Hammamet, se l’uomo Bettino oscura il politico Craxi

Gianni Amelio si concentra sull'umanità del leader Psi. Sottrarsi a ogni giudizio e presa di posizione, però, rappresenta una delle debolezze del film.

Gianni Amelio racconta con Hammamet gli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi, interpretato da un camaleontico Pierfrancesco Favino.

E lo fa senza mai nominarlo: il leader Psi è soltanto “il Presidente”.

Il regista propone il ritratto di un uomo invecchiato e in “esilio”, che trascorre il suo tempo tra problemi di salute e famiglia, dialogando con i suoi ospiti del passato e, ovviamente, di politica.

Il film non dà alcun giudizio sulla figura di Craxi e racconta la permanenza a Hammamet come una sorta di diario-confessione. I personaggi secondari sono solo abbozzati e risultano stereotipati. Anche per questo, senza la presenza di Favino Hammamet faticherebbe a convincere lo spettatore.

Regia: Gianni Amelio; genere: drammatico (Italia, 2020); attori: Piefrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Alberto Paradossi, Federico Bergamaschi, Roberto De Francesco, Adolfo Margiotta, Massimo Olcese, Omero Antonutti, Giuseppe Cederna e con Renato Carpentieri e Claudia Gerini.

HAMMAMET IN PILLOLE

TI PIACERÀ SE: ti piacciono i film che affrontano la recente storia italiana concentrandosi sul lato umano dei protagonisti.

DEVI EVITARLO SE: ti aspetti un film che prenda posizione su una delle figure più discusse della politica italiana.

CON CHI VEDERLO: con chi ha assistito alla caduta del leader socialista e alla fine della Prima Repubblica.

LA SCENA MEMORABILE: Le riflessioni sulla politica di Craxi.

LA FRASE CULT: «Finanziamenti illeciti, chi li ha mai negati! Ma non tutto serviva per la parata!»

La locandina di Hammemet uscito nelle sale il 9 gennaio.

1. NON È UN BIOPIC

La sceneggiatura, scritta da Gianni Amelio in collaborazione con Alberto Taraglio, si è concentrata sul lato più privato e umano degli ultimi sei mesi di vita del politico, malato da tempo di diabete e con un tumore al rene. Il regista ha sottolineato che non si tratta di un film biografico, ma di un progetto che dà spazio agli «spasmi di un’agonia».

Pierfrancesco Favino è Bettino Craxi.

2. L’INCREDIBILE TRASFORMAZIONE DI FAVINO

Pierfrancesco Favino è stato trasformato in Craxi da un team di truccatori italiani che hanno studiato in Inghilterra. Per ottenere l’incredibile livello di realismo, sono stati impiegati molti mesi. L’attore ha sottolineato: «Ricordo che durante il rituale dell’applicazione arrivava il momento, quello in cui venivano messe le sopracciglia finte e indossavo gli occhiali, che era per me il momento dell’oblio di sé, capace di aprire la porta verso qualcosa di nuovo e di diverso. Una porta che, non ci fosse stata, non sarei stato in grado di entrare in un mondo altro e di toccare le cose e le corte che ho toccato». Trovare la giusta voce è stato invece frutto di un lavoro meticoloso basato sulla visione di molti video e interviste.

3. L’UOMO PRIMA DEL POLITICO

Favino ha ammesso di conoscere, prima del film, solo il politico Craxi, non l’uomo. Per addentrarsi nella storia senza prendere posizione o esprimere giudizi, l’attore si è concentrato sul concetto di “eredità” e sulla figura di un padre.

4. LE LOCATION DEL PRESIDENTE

Per aumentare ulteriormente l’aderenza con la realtà, alcune sequenze del film sono state girate nei luoghi in cui ha vissuto Craxi tra cui la casa di Hammamet dove l’ex presidente del Consiglio è rimasto fino alla morte, il 19 gennaio 2000.

L’impressionante trasformazione di Favino.

5. UN FILM DI INNOMINATI

Gianni Amelio ha eliminato tutti i nomi propri dal film. «Non si fanno», ha spiegato il regista, «perché si conoscono anche troppo». La scelta invece di modificarne alcuni e chiamare la figlia Anita invece di Stefania è stata presa pensando alla venerazione del politico nei confronti di Garibaldi.

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Il boom dei Superfood: quali sono i 6 del momento

Dall'aglio nero al miglio bruno, passando per la Moringa e i funghi Shiitake. Ecco gli alimenti vegetali più di moda che, sotto forma di succhi, bacche o farine, promettono di migliorare la nostra salute.

Le tendenze 2020 hanno un colore: il verde. Secondo una ricerca di Whole Food Market la cucina del futuro sarà sempre più orientata verso il vegetable friendly e il salutista. Via libera dunque a verdure, frutta, farine, bacche e oli essenziali.

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E, naturalmente, non possono mancare i cosiddetti superfood, le star del momento: alimenti vegetali ricchi, tra le altre cose, di minerali e antiossidanti considerati toccasana e che promettono meraviglie (anche se in molti casi la comunità scientifica è divisa).

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Insieme alla nutrizionista Francesca Giancane, abbiamo individuato sei superfood da tenere d’occhio.

Da anni le bacche di Goji hanno conquistato il mercato occidentale.

1. LE BACCHE DI GOJI

Piccole e dal colore rosso, le bacche di Goji hanno diversi pregi nutrizionali e fitoterapici, tanto da essere considerate un elemento essenziale della medicina tradizionale asiatica. Ricche di vitamine e sali minerali, promettono di essere immunostimolanti, antiossidanti e da anni ormai hanno conquistato il mercato occidentale dove sono usate soprattutto come snack.

Aglio nero.

2. AGLIO NERO

Ottenuto dalla fermentazione dell’aglio bianco, quello nero ha un sapore più delicato e un odore meno intenso. Ricco di fosforo, proteine e calcio, ha tante proprietà benefiche che vanno dalla prevenzione dell’invecchiamento alla riduzione dell’affaticamento, ma è efficace anche contro le infezioni. In cucina viene usato spesso per preparare creme dense, ideali per primi e secondi.

I funghi Shiitake sono originari del Giappone ma sono coltivati anche in Cina.

3. FUNGHI SHIITAKE

Il Lentinus edodes, originario del Giappone ma coltivato anche in Cina, è considerato un fungo della salute. Ricco di vitamina D, zinco, selenio e rame che gli conferiscono poteri antiossidanti, tonici e depurativi, promette di ridurre la formazione del colesterolo cattivo e di contribuire alla fissazione del calcio nelle ossa. In cucina viene usato soprattutto nella preparazione di brodi e zuppe.  

Polvere di moringa oleifera.

4. MORINGA

La Moringa oleifera è una tipica pianta dell’India e dell’area himalayana. Ricca di vitamine A, B, C, di tanti sali minerali e di grassi buoni, ha proprietà antiossidanti, protegge dai radicali liberi, combatte l’invecchiamento precoce, favorisce la digestione. È una pianta antistress naturale e in cucina viene utilizzata in tutte le sue parti: dalle foglie alle radici e corteccia, passando per baccelli e semi. È molto versatile e può presenziare in tutto il menù, dall’antipasto ai dolci, ma occhio al suo gusto leggermente piccante. 

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5. ERBA DI GRANO E ORZO

Particolarmente ricca di nutrienti (proteine, vitamine B e C, ferro, calcio) l’erba di grano e di orzo è un potente antiossidante e disintossicante, migliora la digestione, è un efficace alcalinizzante e disintossicante. Si trova anche sotto forma di succo e di polvere.

L’erba di grano e orzo ha proprietà digestive.

6. MIGLIO BRUNO

Conosciuto anche con il nome tedesco di Braunhirse, il miglio bruno è la varietà selvatica di uno dei cereali più ricchi in assoluto di sali minerali. È un naturale alleato di ossa e muscoli e, grazie all’acido silicico, ha effetti benefici sul sistema immunitario, sulla salute di pelle, unghie, denti e capelli. L’antinfiammatorio naturale è presente in cucina sotto forma di farina che viene usata nella preparazione di dolci, pizze, ma può essere aggiunta anche a zuppe, frullati e yogurt.

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Due giovani sono morti in un incidente sulle Alpi Apuane

Un ragazzo e una ragazza sono caduti mentre camminavano sul Monte Sella. Erano legati tra di loro.

Due giovani, un ragazzo e una ragazza, sono morti dopo essere caduti dalla parete che guarda il rifugio Nello Conti del monte Sella, sulle Alpi Apuane, nel territorio di Massa Carrara. È quanto si apprende dal 118 che ha inviato sul posto l’elisoccorso. Inutili i tentativi di salvare loro la vita: i due giovani erano già entrambi morti quando sono arrivati i sanitari.

ERANO LEGATI TRA DI LORO

Sembra che stessero camminando e sarebbero state legate l’uno con l’altra. Questo quanto emerso al momento dal Soccorso alpino e speleologico della Toscana. Sempre da quanto appreso, sembra che fossero partiti da un vicino rifugio da quale poi qualcuno li avrebbe visti cadere, facendo scattare l’allarme. Non ancora fornite notizie sull’identità e l’età delle due vittime. Da poco sarebbe stato dato l’ok alla rimozione delle salme. Sul posto si trovano il medico inviato dal 118 e il tecnico del Sast, portati dall’elisoccorso Pegaso 3 decollato dal Cinquale, nel comune di Massa. Del caso si stanno occupando anche i carabinieri.

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Trump sa solo destabilizzare perché è incapace di ricostruire

Il presidente Usa ha commesso l’errore di voler abbandonare un mondo, quello disegnato 70 anni fa dalla leadership americana, senza proporne un altro. Così rischia l'arroccamento degli Stati Uniti fra i due Oceani.

Una campagna elettorale sarebbe, in tempi normali, già decisa. La disoccupazione è negli Stati Uniti ai minimi storici dal 1969 anche se in un mercato assai diverso e molto più “atipico”; la Borsa è ai massimi; la crescita del Pil ha continuato con il presidente in carica una marcia avviata nel giugno del 2009, ormai da sei mesi un record storico, superiore all’espansione marzo 1991-marzo 2001 e primato assoluto di durata da quando vengono elaborati dati del genere, cioè dal 1854.

Tutto è più contenuto che in passato, la crescita cumulativa è più bassa, la disoccupazione è calata più lentamente, ma i risultati ci sono. In più, gli avversari democratici del presidente Donald Trump non hanno in campo per ora candidati particolarmente forti. Ma Trump ugualmente, pur rimanendo a tutt’oggi il favorito, non avrà una campagna scontata in partenza, anche se non è facile scalzare al voto un presidente in carica.

L’impeachment deciso dalla Camera il 18 dicembre 2019, e che probabilmente il Senato a controllo repubblicano boccerà (serve la maggioranza qualificata dei due terzi), c’entra fino a un certo punto, anche se trasformerà il voto presidenziale del prossimo 3 novembre più che mai in un referendum sull’immobiliarista newyorkese diventato campione del neonazionalismo americano.

LA POLITICA ESTERA DI TRUMP NON ESISTE

La decisione di far saltare in aria a Baghdad il 3 gennaio scorso con razzi sparati da un drone il generale delle milizie iraniane Qasem Soleimani, l’organizzatore da 20 anni della presenza armata iraniana in tutto il Medio Oriente, spiega meglio le difficoltà del presidente. Da un lato un gesto rapido e decisivo contro un ben noto nemico dell’America è piaciuto in sé alla base che ha dato a Trump nel 2016 la Casa Bianca, grazie a 77 mila voti giudiziosamente distribuiti in vari collegi di Pennsylvania, Michigan e Wisconsin e con un voto popolare nazionale inferiore a quello ottenuto da Hillary Clinton, cosa però perfettamente legittima nel sistema americano dove conta non solo il numero ma anche la geografia delle scelte popolari.

Cortei in America contro la decisione degli Usa di bombardare l’Iran.

Dall’altro però il caso Suleimani, seguito subito da un Trump minaccioso e poi dopo pochi giorni da un Trump che tende la mano all’Iran, pone allo stesso elettorato trumpiano, in genere molto contrario ad avventure internazionali e tutto concentrato sull’economia, l’immigrazione e la riaffermazione di una supremazia dell’America bianca, un chiaro quesito: che politica estera ha il presidente? Trump ha una politica elettorale, non una politica estera.

L’ATTACCO ALL’IRAN COZZA CON IL NAZIONALISMO ISOLAZIONISTA

In genere gli americani votano sulla base dell’economia e delle questioni interne, e assai meno della politica internazionale, che ha pesato solo nel voto del 1948 e del 1952, quando veniva organizzato il sistema della Guerra Fredda, e in parte quello del 1968 e 1972, quando si trattava di chiudere la malaugurata partita del Vietnam, e in parte ancora minore in quello del 1960, ancora all’ombra dello choc Sputnik (1957). Trump ha ereditato la guida della prima potenza mondiale, leader di un sistema multilaterale ormai vecchio di 70 anni ma non facilmente superabile, che va dall’economia ai commerci fino alla strategia militare di cui la residua Nato è l’esempio più chiaro ma non unico.

Trump ha sempre seguito un’altra America, a lungo ridotta al semi silenzio e disdegnata, quella dei cranks, persone con idee “strane”, poco interessate a quanto succede oltremare

Ma Trump è un immobiliarista, grosso ma neppure molto stimato, forte di una crassa ignoranza su come e perché questo sistema è stato costruito dai suoi predecessori, a partire da Franklin D. Roosevelt e, soprattutto, da Harry Truman e Dwight Eisenhower. È diffusa a Washington l’opinione che se al presidente venisse chiesto un brevissimo riassunto improvvisato su come il suo Paese ha organizzato tra il 1945 e il 1947 l’enorme potere che la Seconda guerra mondiale a la presenza dell’Urss gli concessero sbaglierebbe abbondantemente nomi, date e la gerarchia delle decisioni più importanti. Trump ha sempre seguito un’altra America, a lungo ridotta al semi silenzio e disdegnata, quella dei cranks, persone con idee “strane”, poco interessate a quanto succede oltremare se non per fare quattrini, e il cui motto è rimasto il «…the chief business of the American people is business..» dichiarato dal presidente Calvin Coolidge nel gennaio del 1925.

Proteste in turchia dopo la morte del generale iraniano Qasem Soleimani.

Coolidge aggiungeva anche che gli americani «sono profondamente interessati a comperare, vendere, investire e prosperare nel mondo», il che implica una politica estera. Ma gli “America firsters” che ancora nel 1940 volevano un Paese fuori da ogni conflitto (anche la famiglia Kennedy li appoggiava e finanziava per spirito irlandese antibritannico) a occuparsi solo dei non meglio precisati fatti propri dovettero aspettare Pearl Harbour nel dicembre 1941 per guardare in faccia la realtà. Trump viene da qui, e il resuscitato America First come noto è il suo motto, puro nazionalismo con forti tentazioni isolazioniste. Questo lo ha fatto vincere nel 2016. E con questo un drone contro Suleimani non ha molto a che fare, come mossa politica. È solo una vendetta. Ma anche questa è politica. E allora?

TRUMP DESTABILIZZA IL VECCHIO MONDO SENZA PROPORNE UNO NUOVO

I guai che Trump sta facendo come leader nazionalista di un Paese ancora molto condizionato da un multilateralismo che a lungo è stata la sua bandiera sono numerosi e gravi, sul piano commerciale e strategico. Anche Richard Nixon era un nazionalista e non esitò a gettare a mare nel ’71 quello che era forse in economia il perno del sistema, le parità monetarie di Bretton Woods, ma la sua base non erano i cranks bensì l’ala destra repubblicana da cui poi emergeranno, in parte, i neoconservatori degli Anni 90, nazionalisti ma tutt’altro che isolazionisti. Trump ha commesso l’errore di voler lasciare un mondo, quello disegnato 70 anni fa dalla leadership americana, senza proporne un altro, che non deve necessariamente abolire il precedente, ma cambiarlo in modo significativo, che non vuol dire in modo totale.

Suleimani è servito a far parlare meno di impeachment, a riaffermare la forza dell’esecutivo, a far vedere che i militari erano d’accordo

Dov’è questo mondo di Trump? Nell’alleanza con Boris Johnson e nella semi-alleanza con Vladimir Putin, nemico-amico. E nei suoi tweet, nell’insofferenza per i collaboratori più stretti, con la girandola di ministri e altri con rango ministeriale più ampia, in tre anni, rispetto a tutti i predecessori da Nixon in poi, persone uscite in gran parte perché impossibilitati a collaborare a una strategia che non c’è. L’uccisione di Suleimani che cosa vuol dire, più o meno Medio Oriente per gli Stati Uniti? Suleimani è servito a far parlare meno di impeachment, a riaffermare la forza dell’esecutivo, a far vedere che i militari erano d’accordo (ma invocano a gran voce una politica più coerente, o meglio una politica tout court).

Il presidente Usa Donald Trump.

Trump è stato definito da vari commentatori americani un geopolitical destabilizer. Uno che cambia il vecchio senza però saper proporre un nuovo che non sia un impossibile, almeno oggi, arroccamento dell’America fra i due Oceani. Del resto Johnson e mezza Gran Bretagna pensano sia possibile un arroccamento con la protezione della Manica. Far fuori un avversario è in sé cosa gradita a tutti i cranks d’America, ma bisogna vedere poi le conseguenze, e queste non sono chiare. Neppure sulle prospettive elettorali, che certamente hanno pesato sulla scelta di mandare due droni a far fuori il patron delle operazioni speciali dei rivoluzionari islamici iraniani.

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Paulo Gonçalves è il morto numero 30 della Dakar

Caduto nella settima tappa della corsa in Arabia Saudita, è deceduto per le ferite riportate.

Un altro morto alla Dakar. Una caduta è costata la vita al motociclista portoghese Paulo Gonçalves, 40enne veterano della corsa che si sta correndo in Arabia. Il pilota è caduto nel corso della settima tappa da Riad a Wadi al Dawasir all’altezza del chilometro 276. Gonçalves è stato trasportato in elicottero all’ospedale di Layla, ma le ferite erano troppo gravi e i medici non hanno potuto che constatarne la morte. Il portoghese nel 2015 era giunto al secondo posto della Dakar, ma soprattutto era alla sua tredicesima partecipazione alla grande corsa.

UNA LUNGA SCIA DI MORTE

Emigrata in Arabia, la Dakar resta comunque la corsa della morte. Gonçalves è il 30esimo pilota che perde la vita nella storia di questa competizione, che ha provocato anche una quarantina di altre vittime fra giornalisti, assistenti di gara, meccanici e spettatori. Il primo fu il motociclista Patrick Dodin, che morì sempre per una caduta, mentre tentava di sistemarsi il casco che gli si era allentato. L’ultimo incidente mortale alla Dakar, prima di Gonçalves, era accaduto invece nel 2015, in Argentina, quando a perdere la vita fu il motociclista 39enne polacco Michal Hernik, caduto nella terza tappa. L’anno prima, sempre in Argentina, ancora un motociclista, il 50enne belga Eric Palante era deceduto in un incidente nei pressi di Chilecito.

NEL 2005 LA MORTE DI MEONI

Nel 2005 la lista nera della corsa accolse anche il motociclista italiano Fabrizio Meoni, trionfatore delle edizioni 2001 e 2002. Il 47enne campione azzurro, in sella a una Ktm, ebbe un arresto cardiaco durante l’11esima tappa, dopo una caduta nello sterrato fra Atar e Kiffa in Mauritania. Quell’anno perse la vita anche lo spagnolo José Manuel Perez, motociclista anche lui, come i due morti nell’edizione 2013, il francese Thomas Bourgin, 25enne e lo spagnolo Jorge Martinez Boero. Un altro italiano morì nel 1986, era anche lui un motociclista, Giampaolo Marinoni, cadde a 40 chilometri dal traguardo, ma si rialzò e portò a termine la corsa, arrivando 13esimo. Poche ore dopo, un malore, e due giorni dopo la morte.

NEL 1986 LA MORTE DELL’INVENTORE DELLA CORSA

L’incidente più grave, collaterale alla corsa vera e propria, avvenne nel 1986, quando cadde un elicottero e morirono i cinque passeggeri, tra cui l’inventore della corsa, Thierry Sabine. Nel 2008 la Dakar fu invece annullata, per la prima volta nella sua storia a causa dell’omicidio in Mauritania di quattro turisti francesi. Nel 1991, in Mali, il pilota di un camion fu colpito alla testa da un proiettile vagante. Il 2010 fu funestato al via dalla morte di una spettatrice, Natalia Sonia Gallardo, investita: nello stesso anno l’incidente gravissimo al sardo Luca Manca. Nel 2011 altro sangue: stavolta a perdere la vita fu Marcelo Reales, 43 anni, un contadino investito da uno dei concorrenti, Eduardo Amor. L’anno prima un altro motociclista, il francese Pascal Terry, fu addirittura ritrovato solamente tre giorni dopo la morte.

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Morto Giovanni Custodero, calciatore simbolo della lotta al cancro

Aveva 27 anni. Malato dal 2017, raccontava la sua battaglia sui social. Dopo le feste aveva scelto la sedazione profonda.

La lunga battaglia di Giovanni Custodero si è conclusa la mattina di domenica 12 gennaio. Il portiere di 27 anni di Pezze di Greco, frazione di Fasano (Brindisi), malato di sarcoma osseo, aveva da poco annunciato su Facebook di voler ricorrere alla sedazione profonda, per lenire il dolore. Il calciatore aveva giocato nella squadra di calcio a 5 del Fasano, nel campionato di C2.

MALATTIA DIAGNOSTICATA NEL 2017

La malattia gli era stata diagnosticata nel 2017 e contro di essa aveva lottato tenacemente con il sorriso, pubblicando sui social le sue emozioni e le cure, e facendosi promotore di molte iniziative di beneficenza. Aveva anche subito l’amputazione di una gamba. Qualche giorno fa il post che aveva suscitato commozione: «Ho deciso di trascorrere le feste lontano dai social ma accanto alle persone per me più importanti. Però, ora che le feste sono finite, e insieme a loro anche l’ultimo granello di forza che mi restava, ho deciso che non posso continuare a far prevalere il dolore fisico e la sofferenza su ciò che il destino ha in serbo per me». Infine l’annuncio: «Da domani sarò sedato e potrò alleviare il mio malessere».

IL CORDOGLIO DEL SINDACO

«Giovanni Custodero è diventato in questi anni il simbolo di quanti lottano ogni giorno contro la malattia e la sofferenza, con una forza d’animo che è di esempio per tutti», ha detto il sindaco di Fasano Francesco Zaccaria, «a nome mio personale e di tutta la città, che in queste ore sta manifestando alla famiglia tutta la sua vicinanza, con un calore e un affetto che mi rendono orgoglioso di esserne alla guida, voglio abbracciare idealmente lui, i suoi cari e tutti quanti stanno affrontando un percorso di dolore, dandoci esempio di amore per la vita, supremo bene».

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Brignone e Bassino prima e terza in combinata a Zauchensee

Doppietta italiana nella gara in cui cadono Shiffrin e Vhlova. Secondo posto per Wendy Holdener.

Splendida doppietta italiana nella combinata femminile di Coppa del Mondo di sci alpino a Zauchensee, in Austria. A esultare dal gradino più alto del podio è Federica Brignone, al suo dodicesimo successo in carriera. Terzo posto per Marta Bassino, che conferma l’ottimo avvio di stagione. Fra le due azzurre, secondo posto per la favoritissima svizzera Wendy Holdener, che paga un errore nella parte alta dello slalom.

BRIGNONE SECONDA IN COPPA

Federica Brignone ha chiuso la prova in 2’03”45. A 29 anni è la sua seconda vittoria stagionale, la 12esima in carriera oltre a 10 secondi e10 terzi posti, in un palmares che vede anche un argento mondiale e un bronzo olimpico. Per la valdostana, grande specialista del gigante ma anche eccellente polivalente, è il terzo successo in questa disciplina e la vittoria la riporta al secondo posto nella classifica generale di Coppa del mondo con 565 punti, alle spalle della statunitense Mikaela Shiffrin, in testa con 826, rimasta a secco in combinata per via dell’uscita nella discesa, stessa sorte di un’altra delle grandi favorite della prova, Petra Vhlova.

ANCORA PODIO PER BASSINO

Terzo posto per Marta Bassino in 2’04”27. Per la piemontese di 23 anni, vincitrice del gigante di Killington, è il nono podio in carriera. Molto buona anche la prova anche di Elena Curtoni, quinta in 2’05”95 La prossima tappa di Coppa del mondo è prevista per la sera di martedì 14 gennaio, nella vicina Flachau, con lo slalom speciale notturno.

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Brignone e Bassino prima e terza in combinata a Zauchensee

Doppietta italiana nella gara in cui cadono Shiffrin e Vhlova. Secondo posto per Wendy Holdener.

Splendida doppietta italiana nella combinata femminile di Coppa del Mondo di sci alpino a Zauchensee, in Austria. A esultare dal gradino più alto del podio è Federica Brignone, al suo dodicesimo successo in carriera. Terzo posto per Marta Bassino, che conferma l’ottimo avvio di stagione. Fra le due azzurre, secondo posto per la favoritissima svizzera Wendy Holdener, che paga un errore nella parte alta dello slalom.

BRIGNONE SECONDA IN COPPA

Federica Brignone ha chiuso la prova in 2’03”45. A 29 anni è la sua seconda vittoria stagionale, la 12esima in carriera oltre a 10 secondi e10 terzi posti, in un palmares che vede anche un argento mondiale e un bronzo olimpico. Per la valdostana, grande specialista del gigante ma anche eccellente polivalente, è il terzo successo in questa disciplina e la vittoria la riporta al secondo posto nella classifica generale di Coppa del mondo con 565 punti, alle spalle della statunitense Mikaela Shiffrin, in testa con 826, rimasta a secco in combinata per via dell’uscita nella discesa, stessa sorte di un’altra delle grandi favorite della prova, Petra Vhlova.

ANCORA PODIO PER BASSINO

Terzo posto per Marta Bassino in 2’04”27. Per la piemontese di 23 anni, vincitrice del gigante di Killington, è il nono podio in carriera. Molto buona anche la prova anche di Elena Curtoni, quinta in 2’05”95 La prossima tappa di Coppa del mondo è prevista per la sera di martedì 14 gennaio, nella vicina Flachau, con lo slalom speciale notturno.

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Cari ex Pci, su Craxi continuate a sbagliare

Il leader socialista è stato capro espiatorio di un sistema politico. A 20 anni dalla sua morte, bisognerebbe avere il coraggio di riconoscerne la statura.

Ho visto ieri sera Hammamet di Gianni Amelio. Lo davano in due sale dello stesso cinema, tutte e due piene. È un gran film, girato con mano leggera da un regista attento e padrone del suo tempo con attori formidabili, non solo Pierfrancesco Favino, eccezionale, non solo Renato Carpentieri e Omero Antoniutti o il soffertissimo Vincenzo Balzamo di Giuseppe Cederna, ma anche la formidabile Livia Rossi nel ruolo difficile di Stefania Craxi.

FUORI DALLA DAMNATIO MEMORIAE

“Un gran bel film” è una osservazione da spettatore, neppure particolarmente cinefilo che non può sfuggire, tuttavia, alla valutazione politica del lavoro di Amelio. Un primo risultato il regista e i produttori Agostino e Maria Grazia Saccà l’hanno raggiunto togliendo il dibattito su Craxi dal politichese o peggio ancora dalla damnatio memoriae. Quando tanti spettatori vanno al cinema per vedere un film come questo, non vuol dire solo ricatturare l’attenzione di vecchi socialisti e di antichi comunisti, ma tornare a parlare a un pubblico che non ha creduto che la storia italiana sia cominciata con Beppe Grillo e Matteo Salvini.

NON RISOLVE IL “CASO CRAXI”

Il film tuttavia non risolve, né poteva, il “caso Craxi”. È probabile che chi sia entrato nella sala cinematografica con un pregiudizio favorevole al leader Psi lo abbia visto confermato. È credibile che altri abbiano mal digerito l’autodifesa strenua che Craxi fa di sé e alcuni commenti ascoltati in sala a fine proiezione fanno pensare che molti anti-craxiani siano rimasti tali. Tuttavia non credo che Amelio, che non conosco, né Agostino e Maria Grazia Saccà, che non conosco, volessero con il film dare una svolta alla lettura della vicenda umana e politica di Bettino Craxi. Volevano semplicemente raccontare una storia dura, complessa, una tragedia italiana, con le parole e con il punto di vista della “vittima”.

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IL PUNTO DI VISTA DELLA VITTIMA

Perché di questo si tratta: Hammamet racconta il punto di vista della vittima. Uso questo termine deliberatamente perché i vent’anni che ci separano dalla sua morte restituiscono appieno al leader socialista il ruolo di capro espiatorio di un sistema politico e l’obiettivo di una magistratura che si rivelò, anche in quella occasione, totalmente priva di umanità. Craxi è un uomo malato, che si è rifugiato nella sua casa tunisina e che combatte perché la sua storia non diventi storia criminale. Chiama gli altri partiti politici alla comune responsabilità del finanziamento illegale. È incazzatissimo con i comunisti o ex che, secondo lui, si sono avvantaggiati delle azioni di una procura che li aveva risparmiati. Si ribella ai compagni di partito, c’è un netto riferimento a Giuliano Amato, che non lo difendono. Sia Craxi sia Moro, anni prima, hanno la netta consapevolezza che la loro fine potrebbe travolgere non solo partiti, non solo il sistema politico, ma modificare le basi stesse della democrazia. Così è stato. Ma non se ne discute. Il “caso Moro” viene chiuso nella rassegnazione di una fine inevitabile e nel dibattito successivo (il solito) su quanto Stato ci sia dietro gli assassini. Nel “caso Craxi” c’è l’ottusità di chi non vuole uscire dal circuito mediatico-giudiziario.

LA FINE DEI SOCIALISTI

Lasciamo perdere Moro, ora. Il “caso Craxi” porta alla luce poche cose molto chiare. I socialisti dopo la morte del loro capo si sono dispersi, molti sono diventati combattivi militanti di destra. Nel loro orizzonte la storia del Psi inizia e finisce col leader più discusso, al punto che sono rare i dibattiti sull’intera e grandiosa storia socialista italiana. Per tantissimi socialisti il “caso Craxi” è la conferma dell’odio reciproco con i comunisti. Dall’altra parte abbiamo la cultura, e oggi la classe di governo, giustizialista che con i “casi Craxi” ha trovato la legittimazione per creare movimenti politici, per arrivare al governo del Paese, dando il peggio di sé, come si vede quotidianamente. Nel mio mondo, quello ex comunista, alcuni hanno fatto sforzi per restituire a Craxi la dignità del grande capo politico (dispiace molto che i socialisti e la famiglia Craxi tuttora non dicano una parola sui tentativi di Massimo D’Alema, allora premier, e di molti suoi “seguaci” di portare Craxi in Italia senza l’offesa della carcerazione e delle manette). Tuttavia questi ex comunisti “revisionisti” hanno parlato solo a se stessi nel timore che l’anima antisocialista e anticraxiana, molto forte negli ex Pci, potesse ribellarsi.

L’UOMO TORNA AL CENTRO

Il film aiuta invece questo processo. Aiuta a rimettere al centro l’uomo Craxi e il suo discorso politico. E aiuta a fare gesti esemplari. Avevo proposto che un gruppo di ex dirigenti dell’ex Pci si recasse ad Hammamet nel ventennale anche scontando l’eventuale immorale presenza di Salvini. Alcuni dirigenti socialisti hanno chiesto a Zingaretti di capeggiare una delegazione del Pd. Perché tanto silenzio? Perché accettare quest’ultimo ricatto dei perdenti della storia, cioè il mondo giustizialista e grillino, e rifiutare di fare i conti con un uomo, un partito, le sue idee, i suoi errori, l’orrore di una morte annunciatissima. Perché, mi chiedo, noi che siamo stati comunisti dobbiamo, vent’anni dopo, farci rinchiudere nel recinto di una cultura antipolitica guidata da procure e da giornalisti? Deve emergere un punto di vista della politica che, sulla base di una seria ricostruzione – attendo di leggere il libro di Fabio Martini –, possa avviare una riconciliazione fra tutte le sinistre dove non ci siano più figli di un dio minore, uomini di malaffare, puri senza macchia.

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LO SPESSORE UMANO DELLA POLITICA

Il “caso Craxi” non si chiuderà mai e non si deve chiudere mai. Il film ci parla anche dello spessore umano che dovrebbe avere la politica. Noi stiamo vivendo anni atroci in cui l’avversario non è solo nemico ma un “oggetto” che deve essere annichilito. Chi ha visto il film capisce quanto dolore si crea, quando dolore si sparge (quel gruppo di gitanti ad Hammamet che insultano Craxi), quando ci allontaniamo da una società veramente civile.

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David Grossman sul suo nuovo romanzo e il potere della parola

L’ultimo libro dell'autore israeliano, La vita gioca con me, è una genealogia della colpa: dietro a un male presente ce n’è sempre uno passato, ferite e cicatrici rimosse dalla propria consapevolezza. Ma non è sempre il perdono a interrompere la catena dell’odio.

Vale anche per i personaggi di David Grossman quello che Nietzsche sosteneva nella sua introduzione alla Genealogia della morale: «Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere, un bel giorno, di trovarsi?».

L’ultimo romanzo di Grossman, La vita gioca con me (Mondadori, pagg. 300, euro 21) nella efficace traduzione di Alessandra Shmoroni, è una genealogia della «colpa», più che della morale: dietro a un male presente ce n’è sempre uno passato, nodi che non si sono ancora sciolti, ferite e cicatrici rimosse dalla propria consapevolezza. E questo male, Grossman lo sa molto bene avendo vissuto quasi dagli inizi l’epopea del neo-Stato ebraico, si trasmette di generazione in generazione, fino a che non si arriva, talvolta, alla possibilità di un chiarimento. Ed ecco, allora, il corto circuito improvviso che scatena a terra la forza distruttrice del passato e ricrea nuovi spazi per la libertà e l’amore. Non sempre per il perdono, ma quello che possiamo fare è interrompere la catena dell’odio e riprendere in mano le nostre vite. Può sembrare poco, ma è già tantissimo.

L’ultimo romanzo di Grossman, a differenza dei precedenti, è costruito su una storia reale, quella di Eva Nahir-Panic, un’ebrea-croata trasferitasi in Israele dopo la morte del marito, ufficiale serbo. Dal punto di vista narrativo il romanzo ha una struttura a più livelli che intreccia microcosmo e macrocosmo, vita privata e frammenti di storia del Novecento, in un continuo elastico tra presente, passato e perfino futuro. Ci sono tre donne di generazioni successive che si incontrano in un kibbutz in Israele per la festa di compleanno della più anziana, Vera, che festeggia novant’anni con la figlia Nina, la nipote Ghili, che è anche l’io narrante del libro, e il figliastro e padre di Ghili, Rafael. Tre donne segnate dalla perdita devastante di un amore.

Quando il marito di Vera, Miloš Novak, muore suicida in Croazia per sfuggire alle torture della polizia di Tito, Vera rifiuta di infangarne la memoria e per questo viene condannata alla prigionia nel terribile campo di rieducazione di Goli Otok, una piccola isola selvaggia di fronte a Zara convertita a luogo di prigionia per dissidenti politici e criminali comuni. Ma la decisione di Vera ha un prezzo: l’abbandono al suo destino della figlia di sei anni e mezzo. Ecco il secondo amore infranto. Nina vivrà l’allontanamento dalla madre come un rifiuto e inizierà una vita infelice e raminga, incapace di costruire relazioni solide, neppure con il marito Rafael che continuerà ad amarla devotamente nelle sue fughe dalla famiglia e da Israele. Così, anche Ghili, la figlia di Nina, vive la stessa esperienza di dolore e abbandono, i medesimi rancori riversati sulla madre, generazione dopo generazione. Quando avviene l’incontro per il compleanno di Vera, il «quadrilatero degli affetti» sembra ritrovare una sua geometria, o almeno un tentativo di realizzarla. Ma la ricomposizione richiede un’ulteriore catarsi, un pellegrinaggio dei quattro personaggi nel passato di Vera in Croazia, fino al campo di Goli Otok.

Nel raccontare si riscopre la verità o, almeno, una parte di essa, finalmente condivisa e capace di guarire la memoria

Il pretesto narrativo è il documentario che Ghili propone di girare sulla storia della nonna, un modo per provare a rileggere il passato da un altro punto di vista, con la mediazione dell’obiettivo di una telecamera, come se le ferite, così profonde, rendessero impossibile alle tre donne raccontare il proprio destino direttamente alle altre. E, a Goli Otok, la genealogia della colpa si risolve finalmente nella catarsi, con le tre protagoniste che riemergono dolorosamente dal proprio passato con la prospettiva di una riconciliazione di nuovo possibile. Alla fine, la telecamera e il documentario famigliare diventano inutili, la parola, che per Grossman, come tutti gli ebrei, ha echi ben più profondi di quelli comuni, compie il miracolo: nel raccontare si riscopre la verità o, almeno, una parte di essa, finalmente condivisa e capace di guarire la memoria. Lettera43 ha incontrato lo scrittore israeliano in Italia per la presentazione del libro.

David Grossman (foto di Roberto Monaldo/LaPresse).

DOMANDA. Sono la parola, il racconto che guariscono dall’odio. Nel caso dell’ebraico è una “parola” che ha radici antichissime: quanto pesa questa eredità su uno scrittore?
RISPOSTA. C’è certamente un peso nella lingua ebraica: ha 4 mila anni di storia. È la lingua del ricordo, dell’identità nazionale che è costitutiva dell’universo mentale dei parlanti ebraico. Ma ha anche molti strati: il Talmud, la lingua medievale, quella attuale, di cui l’io narrante Ghili è espressione. Questo non lo vedo come un fardello, ma come un privilegio, perché nella mia scrittura c’è l’eco di tutto questo passato.
 
Questo è un libro sulla memoria, quella del passato che aiuta le tre donne a trovare una riconciliazione, e quella che andrà a perdersi nella mente di Nina, afflitta demenza senile.
È vero, questo è un libro sulla memoria: dolorosa, ma allo stesso tempo piena di freschezza, di verità. La memoria costa moltissimo sforzo, perché ti richiede di ricordare tutto in modo esatto, individuando il momento in cui sei diventato dipendente dal ricordo e come questo ti ha cambiato la vita. Ci sono popoli e persone che diventano prigionieri della memoria. Scelgono di aggrapparsi a essa e non vogliono muoversi su nuovi territori dove sarebbero molto più liberi di guardare al futuro. Soffrono dalla loro infanzia e questi sentimenti di dolore se li portano come un fardello per tutta la vita. Solo facendo posto a qualcosa d’altro possiamo riprendere a muoverci senza essere influenzati dal passato, ritornando a respirare a pieni polmoni. In questo modo possiamo riporre il dolore al suo posto, gli assegniamo un confine.

Le donne, tra cui l’io narrante, sono le protagoniste del racconto. Com’è possibile per uno scrittore identificarsi completamente nell’animo femminile?
Ho voluto scrivere questo romanzo come se non sapessi di essere io a scriverlo. Volevo capire innanzittutto chi erano queste tre donne. Ci sono tanti modi di essere donna, tanti quanto sono le donne al mondo. Non è un processo facile perché la tua anima ha una comfort zone da cui non vuole uscire. Il personaggio principale di A un cerbiatto somiglia il mio amore è Ora (in ebraico luce), una donna, appunto. Non riuscivo a impersonarlo pienamente, era come se io stessi mettendo delle parole che mancavano di un filamento. Quindi, preso dallo sconforto le scrissi una lettera: perché non ti arrendi a me, perché non ti lasci capire? Dopo compresi che non era Ora a doversi arrendere a me, ma io a lei. Solo dopo aver superato questi meccanismi di difesa ed essermi completamente esposto ho capito che cosa Ora rappresentava per me e per il romanzo.

Il mio è un libro su sulle tempeste che stravolgono una famiglia: è come se avessi riportato alla luce l’infrastruttura dell’essere

In questo caso non si è trattato solo di costruire un personaggio femminile, ma di mettere in scena una relazione molto problematica tra tre donne forti e complesse.
Nel libro c’è un forte conflitto tra di loro, si vede come sono vicine e poi si allontanano. Ma, se ci pensiamo, solo nelle famiglie troviamo questo dramma dell’essere vicini e dell’allontanarsi. È come una danza la cui intensità si sviluppa dentro ogni famiglia ed è determinata dagli eventi più o meno difficili che vi avvengono. Il mio è un libro su sulle tempeste che stravolgono una famiglia: è come se avessi riportato alla luce l’infrastruttura dell’essere.

Perche il narratore è Ghili, la donna più giovane delle tre?
Io volevo che fosse una delle tre donne a essere il narratore del romanzo, ma non poteva essere Vera troppo suscettibile di essere caricaturizzata per il forte accento della sua lingua croata d’origine. Nina, poi, è così lontana dagli altri, chiusa in sé stessa, non poteva essere la storyteller. Ghili m’ispirava un’aria di maggiore leggerezza, non era vittima dello scontro tremendo tra madre e figlia. E poi è ironica e mi permetteva di usare un ebraico più moderno.

C’è un unico protagonista maschio, Rafael, non certamente il punto forte del quadrilatero.
Rafael è dipendente dalle tre donne, ma serve a rendere stabile il rapporto tra di loro: è figlio di Vera anche se non biologico, è marito di Nina anche se non vivono insieme ed è un buon padre di Ghila. Rafel è apparentemente un carattere debole, è diventato un semplice assistente sociale e non un regista cinematografico come anelava a essere, ma è il luogo in cui le tre donne possono riposare prima di ripartire per le loro battaglie.

La conclusione del suo libro apre uno spiraglio alla speranza: possiamo davvero perdonare chi ci ha fatto del male?
Non so se è sempre possibile. Ma, se guardo indietro alla mia vita, devo riconoscere che sono stato condizionato dal voler tenere vivo il fuoco della vendetta, ed è come se una parte di me fosse rimasta sospesa. La sensazione che provo oggi è che forse non riesco a perdonare, ma ho preso una distanza da questo dolore. Non voglio più dipendere da esso.

La scrittura aiuta in questo?
L’arte, e quindi anche la scrittura, è sentirsi simultaneamente parte sia del nulla, di tutto quello che non conosciamo, il vuoto e il baratro che attende ciascuno di noi rappresentato dalla morte, e, al tempo, stesso della vita nella sua pienezza. Io, che non sono credente in senso religioso, nell’arte credo fortemente.

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