La vera minaccia è la politica dei Mastrolindo

Slogan, promesse irrealizzabili, jingle. Da Berlusconi a Salvini, Di Maio e Renzi, i leader sono pubblicitari pronti a offrire soluzioni in stile Trivago o Facile.it. Ma così il disastro è dietro l'angolo.

La democratizzazione del desiderio. Ovvero tutti hanno diritto a tutto. Cose serie e frivole, bisogni e sogni allo stesso modo. Perché l’erba voglio oggi cresce dappertutto e con una velocità che riesce addirittura a divorare se stessa. Desiderare il desiderio è diventato perfino più importante dell’oggetto desiderato

DESIDERI ILLIMITATI, RISORSE LIMITATISSIME

Chi ricorda «Il tuo prossimo desiderio» (spot dell’Ariston) oggi fa i conti con una realtà in cui non si fa in tempo a soddisfarne uno che ce ne sono altrettanti, se non di più, che attendono soddisfazione.

Come abbiamo potuto farci abbagliare da promesse di benessere e felicità così grossolane, così splendenti da non indurci nel sospetto che anziché d’oro siano di latta?

Certo per la società dei consumi – ha scritto John Seabrook in Nobrow: The Culture of Marketing, the Marketing of Culture – «nulla potrebbe essere più minaccioso del fatto che la gente si dichiarasse soddisfatta di quel che ha». Però è drammatico, per riprendere alcune considerazioni della volta scorsa, che i desideri siano diventati illimitati, che tutto sia desiderabile e teoricamente ottenibile. Senza curarsi, anche distrattamente, se si hanno le indispensabili risorse economiche, ma anche intellettuali, culturali, professionali.

DALLA INSODDISFAZIONE SI GENERA IL POPULISMO

Perché l’inevitabile scarto fra desiderio e realtà, mediamente grande per tutti, è generatore alla lunga di una profonda insoddisfazione sociale. Della quale i populisimi, variamente espressi nel mondo occidentale, ne sono l’espressione aggiornata. Con il loro carico di protesta, rabbia, ribellismo che si gonfiano fino a esplodere nei confronti di tutto ciò che viene identificato come responsabile delle promesse mancate, dei desideri inevasi, delle attese frustrate. Ciò che qui interessa però è come abbiamo potuto ridurci così. Come abbiamo potuto farci abbagliare da promesse di benessere e felicità così grossolane, così splendenti da non indurci nel sospetto che anziché d’oro siano di latta?

SIAMO SOMMERSI DA SPOT

La risposta è presto detta. Sono stati i pubblicitari e la pubblicità a ridurci così. Ma senza poteri occulti che hanno tramato e senza un disegno ideologico o una pianificata strategia. La circonvenzione d’incapaci – noi tutti – è avvenuta quasi spontaneamente, con tanta più forza persuasiva quanto più quella ideologia ha lavorato instancabilmente. Entrando in tutte le trame del vivere quotidiano, installandosi al centro del sistema massmediale, estendendo il paesaggio pubblicitario nei tanti modi oggi osservabili guardandosi intorno, camminando per la città, spostandosi in metro, muovendosi in auto.

La pubblicità non è né di sinistra né di destra. È la neutralità che la rende efficacissima. Ed è la sua efficacia che l’ha resa linguaggio principe

Ovunque si sia o si vada non manca mai un’immagine o un messaggio promozionale. Siamo letteralmente sommersi dalla pubblicità. Si stima che veniamo raggiunti in media da 3.000 messaggi al giorno. Ma non ci facciamo più caso. Perché quest’azione di avvolgimento e coinvolgimento è avvenuta in modo dolce. È partita da lontano, ha lavorato per anni, giorno per giorno, Come la goccia che scava il sasso ci siamo alla fine convinti che «Impossible is nothing» (Adidas) e che «Per tutto il resto c’è Mastercard».

LA PUBBLICITÀ È NEUTRALE E PER QUESTO EFFICACE

La pubblicità si è installata al centro del sistema, senza resistenze, se non timide nei decenni 60 e 70 di contestazione del sistema consumistico. Perché come tutte le ideologie forti, funziona non venendo percepita come tale. Nel pensiero corrente la pubblicità non è né di sinistra né di destra e nemmeno di centro. È la neutralità che la rende comunicazione efficacissima. Ed è la sua efficacia che l’ha resa linguaggio principe. D’altra parte è stata ed è proprio la politica, se non la prima, la più grande vittima della pubblicità. Al punto di arrivare a identificarsi con essa. Assumendone stile e modalità comunicativa, facendone proprie strategie e tecniche persuasive. In ossequio al principio che in pubblicità non bisogna dirle giuste ma bene. E che spararle grosse non solo si può ma si deve.

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Dal momento che un annuncio non ha alcun obbligo di verità: è comunicazione non informazione. Peraltro a chi interessa, ammesso sia verificabile, se «Scavolini è la cucina più amata dagli italiani»? Ciò che conta, come dicono i pubblicitari, è che si fissi il concetto, che passi il messaggio

FORZA ITALIA, LA SOTTOMISSIONE DELLA POLITICA ALLA RECLAME

Questo processo di sovrapposizione e nel contempo di sottomissione della politica alla pubblicità ha in Italia una data ufficiale: la nascita di Forza Italia, il partito creato dal nulla, modellato su Publitalia e impostosi alle prime elezioni nelle quali si presentò forte di una campagna pubblicitaria sulle reti Mediaset che per pressione, ovvero numero di spot trasmessi nei 40 giorni di campagna elettorale (1.127 con punte di 61 al giorno) era un’assoluta novità; che equiparava il partito di Silvio Berlusconi ai brand del largo consumo. Il promesso «nuovo miracolo italiano» si impose all’attenzione dei consumatori/elettori con forza persuasiva simile a «Se non ci fosse bisognerebbe inventarla» (Nutella) e «Dove c’è Barilla c’è casa». 

SI È IMPOSTA LA LOGICA ALLA «O COSÌ O POMÌ»

Ciò che però va sottolineato non è il carattere imbonitorio del messaggio politico, nel momento in cui diventa tout court pubblicitario, ma il fatto che promettere miracoli, palingenesi della domenica, risoluzione di problemi ed emergenze epocali è diventato normale. Credibile, evidentemente, per gli elettori/consumatori. Ma alla lunga deleterio e distruttivo per l’intera società. In primo luogo perché si è imposta la logica semplificatoria della pubblicità, che non conosce mezze misure: «O così o Pomì».

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La personalizzazione e l’attuale leaderismo che ne conseguono s’accompagnano alla speculare scomparsa dei partiti come portatori di visioni collettive e concezioni condivise del mondo e della società. Ora ogni partito è il suo leader. Che la canta e la suona come vuole. O meglio che se la twitta e se la posta (a pagamento), con propensione personalistica massima nel caso di Matteo Salvini e della Lega. Sull’account personale da marzo a ottobre sono stati spesi 161.608 mila euro, in quello del partito 845.

PROMESSE ROBOANTI E DIETROFRONT SDOGANATI

L’incrudelimento del confronto politico è causa ed effetto dell’esagerato aumento di tono delle promesse, tanto roboanti e giocate sull’emozione anziché sulla ragione, da colpire nell’immediato, a caldo, ma da svanire velocemente. È così che, annunciata la cancellazione della povertà per decreto o l’abolizione delle accise sulla benzina, si può senza pudore alcuno contraddirsi o addirittura smentirsi. Dimenticarsi delle promesse fatte. Ma non di aizzare i propri gruppi d’acquisto e fan club. Perché la pubblicità non conosce, né riconosce smentite o contraddizioni. Per dirla in pubblicitariese «mente sapendo di mentine».

BASTA CON I CAPITAN FINDUS E I MASTROLINDO

Ora cambiare registro, smettere con la politica del «pulito sì, fatica no», e ritornare a promesse realistiche, sarebbe auspicabile. Sommamente. Però non è all’ordine del giorno. Pensare che basti proibire la pubblicità della politica, come ha annunciato Twitter, è una pia illusione. Anche perché Facebook non lo farà. Allo stato attuale sarebbe già un risultato se si facesse strada, almeno, la consapevolezza che più la politica diventa annuncio, teatrino in streaming, offerta di soluzioni in stile Trivago o Facile.it, più il disastro si avvicina.

Non è il fascismo che minaccia di ritornare, ma qualcosa di perfino peggio, anche se allegro come un jingle. Perché la democrazia «non è come il vino che invecchiando migliora»

Però non è il fascismo che minaccia di ritornare, ma qualcosa di perfino peggio, anche se allegro come un jingle. Perché la democrazia, con le sue libertà e difese dei diritti civili e personali, «non è come il vino che invecchiando migliora». Lo scrive l’ultimo numero di The Economist citando una ricerca apparsa sull’American Political Science Review che ammonisce «a non dare per scontata la democrazia». Che anzi, in Italia, è più che mai in pericolo se i vari Matteo Salvini, Luigi Di Maio e Matteo Renzi continuano a travestirsi da Capitan Findus, Omino Bianco e Mastrolindo.

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Il muro di Berlino in 10 film

Il 9 novembre del 1989 la Germania tornava a essere un Paese unito. Per celebrare la riunificazione, ecco le pellicole che raccontano i drammi e i controsensi di un blocco di cemento che ha segnato la storia.

Il 9 novembre di 30 anni fa la Germania tornava a essere un Paese unito. Spariva l’ufficiale suddivisione tra Est e Ovest, almeno sulla carta e nelle intenzioni. Ma quella spartizione territoriale che per circa 28 anni aveva scavato un solco tra due mondi irriducibili si è affievolita solo molti anni dopo, e forse mai del tutto. È infatti sopravvissuta nei ricordi di chi ne subì le conseguenze più dure. E nelle quotidianità stravolte dei tedeschi che, da un giorno all’altro, si sentirono stranieri in un Paese che era sempre stato il loro. Ma il faccia a faccia tra Repubblica democratica e Repubblica federale si è impresso anche nelle pellicole degli artisti e dei registi, che tradussero in linguaggio cinematografico la realtà di una nazione divisa a metà dalla logica bipolare.

GOODBYE LENIN

È il 1989 quando Christiane, una fervente comunista che vive nella Germania dell’Est va in coma, dopo aver visto il figlio Alex picchiato e arrestato dalla polizia durante una delle sempre più frequenti manifestazioni di piazza. Mancano ormai pochi giorni alla caduta del muro di Berlino. La donna esce dal coma soltanto otto mesi dopo, quando il mondo attorno è ormai cambiato. I suoi figli, però, fanno di tutto per difendere i suoi nervi deboli. Come? Nascondendole la caduta del muro e convincendola che la realtà è rimasta identica a come lei l’aveva lasciata. La pellicola ha vinto numerosi riconoscimenti, tra cui il premio César nel 2004 come miglior film dell’Unione europea e, nello stesso anno, il premio Goya come miglior film europeo. Anno di uscita: 2003. Regia di Wolfgang Becker. Principali interpreti: Daniel Brühl e Katrin Sass.

Un frame del film Goodbye Lenin
Un frame del film Goodbye Lenin

IL CIELO SOPRA BERLINO

Negli Anni Ottanta due angeli vagano per Berlino. Si mettono in ascolto dei pensieri dei passanti. In particolare, si interessano ai pensieri formulati da una donna incinta, da un pittore, da un uomo che pensa alla sua ex fidanzata. Il loro compito è preservare per sempre la realtà, memorizzare in che modo Berlino cambia e attraversa il costante flusso della storia. Presentato nel 1987 al 40esimo Festival di Cannes, ha vinto il premio per la migliore regia. Anno di uscita: 1987. Regia di Wim Wenders. Interpreti principali: Bruno Ganz e Otto Sander.

LE VITE DEGLI ALTRI

Nel 1984 il capitano della Stasi Gerd Wiesler ha il compito di spiare Georg Dreyman, scrittore teatrale e intellettuale ritenuto un pericoloso dissidente e un potenziale traditore del governo comunista. In molti spingono Wiesler, che svolge ogni suo compito in modo impeccabile, a trovare delle prove per accusare Dreyman. L’operazione di spionaggio ha un risvolto sentimentale. È fortemente sostenuta dal ministro della cultura Bruno Hempf, che vuole Dreymann fuori dai piedi per avere la sua compagna, l’attrice Christa-Maria Sieland. La spia Wiesler entra così nella vita dello scrittore e della sua compagna. Ma il suicidio di un amico della coppia gli restituisce un’immagine nuova della Germania Est e del suo stesso ruolo. Nel 2007 la pellicola ha vinto l’Oscar come miglior film straniero. Anno di uscita: 2006. Regia di Florian Henckel von Donnersmarck. Interpreti principali: Ulrich Mühe, Martina Gedeck, Sebastian Koch e Ulrich Tukur.

SONNENALLEE

Micha e Mario sono due cari amici e vivono nella Sonnenallee, la strada del sole. Sono due giovani in attesa del diploma, che si chiedono se intraprendere la carriera universitaria o meno. La loro quotidianità è fatta dei primi amori adolescenziali, di ore passate ad ascoltare i Rolling Stones (vietati dal regime) e di lotte contro gli abusi della Ddr. Anno di uscita: 1999. Regia di Leander Haussmann. Interpreti principali: Alexander Scheer e Alexander Beyer.

Un frame del film Sonnenallee

FUNERALE A BERLINO

Harry Palmer è un agente del servizio segreto inglese che ha il compito di far attraversare il muro di Berlino a Stock, un colonnello dell’Urss che vuole abbandonare la causa comunista e passare a Ovest. Dietro il consiglio dell’esperto di fughe Kreuzmann, Palmer decide di far nascondere il colonnello nella bara di un criminale nazista, sostituendo Stock con la salma. Ma a confine attraversato, si scopre che dentro la bara giace il corpo senza vita di Kreuzmann. E a Palmer resta il compito di scoprire chi sia stato il traditore. Anno di uscita: 1966. Regia di Guy Hamilton. Interpreti principali: Michael Caine, Paul Hubschmid, Oskar Homolka ed Eva Renzi.

Una scena del film “Funerale a Berlino”

IL TUNNEL

Già finito nei guai per le sue attività eversive nella Germania dell’Est, il nuotatore professionista Harry Melchior riesce finalmente a fuggire nella repubblica federale tedesca. Ma, una volta in salvo, decide di costruire un tunnel sotterraneo per permettere anche alla sua famiglia di passare alla zona Ovest. Il progetto però incontra diverse difficoltà, tra cui il tradimento dei suoi stessi amici. Anno di uscita: 1987. Regia di Antonio Drove. Interpreti principali: Jane Seymour, Peter Weller, Manuel de Blas e Fernando Rey.

Una scena del film “Il Tunnel” di una fuga finita male

IL SILENZIO DOPO LO SPARO

La ribelle Rita è una donna che, dopo un passato da terrorista nella Raf, gruppo di estrema sinistra, fugge nella Repubblica democratica tedesca. Qui incontra Tatjana, l’amica cara che invece sogna una vita nella zona Ovest. Con la caduta del muro, i nodi vengono però al pettine: Rita deve fare i conti con la legge e con il suo passato e tutta la sua vita ne sarà stravolta. Anno di uscita: 2000. Regia di Volker Schlöndorff. Interpreti principali: Bibiana Beglau, Nadja Uhl e Martin Wuttke.

IL SIPARIO STRAPPATO

Un rinomato fisico statunitense sceglie di mettersi a collaborare con gli scienziati sovietici, dimostrando di voler sposare la causa comunista. I colleghi e la stessa fidanzata restano attoniti quando l’uomo si stabilisce nella Germania Est per continuare le sue ricerche scientifiche. C’è però chi sospetta, e forse a ragione, che la sua nuova scelta di campo non sia poi così cristallina come lo studioso vuole far credere. Anno di uscita: 1966. Regia di Alfred Hitchcock. Interpreti principali: Paul Newman, Julie Andrews e Lila Kedrova.

LA SPIA CHE VENNE DAL FREDDO

Tratto dall’omonimo romanzo di John Le Carrè, la pellicola vede protagonista una spia inglese. Il suo compito è eliminare il capo dello spionaggio tedesco orientale. Per entrare nel giro si lega a una ragazza iscritta al Partito comunista britannico. Il suo sistema di valori, però, crolla quando la ragazza muore e lui comprende di essere solo una pedina in un gioco molto più grande di lui. Nel 1967 la pellicola ha vinto ai Bafta come miglior film britannico, miglior attore britannico a Richard Burton, migliore fotografia e migliore scenografia. Anno di uscita: 1965. Regia di Martin Ritt. Interprete principale: Richard Burton.

Il protagonista de “La spia che venne dal freddo”

UNO, DUE, TRE

Il protagonista di questa commedia è un direttore della filiale della Coca Cola a Berlino Ovest, col sogno di esportare la celebre bibita scura e gasata anche nei Paesi che ruotano attorno all’orbita sovietica. Ma le sue ambizioni sono messe in secondo piano da un altro e più urgente problema: il matrimonio della figlia del suo capo con un comunista nella Berlino Est. Il film ha ricevuto una nomination ai Premi Oscar 1962 (miglior fotografia) e due nomination ai Golden Globe 1962. Anno di uscita: 1961. Regia di Billy Wilder. Interprete principale: James Cagney.

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Il muro di Berlino in dieci canzoni

Il simbolo per eccellenza della Germania divisa ha ispirato artisti da tutto il mondo. Per celebrare i 30 anni dalla riunificazione tedesca avvenuta il 9 novembre del 1989, ecco le colonne sonore che raccontano il crollo del blocco di cemento.

Ce ne sono alcune che parlano di libertà, di amore, di voglia di resistere contro tutti e tutto. Altre che sono un inno al cambiamento e al bisogno di ribellarsi per non soccombere. In occasione della caduta del muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre del 1989, ecco dieci canzoni per ricordare un evento che ha segnato la storia. E ha influenzato il modo in cui oggi leggiamo il nostro stesso mondo.

SCORPIONS – WIND OF CHANGE

Il “vento del cambiamento” ha ispirato una delle più celebri canzoni degli Scorpions. Il leader della band tedesca, Klaus Meine, ha composto Wind of change nel settembre 1989, per narrare dei cambiamenti politici che stavano sconvolgendo l’ordine bipolare. Era proprio in quei mesi che Berlino si preparava alla «magia del momento in una notte gloriosa».

NEIL YOUNG – AFTER BERLIN

«Won’t you help me make my way on home, after Berlin?». Non vorrai aiutarmi a costruire la via di casa, dopo Berlino? Questa è la domanda che si pone Neil Young in After Berlin, la canzone scritta nel 1982. Quando mancavano ancora sette anni alla caduta del Muro che spezzava la Germania, la star canadese mise in note una Berlino in cui «o ti rinchiudono fuori o ti rinchiudono dentro».

LUCIO DALLA – FUTURA

Scritta da Lucio Dalla nel 1979, Futura racconta di un uomo e di una donna qualunque, il cui amore è ostacolato dal muro di Berlino. Il cantautore bolognese ha steso il testo proprio mentre si trovava nella città divisa, traendo ispirazione dalla vista dell’imponente costruzione di cemento, che sarebbe stata abbattuta solo dieci anni dopo.

ARCADE FIRE – SURF CITY EASTERN BLOC

I blocchi stradali e la paura di essere arrestato sono al centro di Surf City Eastern Bloc, la canzone del 2009 degli Arcade Fire che vede protagonista un ragazzo in fuga da Berlino Est e diretto a Berlino Ovest. Il regime e le minacce nulla possono contro la voglia di libertà che anima un giovane uomo.

DAVID HASSELHOFF – LOOKING FOR FREEDOM

È rimasta in cima alle classifiche tedesche per otto settimane, quell’estate del 1989. Looking for freedom, la hit di David Hasselhoff, (il beniamino di Baywatch e Supercar), ha conquistato il pubblico della Germania poco prima che il Muro fosse abbattuto. Merito del suo testo dedicato alla «ricerca della libertà, una ricerca che ancora va avanti, da quando ho lasciato la mia città natale».

YANN TIERSEN – GOODBYE, LENIN (SUMMER 78)

Goodbye, Lenin (Summer 78) di Yann Tiersen è il sottofondo che accompagna le immagini dell’omonimo film uscito nel 2003. Ma la scia strumentale partorita dal genio creativo del compositore francese ha finito per diventare essa stessa una delle colonne sonore che, più naturalmente, vengono collegate al muro di Berlino.

EDOARDO BENNATO – FRANZ È IL MIO NOME

Franz è il mio nome di Edoardo Bennato, datata 1976, racconta di un uomo che «vende la libertà, a chi vuol passare dall’altra parte della città». «West Berlino» diventa, nella voce del cantautore napoletano, un luogo aperto ai desideri, e ai sogni «proibiti fino a ieri». Una distinzione che con la caduta del Muro diventerà sempre più sfumata.

DAVID BOWIE – HEROES

Heroes è tra le canzoni più belle di sempre e David Bowie la compose nel 1977, proprio a Berlino, un luogo che aveva significato per lui rinascita artistica e personale. Quando un giorno fu preso dall’ispirazione e i suoi occhi si posarono su una coppia concentrata nel proprio amore, i versi che fecero la storia della musica gli uscirono di getto: «Stavamo vicino al Muro, e i fucili spararono sopra le nostre teste. E noi ci baciammo, come se niente potesse cadere, e la vergogna stava dall’altra parte. Oh, noi possiamo batterli, sempre e per sempre».

PINK FLOYD – A GREAT DAY FOR FREEDOM

«Nel giorno in cui cadde il muro, gettarono a terra i lucchetti. E coi bicchieri alzati ci fu un urlo poiché la libertà era arrivata». Con queste parole inizia la canzone dei Pink Floyd del 1994, dedicata al crollo del muro di Berlino. Il testo, scritto cinque anni dopo la caduta, sottolinea in realtà la delusione seguita alle tante speranze disattese dopo lo storico evento.

SEX PISTOLS – HOLIDAYS IN THE SUN

Composta dai Sex Pistols nel 1977, Holidays in the sun vide la genesi grazie a una vacanza sull’isola di Jersey finita male. Sbattuta fuori da lì, infatti, la band britannica ripiegò su Berlino. Una città dove i musicisti riuscirono a trovare riparo dalla difficile quotidianità di Londra, come ha ricordato il leader John Lydon, alias Johnny Rotten: «Essere a Londra in quel periodo ci faceva sentire come prigionieri in un campo di concentramento. La cosa migliore che potevamo fare era quella di cambiare campo di prigionia. Berlino e la sua decadenza furono una buona idea. La canzone nacque così. Amo Berlino. Amavo il muro e la pazzia del posto. I comunisti guardavano all’atmosfera da circo di Berlino ovest, che non dormiva mai, e quella sarebbe rimasta la loro immagine dell’occidente».

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Il doppio fronte che rischia di mandare in crisi il governo sull’ex Ilva

Guerra aperta tra il governo e ArcelorMittal: la chiusura sarebbe un colpo mortale per il Conte 2. E sullo scudo il braccio di ferro tra M5s e Pd può riscrivere i rapporti di forza all'interno della maggioranza. Già messa alla prova dal nodo Regionali.

Il binario della guerra tra governo e ArcelorMittal è doppio. E duplice è il rischio della crisi per l’esecutivo. In primis c’è il binario del futuro dello stabilimento: una chiusura sarebbe un colpo mortale per l’esecutivo. Il secondo binario è invece prettamente politico e viaggia sul filo di quello «scudo penale» attorno al quale si consuma lo scontro tra Movimento 5 stelle e Partito democratico.

DI MAIO E FRANCESCHINI GIÀ AL LAVORO SU UN PIANO B

È uno scontro, al momento, solo verbale, al quale Luigi Di Maio e Dario Franceschini accompagnano già l’ipotesi di un piano B: quello di sedersi attorno a un tavolo, dopo la manovra, per un patto che puntelli programma e esecutivo. Quel tavolo, prima di gennaio, non vedrà la luce. Infatti, come condizione preliminare, i partiti di maggioranza sono chiamati a sotterrare l’ascia di guerra sulla manovra e, soprattutto, sull’ex Ilva. Non sarà facile. Su ArcelorMittal le posizioni sono rigide.

IL M5S IRRIGIDITO DALL’IPOTESI SCUDO

Pd e Italia viva restano ferme sulla necessità, comunque vada la trattativa, di ripristinare quello scudo che il M5s, sotto la spinta dei ribelli pugliesi, ha tolto dal dl imprese. È una posizione nei confronti della quale Di Maio si irrigidisce, sposando la causa “identitaria” cara a gran parte dei parlamentari. In realtà il capo politico ha poche alternative. Il nodo dello scudo, che ricorda ormai quello della Tav, rischia di far implodere i gruppi in un momento in cui perfino il dissenso sembra non avere una linea comune. Inutile, ragionano nel Movimento, impiccarsi al principio di uno scudo penale che, al momento, non è risolutivo neppure sull’ex Ilva. Certo, lo stallo sulla trattativa tra il governo e i Mittal potrebbe sbloccarsi da un momento all’altro. E, nel caso lo scudo si rivelasse necessario per salvare lo stabilimento il capo politico metterebbe i suoi parlamentari di fronte a una scelta decisiva. Tra l’ex Ilva o il governo. Di Maio fa il punto della situazione con i “suoi” ministri nel pomeriggio, nell’appartamento che, solitamente, ospita i vertici più delicati. Si parla di ex Ilva, ma anche di una rivolta interna ormai permanente.

IL NODO DELLE REGIONI AUMENTA LE TENSIONI

I vertici del Movimento, in un altro momento storico, forse avrebbero fatto scattare la tagliola delle epurazioni. Di Maio, per ora, opta per la “carota”: accelerare sulla riorganizzazione del Movimento e prospettare, per il 2020, degli stati generali “rifondativi” per i Cinque stelle. Non è detto che basterà, anche perché ad aumentare la tensione c’è il nodo Regionali: l’ipotesi di un’alleanza con il Pd, almeno per Emilia-Romagna e Calabria, è sepolta. E’ vivissima, invece, l’idea di non scendere in campo in alcune Regioni. Idea contro la quale si scagliano Danilo Toninelli e Barbara Lezzi. Alla fine sembra difficile che il M5s non scenda in campo in Calabria, dove la prospettiva di una campagna all’insegna del civismo non dispiace ai vertici. Ma in Emilia l’ipotesi di una desistenza, nonostante le divisioni interne in atto, è tutt’altro che da escludere. Il nodo Regionali scuote anche i rapporti Pd-M5S. Sull’Emilia-Romagna Nicola Zingaretti si gioca tutto o quasi. E non vuole arrivare al 26 gennaio con un governo ansimante. «Meno polemiche e più solidarietà», è l’invito del segretario.

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Segre, lo stupore per la scorta e l’incontro con Salvini

La senatrice a vita: «Mai l'ho chiesta e mai me la sarei aspettata». A casa sua riceve il leader della Lega accompagnato dalla figlia. E il futuro della Commissione contro l'odio resta incerto.

E alla fine Matteo Salvini incontrò Liliana Segre. Il senatore faccia a faccia con la senatrice a vita sopravvissuta ai lager nazisti. Dopo le polemiche per l’astensione del centrodestra nel voto che ha istituito la Commissione contro odio, antisemitismo e razzismo. E dopo quell’uscita infelice del leghista in seguito all’assegnazione della scorta proprio alla Segre: «Le minacce contro lei, contro Salvini, contro chiunque sono gravissime», aveva detto l’ex vicepremier parlando di se stesso in terza persona. Per poi aggiungere: «Anche io ne ricevo quotidianamente». Nel pomeriggio i due si sono visti nell’abitazione della Segre: Salvini si è presentato con la figlia, ma c’è massimo riserbo sui contenuti del loro colloquio.

MATTARELLA RICHIAMA AL SENSO DI RESPONSABILITÀ

Di certo quei 200 messaggi di odio che giungono quotidianamente alla Segre non sono passati inosservati e il capo dello Stato Sergio Mattarella è intervenuto richiamando alla «convivenza» e al «senso di responsabilità» come mezzo per contrastare «intolleranza» e «contrapposizione».

Certamente non mi aspettavo la scorta, non l’ho mai chiesta e non pensavo mai che l’avrei avuta


Liliana Segre

Sul caso che la vede suo malgrado protagonista la Segre ha rotto il silenzio in cui si era blindata: «Certamente non mi aspettavo la scorta, non l’ho mai chiesta e non pensavo mai che l’avrei avuta», ha detto ai microfoni di Rainews24. Quanto alla Commissione parlamentare da lei voluta, non ha sciolto il nodo se la presiederà o se comunque ne farà parte: «Vedremo quale sarà il mio ruolo». Su un punto però è stata molto chiara: «Non ho voluto la Commissione contro l’antisemitismo, ma assolutamente contro l’odio e come tale vorrei fosse programmata. C’è un’atmosfera di odio e odio è una parola orribile». Mentre i partiti continuano a litigare tra di loro anche su temi che non dovrebbero essere divisivi.

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L’ex presidente brasiliano Lula è libero

Scarcerazione sprint per l'ex leader. La Corte suprema ha deciso il 7 novembre di cambiare la propria giurisprudenza. E l'8 è stata accolta la richiesta della difesa.

Libero, grazie a un cambiamento nella giurisprudenza. Il presidente brasiliano Danilo Pereira Jr, del tribunale penale federale di Curitiba, ha accolto la richiesta della difesa dell’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva per la sua scarcerazione e lo ha autorizzato a lasciare la prigione di Curitiba, dove sta scontando la sua pena dall’aprile del 2018.

Manifestanti davanti alla prigione dove era incarcerato l’ex presidente Ignacio Luca da Silva. EPA/HEDESON ALVES

L’ex presidente brasiliano era agli arresti dal 7 aprile 2018 con l’accusa di corruzione e riciclaggio di denaro nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato, considerata la Mani Pulite verdeoro. Ma era talmente sicuro di essere scarcerato da avere addirittura annunciato “un grande discorso alla nazione”, una volta fuori, oltre a far sapere che lascerà la prigione “più a sinistra” di quando vi è entrato. L’ottimismo era giustificato visto che il 7 novembre la Corte suprema di Brasilia ha deciso a maggioranza risicata (5 contrari e 6 favorevoli, grazie al voto decisivo del presidente del tribunale, Antonio Dias Toffoli), di modificare la propria giurisprudenza stabilendo che un imputato possa essere privato della libertà solo dopo aver esaurito tutti i ricorsi possibili.

MANCA IL RICORSO ALLA CORTE SUPREMA

L’ex presidente-operaio è già stato condannato in tre gradi nel caso del cosiddetto “triplex di Guarujà”, ma può ancora ricorrere proprio alla Corte suprema. E infatti i suoi legali hanno presentato subito l’8 novembre una richiesta di “scarcerazione immediata” alla giudice Carolina Lebbos, del foro di Curitiba, città dello Stato meridionale di Paranà dove Lula si trova attualmente detenuto. E gli è stata concessa immediatamente.

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Un’altra donna ha accusato Polanski di stupro in Francia

Valentine Monnier, fotografa ed ex modella, ha detto che il regista l'avrebbe violentata nel 1975. «Mi riempì di botte, avevo solo 18 anni».

Una donna francese, Valentine Monnier, ha accusato il regista Roman Polanski di averla violentata nel 1975. A raccoglierne la testimonianza è stato il quotidiano Le Parisien. Fotografa, ex modella a New York, attrice in qualche film, la donna ha detto di essere stata stuprata «con estrema violenza, dopo una discesa in sci, nello chalet di Gstaad, in Svizzera», del regista. «Mi colpì, mi riempì di botte» – ha raccontato – «fino a quando non opposi più resistenza, poi mi violentò facendomi subire di tutto. Avevo appena 18 anni».

LA CONFESSIONE ISPIRATA DALL’ULTIMO FILM DI POLANSKI

«Nel 1975», ha scritto in un testo dopo aver più volte chiesto sostegno a personalità come Brigitte Macron o la ministra Marlene Schiappa – «fui violentata da Roman Polanski. Non avevo alcun legame con lui, né personale, né professionale e lo conoscevo appena. Fu di estrema violenza, dopo una discesa sugli sci. È stato l’ultimo lavoro di Polanski, J’accuse, l’ha spinta a uscire allo scoperto. Dopo aver ricevuto sempre risposte evasive o di impotenza da un punto di vista giudiziario vista la prescrizione dei fatti, ha deciso di rivelare tutto a Le Parisien: «Il ritardo di reazione non significa che si è dimenticato» – dice – «lo stupro è una bomba a orologeria. La memoria non si cancella, diventa fantasma e ti insegue, ti cambia insidiosamente. Il corpo finisce spesso per risentire di quello che la mente ha tenuto in disparte, fino a quando l’età o un avvenimento di rimette di fronte al ricordo traumatico». Nel film, Polanski mette in scena l’errore giudiziario per antonomasia, la storia del capitano Alfred Dreyfus.

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Torino, dopo la bufera politica una donna travolta da un monopattino

La città è ancora senza regolamento dei nuovi mezzi di trasporto. Nonostante l'addio del capo della polizia municipale. Le opposizioni all'attacco.

Dopo le multe, e le polemiche che hanno portato alle dimissioni del comandante della polizia municipale Emiliano Bezzon, il primo incidente. Un monopattino ha investito su un marciapiede di Torino un pedone, una donna 56enne di origini moldave ferita in modo lieve. L’uomo alla guida del mezzo è stato identificato dai vigili urbani; potrebbe essere sanzionato. Il condizionale è d’obbligo, dal momento che c’è ancora incertezza sulle regole d’uso dei monopattini. E le opposizioni tornano all’attacco dell’Appendino.

«L’AMMINISTRAZIONE PROMUOVE UN USO SENZA REGOLE DEL MEZZO»

L’incidente all’ora di pranzo in corso Giulio Cesare, al civico 97. Per Fabrizio Ricca, capogruppo della Lega in Comune e assessore alla Sicurezza della Regione Piemonte, «assurdo non è che ci sia stato un incidente, cosa che purtroppo era preventivabile, ma che l’amministrazione di Torino non abbia previsto una possibilità così plausibile e abbia incentivato e promosso un uso deregolamentato dei monopattini». «In questo modo – accusa l’esponente del Carroccio – Appendino e i suoi assessori hanno esposto i cittadini non soltanto al rischio di multe, ma anche a quello di trovarsi a dover affrontare un sinistro stradale senza avere dalla propria alcun tipo di regolamento per il mezzo che stanno guidando. Senza parlare poi del rischio per i pedoni».

FDI CHIEDE LE DIMISSIONI DELLA SINDACA

«Cosa capiterà, adesso, a chi si trova, come in questo caso, coinvolto da un incidente mentre guidava un monopattino? Cosa capiterà per chi è stato investito? Difficile dirlo – osserva ancora Ricca – visto che fino ad oggi né il Comune né il Governo hanno detto parole chiare e Appendino oltre alle campagne social non ha parallelamente lavorato per fare sì che questi mezzi non diventassero un rischio per i torinesi». Dura anche la reazione di Fratelli d’Italia. La parlamentare Augusta Montaruli rinnova l’invito ad Appendino a dimettersi e chiede al Comune di risarcire la donna infortunata. «Da quanto abbiamo appreso – dice la deputata – la signora non ha fortunatamente riportato ferite gravi, ma questo non alleggerisce le responsabilità politiche del sindaco Appendino. Quanto tempo passerà – si chiede Montaruli – prima che qualche altro pedone faccia le spese di questo far west di monopattini elettrici senza regole? Non ci resta che rinnovare il nostro invito al sindaco Appendino: si dimetta per il bene dei torinesi. Questa città – conclude – merita di più».

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Confermata in Appello la condanna a un anno per Maroni

Pena sospesa per l'ex governatore della Lombardia nel secondo grado di giudizio del processo che lo vedeva imputato per le presunte pressioni per favorire due ex collaboratrici. Respinta la richiesta di un aumento.

Niente aumento di pena come aveva chiesto la procura generale, ma nemmeno uno sconto né l’assoluzione chiesta dal legale di Roberto Maroni che, nella scorsa udienza, si era anche difeso di persona con dichiarazioni spontanee. È stata confermata, infatti, la condanna a un anno, con sospensione della pena, e a 450 euro di multa per l’ex governatore lombardo, tra gli imputati nel processo di secondo grado con al centro presunte pressioni per favorire, quando era alla guida del Pirellone, due sue ex collaboratrici di quando era ministro dell’Interno.

RIQUALIFICATO UNO DEI DUE REATI RIMASTI IN PIEDI

«Con una sentenza di condanna di sicuro non è felice. Questo perché è un processo dove chiunque si aspetta di essere assolto», è stato il commento a caldo dell’avvocato Domenico Aiello, difensore dell’ex numero uno della Regione. La terza sezione penale della Corte d’Appello milanese, presieduta da Piero Gamacchio, ha solamente riqualificato, come richiesto anche dalla procura generale, uno dei due reati rimasto in piedi dopo la sentenza di primo grado del giugno 2018, quello di «turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente» in «turbata libertà degli incanti». Una riqualificazione, ha aggiunto il legale Aiello, che «necessita di una lettura delle motivazioni. Certamente impugneremo, perché non siamo d’accordo».

PER L’EX GOVERNATORE ERANO STATI CHIESTI DUE ANNI

Quest’accusa, per la quale è stata comunque confermata la pena di un anno, riguardava un incarico in Eupolis, ente di ricerca della Regione Lombardia, «preconfezionato», secondo l’accusa, e con «reddito e termini concordati» con Mara Carluccio (confermata la condanna a sei mesi) e da lei ottenuto anche grazie all’intervento di Andrea Gibelli, ai tempi segretario generale del Pirellone e ora presidente di Fnm spa. Per lui anche in secondo grado una pena di 10 mesi e 20 giorni. Confermata anche la condanna, pure per lui a un anno e a 450 euro di multa, per Giacomo Ciriello, all’epoca capo della segreteria di Maroni. Il sostituto pg Vincenzo Calia, però, coltivando i motivi d’appello del procuratore aggiunto Eugenio Fusco, aveva chiesto per l’ex presidente della Lombardia due anni e mezzo di reclusione (e per Ciriello due anni e due mesi), chiedendo che fosse dichiarato colpevole anche dell’altra imputazione di «induzione indebita». Una contestazione che riguardava il tentativo di fare inserire, a spese di Expo, Maria Grazia Paturzo, altra sua ex collaboratrice, nella delegazione che, nell’ambito del World Expo Tour, tra il 30 maggio e il 2 giugno 2014, aveva come meta Tokyo. Ipotesi che non ha retto nemmeno in secondo grado.

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L’annuncio della Turchia: iniziano lunedì le espulsioni di jihadisti

Il ministro degli Interni Suleyman Soylu a muso duro contro i Paesi europei: «Che vi piaccia o no, che ritiriate o no le loro cittadinanze, vi rimanderemo i membri dell'Isis, che sono la vostra gente, vostri cittadini». Gli italiani sono poco più di una decina.

A muso duro contro l’Europa. «Sono vostri, fatene quello che volete», ha detto il ministro degli Interni turco Suleyman Soylu venerdì 8 novembre, annunciando che lunedì 11 novembre la Turchia inizierà l’espulsione verso i Paesi d’origine dei jihadisti dell‘Isis catturati dalla Turchia. «Che vi piaccia o no, che ritiriate o no le loro cittadinanze, vi rimanderemo i membri dell’Isis, che sono la vostra gente, vostri cittadini».

100 FOREIGN FIGHTER BRITANNICI E POI FRANCESI E OLANDESI

Per Ankara è una prima risposta agli alleati Nato, accusati di averle voltato le spalle nell’offensiva contro le milizie curde in Siria, «schierandosi con i terroristi». Non è stato precisato quali saranno i Paesi inizialmente coinvolti, né come Ankara intenda forzare la mano in caso di mancato accordo con gli Stati di destinazione, visto che diversi accordi internazionali, tra cui la Convenzione di New York del 1961, vietano l’espulsione di apolidi. Oltre 100 sono i presunti jihadisti cui la Gran Bretagna ha ritirato il passaporto, tra cui figure note come Jack Letts, alias Jihadi Jack, o Shamima Begum, fuggita in Siria a 15 anni per unirsi all’Isis. Casi analoghi riguarderebbero Francia e Olanda. L’ultimatum non dovrebbe invece preoccupare l’Italia. Nelle prigioni turche, si apprende da fonti qualificate di intelligence e antiterrorismo, non ci sarebbero infatti combattenti del nostro Paese.

GLI ITALIANI SONO SOLO 13

Dalle ultime informazioni disponibili, i foreign fighter che hanno avuto un legame con l’Italia sarebbero circa 140, di cui una cinquantina morti. Gli italiani e i naturalizzati italiani sarebbero però solo 25 e di questi 4 risultano deceduti e 8 già rientrati in Europa e costantemente monitorati dagli apparati di sicurezza.

I 4 COMBATTENTI ITALIANI NEI CAMPI DI DETENZIONE CURDI

In Siria è stato invece arrestato, dopo esser stato catturato dai curdi e dagli americani, Samir Bougana, italo-marocchino di 24 anni partito nel 2013 per andare a combattere prima con Al Qaeda e poi con l’Isis. L’uomo è già in carcere in Italia. Nei campi di detenzione sotto controllo curdo, almeno fino all’offensiva di Ankara, tra Al Hol, Ayn Issa e Roj, si troverebbero invece almeno 4 combattenti italiani: Alice Brignoli e suo marito italo-marocchino Mohammed Koraichi con i 3 figli, Sonia Khediri, italo-tunisina e moglie di Abu Hamza al Abidi, figura di spicco del Califfato ucciso in combattimento, e Meriem Rehaily, 23enne padovana di origine marocchina, condannata per arruolamento con finalità di terrorismo. Anche loro avrebbero 2 figli ciascuna. Nelle carceri turche sono al momento detenuti complessivamente 1.149 jihadisti legati al Califfato, mentre almeno 242 sono i foreign fighter di 19 Paesi catturati in Siria dall’inizio un mese fa dell’operazione militare Fonte di Pace e pronti a essere rimandati a casa.

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