Secondo il Consorzio Venezia Nuova la barriera ha mostrato un comportamento «di evidente stabilità».
Le vibrazioni, questa volta, non ci sono state, risposte positive dal test di sollevamento delle paratoie del Mose eseguito la scorsa notte alla bocca di porto di Malamocco, a tre settimane dalla grande acqua alta di 187 cm del 12 novembre. Anche in condizioni di moto ondoso – spiega il Consorzio Venezia Nuova – la barriera ha mostrato un comportamento «di evidente stabilità». Quanto al problema delle vibrazioni riscontrate nella prova del 24 ottobre, il test ha dimostrato che «gli interventi eseguiti e la modifica alle procedure hanno risolto la problematica».
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L'annuncio del presidente della Regione Veneto Luca Zaia. dopo il comitato a Palazzo Chigi. L'opera dovrebbe essere terminata per la fine del 2021.
Altri 320 milioni di euro per completare il Mose. Il presidente del Veneto Luca Zaia è uscito dalla riunione di Palazzo Chigi, il cosiddetto “Comitatone” per Venezia, con la promessa dei finanziamenti mancanti per terminare l’opera pensata ormai negli anni Ottanta per mettere in sicurezza la Laguna. «Abbiamo avuto la conferma del finanziamento dei 5 miliardi 493 milioni il che vuol dire che il Governo si impegna a metterne i 320 milioni mancanti e una conferma del cronoprogramma per la fine lavori al 31 dicembre 2021 e con tavolo di lavoro rispetto alla gestione che costa circa 100 milioni di euro l’anno», ha detto Zaia.
I SETTE PUNTI DEL SINDACO BRUGNARO
La riunione, che vede coinvolti tutti i rappresentanti istituzionali coinvolti, è terminata dopo circa due ore e mezza. Il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro aveva messo in scaletta sette punti: «Discuteremo di risorse da recuperare per l’emergenza, di rifinanziamento della Legge speciale e misure di salvaguardia della Laguna – elenca -. Parleremo degli interventi di marginamento di #PortoMarghera, del completamento del Mose e suo sistema di gestione», ha spiegato in un tweet.
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L'intera laguna, fino a Eraclea e Chioggia, continua a mandare un grido d'aiuto. Anni di incuria, di scelte poco strategiche e la corruzione hanno asfissiato un intero eco-sistema. La parola all'architetto Pizzati.
Canali inquinati da troppi anni di incuria e corruzione. Non solo la Venezia allagata e devastata fino all’interno della basilica di San Marco, ma l’intero ecosistema della laguna, che si espande a sud fino a Chioggia e a nord fino a Eraclea, sta mandando un Sos che va raccolto e trasformato in azione nel tempo più breve possibile.
«È un allarme che il grande storico dell’architettura Bruno Zevi lanciò tramite alcuni articoli scritti subito dopo l’alluvione del 1966», spiega a Lettera43.itPaolo Pizzati, architetto ed ex assistente di disegno e rilievo alla Ca’ Foscari. Zevi poggiava le sue osservazioni «su saperi molto antichi, a cominciare dagli illuminanti studi effettuati nel 500 da un dotto ingegnere idraulico che si chiamava Cristoforo Sabbadin».
Nella sua lunga esperienza Pizzati si è convinto che i problemi ambientali da affrontare a Venezia e dintorni sono ingigantiti dal contesto storico-politico con cui ci si deve misurare. «Una volta mando un laureando a consultare dei documenti d’archivio teoricamente di pubblico dominio, tanto erano noti e citati in vari studi», racconta, «e questo mi torna a mani vuote: spariti, nascosti chissà dove, forse distrutti, chi può saperlo. È una delle tante parabole che hanno tristemente arricchito la mia esperienza». Purtroppo, allarga le braccia, «chi conosce Venezia sa che l’imboscamento della verità è una costante di tutta la sua storia dal Dopoguerra a oggi. Con il risultato che per noi il Mose è una specie di mostro capace di inghiottire miliardi di denaro pubblico, mentre a Londra la barriera alta come un condominio inserita nel Tamigi funziona a meraviglia».
FONDALI SEMPRE PIÙ PROFONDI
Se i fondali dei canali vengono abbassati di 15 metri in mezzo secolo per fare passare navi da crociera e petroliere, e nello stesso tempo sorgono insediamenti di enormi dimensioni come la zona industriale di Marghera o l’aeroporto di Tessera, l’effetto-asfissiamento della laguna è garantito. «La chiave più significativa è costituita dalle tre bocche di porto, che sono Malamocco, il Lido e Pellestrina», continua l’architetto, «canali dove l’altezza dei fondali è passata in pochi decenni da tre a 15 metri, con il risultato che nelle sei ore di una marea inglobano e riversano il quintuplo dell’acqua rispetto a una volta». Una piattaforma off-shore per le petroliere e un porto attrezzato al Lido per le navi da crociera sembrano tuttora a Paolo Pizzati le soluzioni a cui si doveva ricorrere per non esercitare sul centro storico di Venezia pressioni insostenibili. «Non lo pensavo solo io», precisa, «ma si è voluto fare diversamente. Soprattutto, non si è mai optato per soluzioni strategiche, proiettate nel tempo, in grado di tutelare Venezia e l’ecosistema della laguna».
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Architetta e dirigente pubblica, è stata direttrice dell'Agenzia del demanio. La sua nomina comunicata dalla ministra dei Trasporti De Micheli. Ora deve occuparsi del sistema di barriere mobili, ancora incompiuto, che avrebbe dovuto proteggere la Laguna dall'acqua alta.
Dopo l’emergenza acqua alta e «l’Apocalisse» sfiorata, è arrivato il nome della nuova super commissaria per il Mose a Venezia: Elisabetta Spitz. L’annuncio è stato dato dalla ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, a Radio Capital, dopo che nella serata del 13 novembre direttamente dalla Laguna aveva detto: «C’è una procedura in corso, quando avremo tutte le firme comunicheremo chi sarà».
UNA CARRIERA TRA PRODI E TREMONTI
Spitz, 66enne nata a Roma e sposata con l’ex del Partito democratico (e non solo) Marco Follini, è una architetta e dirigente pubblica. È stata direttrice dell’Agenzia del demanio a partire dal 2001: ha ricoperto quell’incarico inizialmente per tre anni, prima di due rinnovi, nel 2004 e nel 2007. L’ultima volta fu confermata dal governo Prodi II, prima di terminare il suo lavoro nel 2008. Nel 2002 l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti istituì la Patrimonio S.p.A., di cui Spitz divenne consigliera d’amministrazione.
La vicenda della grande opera veneziana costata finora quasi 6 miliardi è legata a doppio filo a scandali e mazzette. E a indagini che negli anni hanno decapitato l'establishment della regione. A partire dall'ex governatore Giancarlo Galan.
Venezia è sommersa all’80%. Un’emergenza simile si era verificata solo nel 1966. Da allora di acqua, sotto i ponti e nelle calli, ne è passata parecchia, come del resto è scorso impietoso il fiume di denaro delle tangenti e degli scandali legati al Mose che, recita ancora il sito della grande opera, «cambierà la storia» della città.
LE PRIME INDAGINI SCATTARONO NEL 2009
Le prime indagini sul Mose risalgono esattamente a 10 anni fa, al 2009. Una inchiesta lunga e difficile che portò ai primi arresti nel 2013. Il 28 febbraio di quell’anno, mentre da Pordenone arrivano nel cantiere le prime due paratoie, veniva arrestato per frode fiscale Piergiorgio Baita, amministratore delegato della Mantovani, impresa del Consorzio Venezia Nuova (Cnv). L’inchiesta della procura veneziana raggruppò in un unico filone due indagini della Guardia di Finanza: una legata alle tangenti e l’altra, padovana, scaturita da una verifica fiscale su presunte fatture false. Gli inquirenti di lì a poco avrebbero scoperto che i cancelli del Mose, senza essere mai entrati in funzione, avevano trattenuto la marea di denaro che da Roma arrivava a Venezia per il finanziamento dell’opera pubblica.
LA “TANGENTOPOLI” DELLA LAGUNA
Baita collaborò con gli inquirenti, diede corpo al teorema accusatorio spiegando come funzionava il sistema. I soldi erano gestiti da un concessionario unico studiato ad hoc, una figura spuria composta da soci privati che, però, operava con fondi pubblici e usufruendo dell’incredibile beneficio di non supportare sulle proprie spalle il rischio d’impresa. Per gli imprenditori che vi aderivano, insomma, era tutto da guadagnare e nulla da perdere. E infatti i soldi non bastavano mai: da 1,6 miliardi il Mose è finito per inghiottirne quasi 6. Un euro su cinque, per Baita, finiva in «spese extra». Per questo le imprese e le cooperative di quella galassia, tra cui proprio la Mantovani (socio di maggioranza del Cnv), vedevano affluire nelle proprie casse fiumi di denaro pubblico. Un sistema sorretto da fondi neri e fatture gonfiate. Dai magistrati l’inchiesta sul Mose venne letta come una nuova Tangentopoli (spuntarono tra l’altro alcuni nomi di imprenditori già finiti nel mirino del pool di Mani Pulite), con la differenza che politici e imprenditori non dialogavano più direttamente: a mediare era il concessionario unico Cnv.
Baita è stato il grande accusatore di Giovanni Mazzacurati, all’epoca numero 1 del Consorzio, arrestato quattro mesi dopo l’ad della Mantovani. A Venezia Mazzacurati era soprannominato «Doge». Un nome che all’imprenditore, schivo e riservato, aveva sempre dato fastidio, forse perché attirava sulla sua persona la curiosità dei giornalisti. Mazzacurati è morto all’età di 87 anni a fine settembre, nella sua abitazione californiana dopo essere uscito dal processo con un patteggiamento.
GLI ARRESTI ECCELLENTI DEL 2014
Nel 2014 vennero arrestate 35 persone. Un centinaio quelle iscritte nel registro degli indagati. Finirono in manette politici di rango, imprenditori, alti funzionari dello Stato e i vertici delle aziende del Consorzio. Ma non era finita, perché l’inchiesta sulle tangenti versate dal Cnv si allargò a macchia d’olio arrivando fino a Roma.
IL RUOLO DI GALAN E IL MAXI SEQUESTRO
Tra i politici coinvolti anche Giancarlo Galan (insieme con la sua segretaria d’allora) che patteggiò, dopo 78 giorni di carcere, una pena di 2 anni e 10 mesi restituendo 2,5 milioni di euro estinguendo così il procedimento a suo carico. Galan nel 2017 è stato poi condannato dalla Corte dei Conti a risarcire lo Stato di 5,8 milioni di euro. Ma la questione non si è chiusa qui. Nella primavera 2019, nell’ambito di un’indagine per riciclaggio internazionale ed esercizio abusivo dell’attività finanziarie, le Fiamme gialle hanno sequestrato 12,3 milioni, tra conti, denaro e immobili in alcuni paradisi fiscali. Secondo gli inquirenti, un tesoretto riconducibile in ultima battuta sempre all’ex governatore veneto e al reinvestimento all’estero delle mazzette del Mose.
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Secondo l'esponente dei Verdi, l'aumento del livello dei mari e la maggiore frequenza di fenomeni estremi hanno reso l'opera obsoleta e inutile: «Innalzare città e isole è l'unica via per risolvere un problema destinato a peggiorare».
Dal 1984, anno di fondazione del consorzio a tutela della Laguna, il mondo è cambiato e l’aqua granda che ha sommerso la città nel 1966 (record di 194 cm) è diventata l’innalzamento globale del livello del mare.
Il cambiamento climatico e lo scioglimento dei ghiacci non erano certo previsti negli Anni 80, e secondo molti l’idea stessa del Mose è diventata obsoleta nel frattempo. «Si è cominciato a discuterne negli Anni 80, a progettarlo negli Anni 90 e a costruirlo all’inizio degli anni 2000», ha detto a Lettera43Gianfranco Bettin, ex deputato ed esponente dei Verdi, «nel frattempo è cambiato il mondo e bisogna attrezzarsi per un’alternativa più duratura». Attualmente presidente della Municipalità di Porto Marghera, Bettin è sempre stato portatore delle istanze ambientaliste contrarie al Mose.
DOMANDA: La marea record a Venezia ha riportato subito i fari sul Mose, che doveva essere in funzione già dal 2016. Come mai non è ancora operativa? RISPOSTA: Al netto di tutti i discorsi relativi alla corruzione e alla storia giudiziaria che hanno circondato l’opera, sono subentrati problemi tecnici imprevisti come il continuo logoramento delle paratie, la corrosione e lo stato delle cerniere. Mentre si fanno gli ultimi sforzi per finire il lavoro ci si accorge di carenze che mettono in discussione la tenuta dell’opera, al di là del problema principale.
Ovvero? Il Mose è stato studiato per fronteggiare le maree eccezionali, quelle sopra 1,10 metri, per qualche ora e qualche giorno all’anno. Ma tra gli Anni 80 e oggi ci sono di mezzo il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento del livello del mare e l’aumento di fenomeni climatici estremi. La frequenza delle maree eccezionali a Venezia è aumentata in maniera imprevedibile, così come il generale innalzamento del livello del mare.
Quindi è diventata un’opera inutile? Oggi l’urgenza è di capire se è possibile adeguare la struttura rispetto al progetto originario – che prevedeva di alzare le paratie solo in casi eccezionali – impiegandola decine di volte all’anno. Intanto bisogna riparare i guasti alla struttura e evitare che il giorno in cui lo si accenderà venga su solo a metà o crolli.
La domanda che sorge spontanea è: quali potrebbero essere le alternative al Mose? La strada da seguire comprende la protezione del litorale, ma soprattutto quella che è l’unica vera soluzione a un problema destinato a peggiorare: il sollevamento di Venezia.
Detta così sembra un’ipotesi fantascientifica. È un’opera faraonica, ma è l’unica veramente necessaria a contrastare l’esposizione costante della struttura della città al mare. Una serie di sollevamenti delle isole della città era già stata tentata ed era la via maestra che molti suggerivano. Poi tutte le risorse sono state dirottate nel Mose.
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Al 2018 erano già stati spesi 5,5 miliardi di euro, ma l’insieme delle opere deliberate raggiungerebbe 8 miliardi. Doveva essere ultimato nel 2016, ma l'inaugurazione è slittata a fine 2021.
Mentre si contano i danni a Veneziail pensiero non può che andare subito al Mose, il colossale sistema di barriere mobili contro le acque alte che attende ancora di essere ultimato. E lascia intanto la Laguna in balia di catastrofi naturali come questa. Secondo il progetto originario – l’opera è stata pensata negli anni ’80, i lavori sono iniziati nel 2003 – il Mose doveva essere ultimato nel 2016. Problemi tecnici e giudiziari, in primis il commissariamento nel 2014 del consorzio che si occupava dei lavori, hanno fatto slittare l’inaugurazione a fine 2021.
GIÀ SPESI QUASI 6 MILIARDI DI EURO
Nel frattempo, il costo complessivo dell’opera è arrivato a quasi 6 miliardi di euro. Di questi, 5.493 milioni di euro sono già stati spesi, mentre altri 221 sono stati messi in conto dallo Stato. Se si considerano tutte le opere deliberate per la salvaguardia della Laguna, faceva sapere L’Espresso, la cifra complessiva raggiunge quota 8 miliardi. «Chiediamo al governo di partecipare», ha detto il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, «e di capire a che livello è l’organizzazione del Mose, perché qui si rischia veramente di non farcela più. Domani chiederemo lo stato di calamità. Adesso il Mose si capisce che serve».
«Purtroppo ci sarà un’altra alta marea, a spanne mezzo miliardo di danni. Il Mose è pronto ad entrare in azione ma servono 100 milioni per la manutenzione annua. Uscito da qui andrò al Senato per un emendamento alla manovra per trovare questi soldi», ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini, a Mattino 5. In realtà l’opera non è affatto pronta a entrare in azione: il 31 ottobre è arrivato un nuovo stop alla fase di test delle paratoie. Il Consorzio Venezia Nuova ha reso noto che è stato rinviato a un’altra data il sollevamento completo della barriera posata alla bocca di porto di Malamocco.
VIBRAZIONI IRREGOLARI IN ALCUNI TRATTI
La ragione è dovuta al riscontro, avvenuto durante i sollevamenti parziali delle dighe mobili, il 21 e 24 ottobre scorso, di alcune vibrazioni in alcuni tratti di tubazioni delle linee di scarico. Un comportamento che ha indotto i tecnici del Consorzio allo stop, in attesa di verifiche dettagliate e di interventi di soluzione del problema. I lavori, in particolare per Malamocco, non sarebbero comunque finiti: la struttura installata sarà infatti oggetto fino a tutto il 2020 di ulteriori opere di consolidamento e ripristino.
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