALL’IRAN COZZA CON IL NAZIONALISMO ISOLAZIONISTA

In genere gli americani votano sulla base dell’economia e delle questioni interne, e assai meno della politica internazionale, che ha pesato solo nel voto del 1948 e del 1952, quando veniva organizzato il sistema della Guerra Fredda, e in parte quello del 1968 e 1972, quando si trattava di chiudere la malaugurata partita del Vietnam, e in parte ancora minore in quello del 1960, ancora all’ombra dello choc Sputnik (1957). Trump ha ereditato la guida della prima potenza mondiale, leader di un sistema multilaterale ormai vecchio di 70 anni ma non facilmente superabile, che va dall’economia ai commerci fino alla strategia militare di cui la residua Nato è l’esempio più chiaro ma non unico.

Trump ha sempre seguito un’altra America, a lungo ridotta al semi silenzio e disdegnata, quella dei cranks, persone con idee “strane”, poco interessate a quanto succede oltremare

Ma Trump è un immobiliarista, grosso ma neppure molto stimato, forte di una crassa ignoranza su come e perché questo sistema è stato costruito dai suoi predecessori, a partire da Franklin D. Roosevelt e, soprattutto, da Harry Truman e Dwight Eisenhower. È diffusa a Washington l’opinione che se al presidente venisse chiesto un brevissimo riassunto improvvisato su come il suo Paese ha organizzato tra il 1945 e il 1947 l’enorme potere che la Seconda guerra mondiale a la presenza dell’Urss gli concessero sbaglierebbe abbondantemente nomi, date e la gerarchia delle decisioni più importanti. Trump ha sempre seguito un’altra America, a lungo ridotta al semi silenzio e disdegnata, quella dei cranks, persone con idee “strane”, poco interessate a quanto succede oltremare se non per fare quattrini, e il cui motto è rimasto il «…the chief business of the American people is business..» dichiarato dal presidente Calvin Coolidge nel gennaio del 1925.

Proteste in turchia dopo la morte del generale iraniano Qasem Soleimani.

Coolidge aggiungeva anche che gli americani «sono profondamente interessati a comperare, vendere, investire e prosperare nel mondo», il che implica una politica estera. Ma gli “America firsters” che ancora nel 1940 volevano un Paese fuori da ogni conflitto (anche la famiglia Kennedy li appoggiava e finanziava per spirito irlandese antibritannico) a occuparsi solo dei non meglio precisati fatti propri dovettero aspettare Pearl Harbour nel dicembre 1941 per guardare in faccia la realtà. Trump viene da qui, e il resuscitato America First come noto è il suo motto, puro nazionalismo con forti tentazioni isolazioniste. Questo lo ha fatto vincere nel 2016. E con questo un drone contro Suleimani non ha molto a che fare, come mossa politica. È solo una vendetta. Ma anche questa è politica. E allora?

TRUMP DESTABILIZZA IL VECCHIO MONDO SENZA PROPORNE UNO NUOVO

I guai che Trump sta facendo come leader nazionalista di un Paese ancora molto condizionato da un multilateralismo che a lungo è stata la sua bandiera sono numerosi e gravi, sul piano commerciale e strategico. Anche Richard Nixon era un nazionalista e non esitò a gettare a mare nel ’71 quello che era forse in economia il perno del sistema, le parità monetarie di Bretton Woods, ma la sua base non erano i cranks bensì l’ala destra repubblicana da cui poi emergeranno, in parte, i neoconservatori degli Anni 90, nazionalisti ma tutt’altro che isolazionisti. Trump ha commesso l’errore di voler lasciare un mondo, quello disegnato 70 anni fa dalla leadership americana, senza proporne un altro, che non deve necessariamente abolire il precedente, ma cambiarlo in modo significativo, che non vuol dire in modo totale.

Suleimani è servito a far parlare meno di impeachment, a riaffermare la forza dell’esecutivo, a far vedere che i militari erano d’accordo

Dov’è questo mondo di Trump? Nell’alleanza con Boris Johnson e nella semi-alleanza con Vladimir Putin, nemico-amico. E nei suoi tweet, nell’insofferenza per i collaboratori più stretti, con la girandola di ministri e altri con rango ministeriale più ampia, in tre anni, rispetto a tutti i predecessori da Nixon in poi, persone uscite in gran parte perché impossibilitati a collaborare a una strategia che non c’è. L’uccisione di Suleimani che cosa vuol dire, più o meno Medio Oriente per gli Stati Uniti? Suleimani è servito a far parlare meno di impeachment, a riaffermare la forza dell’esecutivo, a far vedere che i militari erano d’accordo (ma invocano a gran voce una politica più coerente, o meglio una politica tout court).

Il presidente Usa Donald Trump.

Trump è stato definito da vari commentatori americani un geopolitical destabilizer. Uno che cambia il vecchio senza però saper proporre un nuovo che non sia un impossibile, almeno oggi, arroccamento dell’America fra i due Oceani. Del resto Johnson e mezza Gran Bretagna pensano sia possibile un arroccamento con la protezione della Manica. Far fuori un avversario è in sé cosa gradita a tutti i cranks d’America, ma bisogna vedere poi le conseguenze, e queste non sono chiare. Neppure sulle prospettive elettorali, che certamente hanno pesato sulla scelta di mandare due droni a far fuori il patron delle operazioni speciali dei rivoluzionari islamici iraniani.

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Michael Bloomberg pronto a spendere 1 miliardo contro Trump

Il candidato democratico Michael Bloomberg deciso a innaffiare la campagna col suo denaro. Anche se dovesse uscire sconfitto dalle primarie. Finanzierebbe Sanders o Warren. Pur di sconfiggere il presidente.

Pronto a tutto pur di liberare gli Stati Uniti da Donald Trump. La corsa alla Casa Bianca è destinata a diventare una guerra tra miliardari, a prescindere da chi tra i democratici otterrà la nomination per le presidenziali. L’ex sindaco di New York Michael Bloomberg non ha infatti escluso di spendere un miliardo di dollari della sua fortuna anche se non dovesse essere lui a spuntarla nelle primarie dem. E ha assicurato che mobiliterà la sua ben finanziata campagna per aiutare anche i senatori Bernie Sanders o Elizabeth Warren a battere Donald Trump, nonostante le forti differenza politiche che li separano. Il nemico comune, quindi, finirebbe per appianare i dissidi interni e anche una sconfitta personale non fermerebbe la battaglia elettorale di Bloomberg. Lo ha scritto il New York Times citando lo stesso imprenditore.

UNA FORTUNA DI OLTRE 50 MILIARDI

«Dipende se il candidato ha bisogno di aiuto: se sta facendo molto bene necessiterà di meno aiuto, altrimenti ne avrà più bisogno», ha detto Bloomberg durante una tappa della sua campagna in Texas. Chi conquisterà la nomination, quindi, potrà contare non solo sul suo appoggio finanziario ma anche sulla sua ramificata rete organizzativa. L’ex sindaco di New York, che conta su una fortuna di oltre 50 miliardi di dollari, ha già speso più di 200 milioni in spot pubblicitari, con un ritmo che entro marzo sarà uguale alla somma investita da Barack Obama nel corso dell’intera campagna del 2012. Un enorme investimento pur di sfrattare dalla Casa Bianca un inquilino scomodo e inviso a buona parte della popolazione.

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Ma quale Soleimani, la minaccia globale è il dittatore Trump

La scusa del rischio imminente di attentati terroristici per giustificare l'uccisione del generale iraniano non regge: il pericolo per il mondo è solo The Donald. E persino alcuni repubblicani, scavalcati come tutto il Congresso Usa, se ne stanno accorgendo.

Mentre Meghan e Harry si “licenziano” dalla Corona britannica, il presidente Donald Trump sogna di essere dittatore assoluto, e decide, senza consultare il Congresso, e cioè come un dittatore qualsiasi, di trucidare Qassem Soleimani. Non era certo uno stinco di santo, il generale Soleimani, anzi: per quanto fosse la seconda persona più importante in Iran, rispettato e considerato un eroe dal regime, era a capo della Quds Force, un gruppo all’interno dei Pasdaran, il corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica in Iran responsabile di molti attacchi terroristici nel mondo. E nelle ultime settimane, dopo l’attacco alla base militare e l’assalto dell’ambasciata americana a Bagdad, Trump si è fatto prendere dal panico.

GIUSTIFICAZIONI DIFFICILMENTE CREDIBILI

Ha giustificato la sua azione di guerra dicendo che i Servizi segreti gli avevano annunciato che Soleimani era diventato una minaccia imminente agli Stati Uniti, scusa che in molti, fra politici e cittadini, fanno fatica a credere. In realtà pare che il generale fosse arrivato in Iraq per incontrarsi con il presidente iracheno per discutere delle trattative tra l’Iran e l’Arabia Saudita. Pare che ci sia stato un altro attacco, quella stessa notte, per ammazzare Abdul Reza Shahlai, un alto ufficiale iraniano che si trovava in Yemen, ma pare che l’attentato non abbia avuto successo.

ENORMI PREOCCUPAZIONI ANCHE A WASHINGTON

Tutto questo, per ora, sembra avere poco a che fare con una minaccia imminente. Molto a che fare (ma questa è la mia opinione) con tutto quel disastro riguardo l’impeachment e la voglia di far parlare d’altro, possibilmente migliorando le possibilità di vittoria per un secondo mandato nel 2020. Ma chi sono io per giudicare? Una cosa è chiara: la minaccia imminente più pericolosa, per ora, rimane il presidente Trump. Le azioni militari contro l’Iran hanno suscitato enormi preoccupazioni, sia a livello internazionale sia a Washington. Malgrado Trump desideri essere l’unico ad avere il potere di attaccare a destra e a manca chi lo spaventa, negli Stati Uniti non funziona (ancora) così: ogni azione bellica deve essere prima discussa al Congresso e al Senato e deve essere approvata dalla maggioranza. Cosa che non è successa: dopo l’assassinio del generale Soleimani, un rappresentante della Casa Bianca ha indetto una riunione al Senato (che è per la maggior parte in mano repubblicana) per giustificare l’azione di Trump.

PERSINO PER QUALCHE REPUBBLICANO È STATO ABUSO DI POTERE

Se per alcuni repubblicani questo è bastato per appoggiare il presidente, per alcuni di loro, compresi i senatori Rand Paul (Kentucky) e Mike Lee (Utah), è stato commesso un grave errore, un abuso di potere. Mike Lee ha rilasciato questa dichiarazione: «La riunione con il rappresentante della Casa Bianca è stata la peggiore degli ultimi nove anni che sono al Senato, soprattutto riguardo questioni militari. Conoscendo la nostra storia, fare una consultazione non è la stessa cosa che ricevere un’autorizzazione a procedere usando la forza militare. Una notifica o una patetica riunione fatta dopo che il fatto è accaduto non sono adeguate alla circostanza».

I DEMOCRATICI PROVANO A LIMITARLO

La Camera dei rappresentanti, in mano ai democratici, ha votato giovedì mattina di limitare il potere di dichiarare guerra al presidente. Oltre alla stragrande maggioranza dei voti dei democratici, anche qualche repubblicano ha ammesso che il presidente Trump questa volta l’ha fatta davvero grossa. In risposta agli attacchi degli Stati Uniti in Iraq e i Yemen, gli iraniani hanno bombardato due basi militari americane, senza causare nessuna vittima, forse per fare in modo che la situazione non degeneri in una vera guerra, che nessuno vuole.

GIOCHI A GOLF E LASCI AD ALTRI GLI EQUILIBRI GLOBALI

Speriamo che Trump non decida di prendere altre iniziative senza consultare il Congresso, perché a questo punto la situazione mondiale potrebbe diventare davvero preoccupante. Speriamo che si impegni di più a giocare a golf e che lasci a chi ne sa di più il compito di mantenere l’equilibrio di pace globale intatto.

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Gli Usa pronti ai negoziati con l’Iran

L'ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft ha scritto lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell'Onu per scongiurare l'escalation.

Gli Stati Uniti sono «pronti a impegnarsi senza precondizioni in seri negoziati» con l’Iran: lo afferma, secondo quanto riporta la Bbc online, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft in una lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’obiettivo degli Usa, ha sottolineato Craft, è «prevenire ulteriori rischi per la pace e la sicurezza internazionali o l’escalation da parte del regime iraniano».

LA CAMERA IMPEDISCE LA GUERRA A TEHERAN

Già l’8 gennaio il rischio escalation è sembrato rientrare. L’attacco missilistico di Teheran contro due basi americane in Iraq in risposta all’uccisione di Solemaini non fa vittime. Trump ha ribadito che “tutte le opzioni restano sul tavolo”, ma per ora ha annunciato solo nuove sanzioni
contro gli interessi iraniani. Il 9 gennaio comunque la Camera americana
vota un progetto di legge per impedire al presidente Usa di fare la guerra a Teheran.

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Come la crisi iraniana sta spaccando la politica Usa

Le divisioni tra i falchi. Le divergenze nel Partito repubblicano e in quello democratico. I dissidi tra Casa Bianca e Pentagono. Le tensioni con Teheran allargano la faglia tra pro e anti Trump.

La crisi iraniana, esplosa dopo l’uccisione del generale Qasem Soleimani, sta producendo profonde spaccature in seno alla politica statunitense. Le varie fazioni che si stanno creando attorno a questo spinoso dossier non sono poche. La maggior parte dei repubblicani si è schierata dalla parte di Donald Trump. A sostenere il presidente in questo delicato frangente sono soprattutto i falchi del partito. All’indomani dell’attacco missilistico iraniano contro le due basi americane in Iraq, il senatore della Florida, Marco Rubio, ha dichiarato che il presidente ha gestito la faccenda «molto bene», aggiungendo: «Gli Stati Uniti erano ben preparati per questo tipo di attacco e non hanno bisogno di affrettarsi per decidere la risposta appropriata». Una posizione in buona sostanza condivisa anche dal senatore del South Carolina, Lindsey Graham, che ha definito l’aggressione iraniana «un atto di guerra». Riferendosi all’uccisione di Soleimani, l’ex ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, ha invece affermato: «Le uniche persone che piangono la scomparsa di Soleimani sono i nostri leader democratici e i candidati presidenziali democratici».

Va tuttavia notato che il fronte dei falchi non appare del tutto coeso e che può, almeno in generale, essere diviso in due parti. Se è infatti possibile scorgere una frangia più moderata che, con Graham, invoca un’azione ferma (volta a “ristabilire la deterrenza” contro l’Iran), è presente anche una fazione molto più agguerrita che chiede di andare ben oltre. In questo senso, non bisogna trascurare la posizione dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, che – qualche giorno fa – si è augurato che l’uccisione di Soleimani possa costituire il primo passo per arrivare a un cambio di regime in Iran. Una prospettiva, quest’ultima, che Trump non ha mai mostrato di apprezzare e lo stesso Graham – nelle scorse ore – ha ribadito che il presidente non auspica un simile obiettivo. Se dunque il fronte dei falchi non appare del tutto compatto, neppure il Partito Repubblicano si è interamente schierato con Trump sul dossier iraniano.

NON TUTTO IL PARTITO REPUBBLICANO STA CON TRUMP

Per quanto minoritaria, la frangia dei libertarian (di tendenze storicamente isolazioniste) non ha gradito troppo l’eliminazione di Soleimani. Qualche giorno fa, il senatore del Kentucky Rand Paul ha dichiarato che Trump avrebbe «ricevuto cattivi consigli» sulla sua decisione di uccidere il generale iraniano: non è del resto un mistero che Paul sia sempre stato abbastanza favorevole ad intraprendere azioni diplomatiche per appianare le divergenze geopolitiche tra Washington e Teheran. L’amministrazione Usa, dal canto suo, ostenta al momento compattezza. La sintonia tra il presidente e il segretario di Stato, Mike Pompeo, sembra forte. Tutto questo, nonostante l’episodio della lettera, circolata due giorni fa, su un eventuale ritiro delle truppe americane dall’Iraq possa suggerire la presenza di qualche dissidio tra la Casa Bianca e il Pentagono.

L’INVERSIONE DI ROTTA DELLA WARREN

Ancora più articolata (e confusa) rispetto alla situazione nel Gop risulta quella tra i democratici: soprattutto se si guarda ai principali candidati alla nomination. L’estrema sinistra si è mostrata sin da subito molto critica nei confronti dell’uccisione del generale, con il senatore del Vermont Bernie Sanders che ha definito l’accaduto un «assassinio» che potrebbe condurre gli Stati Uniti verso una nuova «disastrosa guerra in Medio Oriente».  Più controversa la posizione di Elizabeth Warren. Il giorno dell’uccisione di Soleimani la senatrice del Massachusetts aveva postato un primo tweet in cui, pur denunciando la possibilità di un conflitto, definiva il generale iraniano un «assassino». Qualche ora dopo, in seguito alle critiche ricevute su Twitter da attivisti di area liberal, ha in parte cambiato linea, sostenendo che Trump abbia «assassinato un alto funzionario militare straniero» e ritenendo inoltre il presidente responsabile dell’acuirsi delle tensioni con Teheran.

Più “istituzionali” si sono mostrati l’ex vicepresidente statunitense, Joe Biden, e il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg

L’inversione di rotta non è passata inosservata e ha messo in luce le difficoltà della Warren a barcamenarsi tra le istanze più a sinistra dell’elettorato americano e quelle dell’establishment del Partito Democratico (cui la senatrice non è così estranea come spesso vorrebbe far ritenere). Più “istituzionali” si sono invece mostrati l’ex vicepresidente statunitense, Joe Biden, e il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg: i due hanno affermato che Soleimani era un nemico dell’America ma non hanno comunque perso occasione per criticare Trump. Biden ha accusato il presidente di aver gettato un candelotto di dinamite in una polveriera, sostenendo che la Casa Bianca non disporrebbe di adeguate strategie mediorientali. Buttigieg, dal canto suo, ha criticato Trump per aver ordinato l’eliminazione del generale senza chiedere l’autorizzazione del Congresso.

L’INIZIATIVA DELLA SPEAKER PELOSI

E proprio quest’ultima accusa ha fatto breccia in gran parte dell’Asinello negli ultimi giorni. Lunedì scorso, la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha annunciato l’introduzione di una risoluzione per limitare il potere del presidente sul dossier iraniano: una risoluzione che – ha scritto in una lettera la Pelosi – «riafferma le responsabilità di supervisione da lungo tempo assunte dal Congresso, imponendo che se non verrà intrapresa alcuna ulteriore azione congressuale, le ostilità militari dell’amministrazione nei confronti dell’Iran cesseranno entro 30 giorni». L’argomento, che può avere una sua validità tecnica in astratto, risulta tuttavia debole in concreto, alla luce del fatto che Barack Obama nel 2011 ordinò l’intervento in Liba, aggirando completamente l’autorità del Campidoglio. Resta tuttavia il fatto che, con ogni probabilità, la leadership dell’Asinello è intenzionata a dare battaglia su questo fronte. Magari intersecando il tutto con la partita dell’impeachment.

I (PRESUNTI) LEGAMI CON L’IMPEACHMENT

A questo proposito, c’è chi sostiene che il presidente avrebbe ordinato l’uccisione di Soleimani proprio per fronteggiare al meglio il processo di messa in stato d’accusa (che dovrebbe celebrarsi questo mese al Senato). L’interpretazione risulta tuttavia abbastanza inconsistente: Trump non aveva infatti bisogno di uccidere il generale per ottenere l’appoggio dei falchi alla Camera alta (sono mesi che, per esempio, Graham sta sostenendo il presidente su questo fronte). Inoltre, anche in termini di opinione pubblica, il consenso verso l’impeachment era già progressivamente scemato tra novembre e dicembre. Discorso simile vale poi per chi dice che Trump ha agito in ottica prettamente elettorale. È vero che secondo un recentissimo sondaggio di Morning Consult il 47% degli intervistati si è detto favorevole all’eliminazione di Soleimani (mentre solo il 40% ha manifestato contrarietà). Ma è altrettanto vero che difficilmente gli americani voteranno a novembre del 2020 pensando all’uccisione del generale iraniano. 

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All’America non piace la guerra di Trump contro l’Iran

Manifestazioni in 80 città degli Stati Uniti dopo l’omicidio mirato di Soleimani. Si teme una nuova palude in Medio Oriente. Mentre i dem alla Camera annunciano una risoluzione per limitare il presidente.

In più di 80 città degli Usa si manifesta contro lo strike al generale iraniano Qassem Soleimani. Davanti alla Casa Bianca un migliaio di pacifisti ha condannato il gigantesco azzardo di Donald Trump, e tra loro come sempre da tempo è spiccata un’infervorata Jane Fonda.

DE NIRO CONTRO I PIANI DEL «GANGSTER»

L’attrice e attivista americana che negli Anni 70 si mobilitò contro la palude del Vietnam protesta per scongiurare il «nuovo Vietnam in Medio Oriente». Che milioni di americani temono e che Teheran promette giurando vendetta. Robert De Niro, che a Trump non le manda a dire, è convinto iniziare una guerra sia «l’unico modo» per il «gangster» di «farsi rieleggere».

ALTRI ATTI PER INTERDIRE THE DONALD

Guarda caso con il 2020 si è aperto al Senato il processo per l’impeachment, dove a sorpresa il falco repubblicano John Bolton si è fatto avanti per testimoniare come chiesto dai dem. Se non altro il finimondo scatenato in Medio Oriente oscura la campagna mediatica internazionale sulla messa in stato di accusa di Trump. Eppure proprio l’omicidio mirato di Soleimani in Iraq innesca altri atti per interdire il presidente.

STRIKE LEGITTIMO? DUBBI ANCHE OLTREOCEANO

Diversi esperti di diritti umani e strateghi contestano alla Casa Bianca la «liceità» dell’uccisione di un alto comandante militare, in un Paese terzo, come nel caso di Soleimani. Un «atto di guerra (non la reazione «di difesa» rivendicata dalla segreteria di Stato Usa) anche per l’ex consigliere del presidente Jimmy Carter durante la crisi degli ostaggi all’ambasciata Usa di Teheran Gary Sick, tra i massimi conoscitori americani dell’Iran. L’argomentazione di un «attacco terroristico imminente» pianificato da Soleimani contro gli Stati Uniti – dossier dichiarato coperto da segreto di Stato – lascia perplessi anche Oltreoceano. Tecnicamente gli omicidi mirati, anche di figure statali del calibro del comandante delle forze all’estero al Quds dei Guardiani della rivoluzione, sono ammessi dall’articolo 2 della Costituzione Usa sulla legittima difesa – ma in circostanze limitatissime. A patto che sia pressoché certa la minaccia imminente.

Iran Soleimani Trump caos Usa
Americani contro la guerra all’Iran di Trump, Usa. (Getty).

NANCY PELOSI TORNA ALLA CARICA

L’incaricata dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali Agnes Callamard, che ha appena guidato l’inchiesta sull’omicidio di Jamal Khashoggi, chiede «trasparenza» dalla Casa Bianca, su un atto estremo – anche per conseguenze – sul quale l’Amministrazione è tenuta a rendicontare. Anche per l’esperta di intelligence, ed ex advisor dell’Onu, Hina Shamsi quanto finora affermato da Trump e dal suo accondiscendente segretario di Stato Mike Pompeo non è convincente come giustificazione: «Se ci sono più informazioni il presidente deve prendersi la responsabilità di diramarle. Non possiamo tirare a indovinare». Per i dem lo strike a Soleimani è «dinamite in una polveriera», ha esclamato l’ex vicepresidente Joe Biden. Mentre la presidente della Camera Nancy Pelosi – già promotrice dell’impeachment – ha annunciato al voto dell’assemblea a maggioranza democratica una risoluzione «sui poteri di guerra per limitare le azioni militari del presidente».

LA LETTERA SUL RITIRO AMERICANO DALL’IRAQ DIFFUSA PER ERRORE

Un testo per riaffermare la «responsabilità di supervisione del Congresso. Rendendo obbligatoria, in assenza di ulteriori azioni parlamentari, la fine entro 30 giorni delle ostilità militari contro l’Iran», ha anticipato Pelosi. Tenuto conto dell’«attacco «provocatorio e sproporzionato» che «ha messo in serio pericolo i nostri militari, i nostri diplomatici e altri, rischiando una grave escalation di tensione con l’Iran». Il riferimento è alle migliaia di rinforzi mandate dagli Usa con ponti aerei a inizio 2020, in aggiunta alle migliaia di unità già presenti in Medio Oriente. Quando ancora alla fine dell’anno la Casa Bianca premeva per smantellare questi contingenti, dopo il repentino disimpegno dalla Siria. Un clima schizofrenico: dopo lo strike di Soleimani, circola in Rete una misteriosa lettera per la Difesa irachena del Comando generale Usa sul «riposizionamento delle unità» per un «ritiro sicuro», nel «rispetto della sovranità irachena». «Diffusa per errore», ha ammesso il Pentagono, «ma esistente».

Iran Soleimani Trump caos Usa
In Times Square, a New York, contro le guerre di Trump in Medio Oriente. GETTY.

DAL PENTAGONO ALT ALLA MINACCIA VERSO I SITI CULTURALI

La Germania e altri Paesi europei hanno iniziato a «snellire» i contingenti in Iraq, l’Italia a «riposizionare» le sue unità fuori dalle basi Usa attaccate a colpi di mortaio. La Nato in sé si è distaccata pubblicamente dall’operazione contro Soleimani «decisa solo dagli Usa». Mentre anche Oltreoceano il Pentagono ha smentito platealmente la minaccia di rappresaglia, diffusa e rilanciata via Twitter dal presidente americano, di «colpire i siti culturali», contraria alle leggi internazionali sui conflitti armati. Tutto il mondo si è levato contro i raid su Persepoli e sulla ventina di siti persiani patrimonio dell’umanità dell’Unesco: un crimine di guerra in base alla Convenzione dell’Aia del 1954. Ma le migliaia di americani in piazza chiedono di più per le Presidenziali del 2020: «Stop alle bombe in Iraq» e «militari fuori da tutto il Medio Oriente», prima che l’Iran e le sue milizie sciite alleate li caccino col sangue. Il 2 gennaio negli Usa era in programma una trentina di cortei nel weekend, per l’impeachment di Trump.

IMPEACHMENT E IRAN: PROTESTE A CATENA

I razzi del 3 gennaio contro Soleimani e il leader degli Hezbollah iracheni Abu Mahdi al Muhandis hanno moltiplicato le contestazioni. Numeri che in America non si vedevano dalla guerra in Iraq del 2003. A Times Square a New York, davanti alla Trump Tower a Chicago, a Memphis, Miami, San Francisco: contro il flagello di Trump il popolo dei pacifisti – e non solo – è in moto come ai tempi del Vietnam. Un caos anche Oltreoceano, dove lo choc mondiale provocato da Trump sull’Iran si somma alle acque agitate per l’impeachment. È doppio combustibile per le sessioni infuocate del Congresso. Non casuale, in proposito, è il sì di Bolton a parlare per la messa in stato di accusa del presidente: i dem considerano un loro trionfo il passo dell’ex advisor (silurato) di Trump alla Sicurezza nazionale. E nessuno, anche tra i repubblicani, converrebbe come la Casa Bianca che con la morte di Soleimani gli americani «sono più sicuri». Tranne probabilmente Bolton, ma neanche la guerra all’Iran di Trump lo ha placato.

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Perché vanno ascoltate le parole rivoluzionarie del cardinal Zuppi

In un'epoca caratterizzata dal furore di irresponsabili, Trump in testa, l'arcivescovo di Bologna propone un nuovo umanesimo. Base per una nuova politica.

Le parole di guerra che leggiamo o ascoltiamo in questi giorni lasciano annichiliti. L’Iran minaccia vendette sanguinose e Donald Trump, autore di questa crisi, parla di risposte militari che investiranno anche i luoghi d’arte, e, temo, di culto, in ogni caso «sproporzionate». Da anni non sentivamo da un leader di un Paese d’Occidente parole tanto infuocate e irresponsabili. Ovviamente Matteo Salvini è d’accordo con lui. In molti di noi si riaffaccia l’anti-americanismo degli anni del Vietnam a cui bisogna resistere perché non possiamo fare a meno dell’America, anche se oggi è piccola cosa, priva di egemonia, ridotta e isterica potenza militare guidata da un uomo senza qualità.

IL MONDO È IN MANO AL FURORE DI IRRESPONSABILI

L’ansia maggiore sta nella sensazione che nessuno di noi possa fare alcunché per proteggere il mondo dal furore di irresponsabili. Ci è capitato di vivere in questa stagione della storia in cui mancano personalità mondiali, a parte papa Francesco, e proliferano mezze calzette con troppo potere. Eppure non è vero che non si possa fare nulla. Non c’è ovviamente un gesto che può fermare questa corsa alla guerra mondiale, quella guerra mondiale «a pezzettini» come la definì il pontefice alcuni anni fa. Viviamo in un Paese che rifiuta di assumere un ruolo di pace e che rischia di essere diretto da uomini di guerra.

BISOGNA CREARE GRANDI MOVIMENTI CONTRO L’ODIO

Eppure noi sappiamo, perché è la storia del mondo che ce lo dice, che lo sviluppo di solidi movimenti di pace, che la rinascita di una opinione pubblica responsabile potranno fare il miracolo se le giovani generazioni ne diventeranno protagoniste. Oggi un movimento di pace non può esser sospettato di parteggiare per una parte contro un’altra. Il mondo non solo non è diviso in due ma la competizione vede contrapposti vecchi imperi, imperi che rinascono, e rinascenti suggestioni imperiali. Oggi scendere in campo ha il vantaggio di apparire ingenui, insospettabili, non strumentalizzabili. Si tratta di creare grandi movimenti contro l’odio. Se le ho capite bene,  anche le Sardine hanno questo come obiettivo, ma serve di più.

LA LEZIONE DEL CARDINALE DI BOLOGNA

Vorrei suggerire a chi mi legge un libro fondamentale scritto dal cardinale di Bologna, con il collega Loreno Fazzini, Matteo Maria Zuppi che su questo tema ci ha donato riflessioni importanti. Il libro non è riassumibile. Ogni frase vale come un suggerimento, come una esperienza di vita di un sacerdote che è stato sulla strada per tanti anni e che per anni con la comunità di Sant’Egidio si è occupato di mettere pace in Paesi come il Mozambico. Scrive monsignor Zuppi: «Per non odiare, ovvero sentirsi veramente amati, è necessario e indispensabile esser credenti, o meglio, cristiani?». Ecco la risposta: «Penso che sia una alleanza tra i credenti, quando prendono sul serio il Vangelo, e quanti non rinunciano alla sfida di restare umani anche in tempi difficili, animi nobili e alti, che per questo non cedono all’odio in nome dell’Umanità stessa».

VERSO UN NUOVO UMANESIMO

È l’idea di un nuovo umanesimo che comprenda tutte le fedi e anche chi non ha fede a illuminare l’ispirazione del cardinale Zuppi e a dargli la suggestione che si possa creare un movimento di pace che sia incentrato sul rifiuto dell’odio. Scrive ancora Zuppi: «Quante vite hanno rovinato l’isolamento dell’io e la schiavitù dell’io. Un’antropologia moderna, che proietta giudizi negativi sugli altri per proteggere se stessi, promette l’infinito e crea una vita dimezzata».

IL MALE DELL’ADORAZIONE DI SÉ

Zuppi affronta anche un tema che fu centrale nella riflessione degli «atei devoti» negli anni ratzingeriani, la critica del relativismo, e dice che «bisogna scoprire il valore positivo di un innovativo relativismo, cioè l’abbandono della assolutizzazione di sé per rendersi disponibili alla relazione…Ma vorrei usare questa parola popolare, relativismo, per cambiarne, prima o poi, il significato. Dobbiamo lottare in tanti modi contro il rischio di una idolatria che ci imprigiona: l’adorazione di sé, come fosse una divinità da servire e alla quale sacrificarsi. E contemporaneamente lottare contro la caduta di senso del limite, perché si fa fatica a contrastare una soggettività per la quale qualunque atto diventa lecito in base al principio della libertà dell’io, senza la considerazione del bene e dei rischi comuni. Relativizzare il sé e aprirci agli altri, non può, invece, che liberarci, sollevarci, calmarci, e orientare le nostre risorse interiori, dando senso al tutta la nostra esistenza. Ci aiuta e ricentrare davvero il nostro sé, il nostro essere».

SOLO L’AMORE PUÒ CONTRASTARE LA PAURA

E poi un concetto fondamentale: «La paura è un segnale che ci rende consapevoli di un pericolo. È una spia importante, un indicatore che occorre prendere in considerazione, e non ignorare per spavalderia, per leggerezza, per presunzione. È importante, quindi, prendere con serietà la paura, ma poi occorre contrastarla con l’unico atteggiamento capace di superarla: l’amore. Se la paura decide per noi diventa rabbia, rivalsa, diffidenza o aggressività. Contrastiamo la paura, invece, anzitutto aprendoci all’amore perché questo genera una forza inaspettata, nuova e creativa, che ci rende capaci di cose grandi».

LA DIFFERENZA SOSTANZIALE TRA BUONO E BUONISTA

Il cardinale ha scritto così un manifesto per il “buonismo”? Zuppi è schietto, e persino eccessivamente franco, come il suo papa e dice: «Buonismo è fermarsi ad una buona azione che serve a te e non a chi sta male, è credere di far pace con la propria coscienza solo per un buon sentimento di attenzione all’altro, come se volere bene non comportasse farsi carico. I cristiani sono i primi a non trovarsi bene nella casa dei buonisti. Il samaritano è buono, non buonista….La compassione che lui vive, e che siamo chiamati a sperimentare anche noi, è quella che si fa carico, fino a cercare di risolvere il problema della persona sofferente….Il buonismo non risolve, si compiace troppo di sé, non si misura con la fatica della ricerca di soluzioni». Il libro di Zuppi (Odierai il prossimo tuo, editore Piemme) è una miniera di pensieri forti qui solo in parte riassunti. Mi interessa solo che chi mi legge, e leggerà il libro, immagini che si può non stare inerti di fronte alle brutture del mondo, ma che si può iniziare la grande rivoluzione contro l’odio. Assumendo il bene degli altri come realizzazione di sé, si può creare la via maestra per un nuovo umanesimo e quindi per una nuova politica.

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La situazione tra Iran e Usa dopo l’uccisione di Soleimani

Il Pentagono nega nuovi raid, ma manda 2.800 soldati in Medio Oriente. Teheran assicura di non volere una escalation, ma promette vendetta. Razzo su un aeroporto di Baghdad che ospita truppe americane.

Il Pentagono assicura che, almeno per il momento, non sono previsti altri raid aerei degli Stati Uniti contro le milizie filo-iraniane. Teheran da una parte, col suo ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, dichiara di non volere alcuna escalation, dall’altra, attraverso i Pasdaran e il presidente Rohani, manda chiari messaggi minacciosi all’America. E due razzi che colpiscono la superprotetta Green Zone di Baghdad, vicino all’ambasciata americana, e la base aerea di Balad, che ospita truppe americane, centrata da missili Katyusha. Non vi sono al momento notizie di vittime.La situazione in Medio Oriente, nel giorno in cui il feretro dell’eroe nazionale iraniano Qassem Soleimani è sfilato per le vie di Baghdad accompagnato dalla folla che gridava «morte all’America», sembra quella di una pentola a pressione pronta a esplodere.

NUOVI SOLDATI AMERICANI

La sensazione, al di là delle parole, è che però tiri un deciso vento di guerra. Così gli Stati Uniti hanno deciso di inviare circa 2.800 soldati a protezione delle sedi diplomatiche e degli interessi Usa nell’area, i punti nevralgici più sensibili a una rappresaglia iraniana che è impossibile pensare non arrivi. D’altra parte l’ambasciata americana a Baghdad era già stata assaltata da migliaia di manifestanti pochi giorni prima dell’uccisione di Soleimani.

INCONTRO IRAN-QATAR

Intanto il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha ricevuto a Teheran il suo omologo del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani. Zarif ha definito l’attacco Usa un «atto terroristico» che ha portato al «martirio» del comandante, ma ha anche aggiunto che «l’Iran non vuole tensioni nella regione, ed è la presenza e l’interferenza di forze straniere che causa instabilità, insicurezza e aumento della tensione nella nostra delicata regione».

IL QATAR PROVA A MEDIARE

Il Qatar, un alleato chiave degli Stati Uniti nella regione, ospita la più grande base militare di Washington in Medio Oriente , e Al-Thani ha definito la situazione nella regione «delicata e preoccupante» e ha invitato a trovare una soluzione pacifica che porti a una de-escalation. Il ministro del Qatar ha incontrato anche il presidente iraniano Hassan Rohani, che aveva giurato vendetta per il sangue di Soleimani. L’Arabia Saudita, il Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto hanno interrotto ogni rapporto con il Qatar nel 2017, accusando Doha di appoggiare l’estremismo e promuovere legami con l’Iran, accuse che il Qatar ha sempre respinto.

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Gli Stati Uniti di Trump hanno le forze spaziali

Inaugurato dal presidente e dalla first lady il nuovo corpo militare dedicato alla guerra nello spazio.

L’esercito degli Stati Uniti guarda allo spazio ed è pronto alla sua conquista, letteralmente. Il presidente Donald Trump ha ufficialmente inaugurato la sera del 20 dicembre la Us Space Force cioè le nuove forze spaziali americane, un nuovo corpo militare – si tratta del primo in più di settant’anni dedicato alla conquista e alla difesa spaziale.

«LA SUPERIORITÀ NELLO SPAZIO È VITALE»

«Lo spazio è il nuovo dominio mondiale di combattimento in guerra e tra le gravi minacce alla nostra sicurezza nazionale la superiorità americana nello spazio è assolutamente vitale», ha sottolineato il presidente Usa, in visita al nuovo corpo militare assieme alla first lady Melania Trump.

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Perché l’impeachment di Trump è un problema per la Russia

I media di Stato esultano, ma nella diplomazia serpeggia preoccupazione. Perché l'assedio del Congresso rende il presidente Usa imprevedibile. E riacutizza i sentimenti anti-russi nella politica d'Oltreoceano. Il racconto da Mosca.

Mentre sui media di Stato i guerrieri della propaganda del Cremlino si compiacciono del caos politico che regna a Washington, nelle stanze del potere di Mosca se ne è parecchio preoccupati.

Il capo della diplomazia russa Sergey Lavrov, durante una riunione tenutasi nel giorno in cui la Camera Usa ha messo in stato d’accusa il presidente Donald Trump, ha detto ai suoi consiglieri che il processo di impeachment sta creando «estreme difficoltà» nei già tesi rapporti con la controparte americana. «Riferendo degli incontri avuti con lo stesso Trump e con il Segretario dI Stato Mike Pompeo il 10 dicembre, il ministro ha sottolineato che i vertici dell’amministrazione americana sono così distratti dalla procedura di impeachment e dalla situazione politica interna da non essere in grado di concentrarsi sulle relazioni con Mosca in modo positivo», dice a Lettera43 il direttore del Consiglio russo per gli affari internazionali (Riac) Andrey Kortunov, che ha partecipato a quella riunione. «Certamente al ministero degli Esteri non si è contenti della situazione», spiega Kortunov.

L’attuale debolezza interna rende gli Stati Uniti «imprevedibili, inaffidabili e anche pericolosi»

Andrey Kortunov, Consiglio russo per gli affari internazionali

Il maggior timore è che il presidente Usa, «spinto dal nervosismo per l’impeachment, al fine di migliorare la sua posizione sul fronte domestico possa decidere qualche azione sconsiderata in politica estera ai danni della Russia». L’attuale debolezza interna rende gli Stati Uniti «imprevedibili, inaffidabili e anche pericolosi».

PER MOSCA L’IMPEACHMENT RIACUTIZZA I SENTIMENTI ANTI-RUSSI

Il problema, dicono i diplomatici di Mosca, è che la procedura di impeachment ha riacutizzato i sentimenti anti-russi nella politica americana: il pasticcio della telefonata di Trump al presidente ucraino Volodymyr Zelensky è stato collegato dal fronte anti-Donald alle interferenze russe nelle elezioni Usa del 2016; l’ Ucraina viene di nuovo identificata, a Capitol Hill e sui media, come una vittima dell’orso russo a cui si deve assicurare aiuto e protezione. Tutto questo proprio quando un’attenuazione delle tensioni con l’Occidente, grazie all’apertura del presidente francese Emmanuel Macron e alla ripresa del dialogo con Kiev, faceva intravedere la possibilità di un ritiro delle sanzioni contro la Russia, e sembrava rendere di nuovo perseguibile quel “big deal” con gli Usa che resta un obiettivo strategico di Putin. Aspettative accantonate, almeno finché la situazione a Washington non sarà più chiara e stabile.

Donald Trump e Vladimir Putin.

Intanto, le accuse di contiguità con Putin alla radice dei guai del presidente americano, e che paradossalmente stanno procurando qualche mal di testa a Mosca, vengono celebrate nei talk show televisivi pro-Cremlino della tivù russa. Uno dei conduttori più popolari, Vladimir Solovyev, si riferisce ironicamente al presidente Usa come al «nostro Ivan Ivanovich», con tanto di patronimico alla russa. E sottolinea «nostro», l’aggettivo che i cantori del regime usavano per la Crimea al tempo dell’annessione. Il messaggio è che Trump ha messo in crisi il sistema politico di Washington indebolendo gli Usa, e che più deboli sono gli Usa meglio è per la Russia.

LA VOCE DELLA PROPAGANDA

Un simile concetto viene espresso in modo più sofisticato in un editoriale dell’agenzia di stampa governativa Ria Novosti: «La conseguenza più importante dell’intera “operazione impeachment” è che chi l’ha iniziata ha involontariamente lavorato nell’interesse della Federazione Russa, e lo ha fatto in modo incredibilmente efficace», si legge nell’articolo, a firma dell’economista e blogger Ivan Danilov. Secondo cui dalla vicenda esce «completamente distrutto» il sistema istituzionale statunitense costruito sulle regole dettate dai padri fondatori. Tanto che nel conflitto politico in corso «i sostenitori di entrambi i partiti sognano di eliminare fisicamente gli oppositori, non più considerati concittadini e nemmeno essere umani». E così la stessa politica Usa «ha fenito per «firmare una sentenza di condanna per il Paese».

E QUELLA DELLA DIPLOMAZIA

«È davvero necessario tracciare una linea netta tra la propaganda e l’operatività politica», nota Kortunov riguardo alla retorica utilizzata dai media di stato russi nel coprire l’impeachment di Trump. «La propaganda fa il suo lavoro nel creare la narrativa di una Russia come Paese migliore rispetto agli Stati Uniti divisi e instabili. Così i cittadini possono dire: “siamo un’isola felice di stabilità in questo mondo volatile”, e anche se sanno che questa stabilità la si potrebbe anche chiamare estagnazione hanno qualcosa di cui esser soddisfatti. Ma sul piano operativo ho la netta impressione che i responsabili della politica estera russa preferirebbero trovarsi di fronte a un America meno imprevedibile». È la bipolarità che contraddistingue molti aspetti della Russia putiniana. Anche in questa caso, ne è la sintesi lo zar. Che ufficialmente si attiene alla linea ufficiale della non interferenza e della volontà di lavorare con qualsiasi presidente gli americani decidano di scegliersi, e poi – a impeachment inoltrato – difende a spada tratta Trump, definisce inventate le accuse e prevede pubblicamente l’esito del processo nel Senato di Washington.

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