La vicenda della grande opera veneziana costata finora quasi 6 miliardi è legata a doppio filo a scandali e mazzette. E a indagini che negli anni hanno decapitato l'establishment della regione. A partire dall'ex governatore Giancarlo Galan.
Venezia è sommersa all’80%. Un’emergenza simile si era verificata solo nel 1966. Da allora di acqua, sotto i ponti e nelle calli, ne è passata parecchia, come del resto è scorso impietoso il fiume di denaro delle tangenti e degli scandali legati al Mose che, recita ancora il sito della grande opera, «cambierà la storia» della città.
LE PRIME INDAGINI SCATTARONO NEL 2009
Le prime indagini sul Mose risalgono esattamente a 10 anni fa, al 2009. Una inchiesta lunga e difficile che portò ai primi arresti nel 2013. Il 28 febbraio di quell’anno, mentre da Pordenone arrivano nel cantiere le prime due paratoie, veniva arrestato per frode fiscale Piergiorgio Baita, amministratore delegato della Mantovani, impresa del Consorzio Venezia Nuova (Cnv). L’inchiesta della procura veneziana raggruppò in un unico filone due indagini della Guardia di Finanza: una legata alle tangenti e l’altra, padovana, scaturita da una verifica fiscale su presunte fatture false. Gli inquirenti di lì a poco avrebbero scoperto che i cancelli del Mose, senza essere mai entrati in funzione, avevano trattenuto la marea di denaro che da Roma arrivava a Venezia per il finanziamento dell’opera pubblica.
LA “TANGENTOPOLI” DELLA LAGUNA
Baita collaborò con gli inquirenti, diede corpo al teorema accusatorio spiegando come funzionava il sistema. I soldi erano gestiti da un concessionario unico studiato ad hoc, una figura spuria composta da soci privati che, però, operava con fondi pubblici e usufruendo dell’incredibile beneficio di non supportare sulle proprie spalle il rischio d’impresa. Per gli imprenditori che vi aderivano, insomma, era tutto da guadagnare e nulla da perdere. E infatti i soldi non bastavano mai: da 1,6 miliardi il Mose è finito per inghiottirne quasi 6. Un euro su cinque, per Baita, finiva in «spese extra». Per questo le imprese e le cooperative di quella galassia, tra cui proprio la Mantovani (socio di maggioranza del Cnv), vedevano affluire nelle proprie casse fiumi di denaro pubblico. Un sistema sorretto da fondi neri e fatture gonfiate. Dai magistrati l’inchiesta sul Mose venne letta come una nuova Tangentopoli (spuntarono tra l’altro alcuni nomi di imprenditori già finiti nel mirino del pool di Mani Pulite), con la differenza che politici e imprenditori non dialogavano più direttamente: a mediare era il concessionario unico Cnv.
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Baita è stato il grande accusatore di Giovanni Mazzacurati, all’epoca numero 1 del Consorzio, arrestato quattro mesi dopo l’ad della Mantovani. A Venezia Mazzacurati era soprannominato «Doge». Un nome che all’imprenditore, schivo e riservato, aveva sempre dato fastidio, forse perché attirava sulla sua persona la curiosità dei giornalisti. Mazzacurati è morto all’età di 87 anni a fine settembre, nella sua abitazione californiana dopo essere uscito dal processo con un patteggiamento.
GLI ARRESTI ECCELLENTI DEL 2014
Nel 2014 vennero arrestate 35 persone. Un centinaio quelle iscritte nel registro degli indagati. Finirono in manette politici di rango, imprenditori, alti funzionari dello Stato e i vertici delle aziende del Consorzio. Ma non era finita, perché l’inchiesta sulle tangenti versate dal Cnv si allargò a macchia d’olio arrivando fino a Roma.
IL RUOLO DI GALAN E IL MAXI SEQUESTRO
Tra i politici coinvolti anche Giancarlo Galan (insieme con la sua segretaria d’allora) che patteggiò, dopo 78 giorni di carcere, una pena di 2 anni e 10 mesi restituendo 2,5 milioni di euro estinguendo così il procedimento a suo carico. Galan nel 2017 è stato poi condannato dalla Corte dei Conti a risarcire lo Stato di 5,8 milioni di euro. Ma la questione non si è chiusa qui. Nella primavera 2019, nell’ambito di un’indagine per riciclaggio internazionale ed esercizio abusivo dell’attività finanziarie, le Fiamme gialle hanno sequestrato 12,3 milioni, tra conti, denaro e immobili in alcuni paradisi fiscali. Secondo gli inquirenti, un tesoretto riconducibile in ultima battuta sempre all’ex governatore veneto e al reinvestimento all’estero delle mazzette del Mose.
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