I Paperoni sono disposti a spendere miliardi in filantropia, ma guai a parlare di aumentare le imposte. Distribuiscono laute mance, ma senza pagare il conto. Intanto le politiche di redistribuzione vengono sconfitte dalle proposte di tagli per tutti.
«La guerra di classe esiste, eccome. Però la stiamo vincendo noi ricchi»: così parlò Warren Buffet nel summit di Davos del 2015. Ma quattro anni dopo quell’affermazione va corretta, dicendo che la stanno stravincendo. Gli straricchi infatti continuano, in tutto il mondo, ad aumentare sensibilmente le loro ricchezze. E non c’è amore, pietas, solidarietà, senso di giustizia che oggi possa anche solo scalfire la fascinazione che produce lo spettacolo del denaro. Al punto che il no tax, rivendicato dai più abbienti viene convintamente fatto proprio da chi non lo è. Nel contempo chi s’azzarda a parlare di patrimoniali o di sensibile aumento delle tasse ai ricchi, per finanziare servizio sanitario nazionale e sostenere redditi più bassi, come Jeremy Corbyn in Inghilterra o Bernie Sanders e Elizabeth Warren negli Usa, viene bollato come socialista arcaico. Nel caso del primo, poi, abbandonato anche dai suoi elettori tradizionali della working class.
IL REDDITO DI CITTADINANZA INDIGNA PIÙ DELLA DISEGUAGLIANZA
In Italia invece ha una certa presa la narrazione di destra, alla Billionaire, ossia alla Briatore & Santanchè, sulla “invidia sociale” istigata dai partiti di sinistra, nei confronti di chi è ricco e ce l’ha fatta. Un sentimento questo che si scatena ogni qualvolta la Guardia di Finanza si mette a caccia di possessori di auto e barche di lusso. Ovviamente domiciliate nei paradisi fiscali. In tale contesto indigna di più l’introduzione del reddito di cittadinanza che non il 5% più ricco degli italiani che detiene da solo la stessa quota di patrimonio detenuta dal 90% più povero.
PRIMO QUESITO: PERCHÉ IL REDDITO NON VIENE DATO DAGLI STRARICCHI?
Non sarebbe logico – ed è il primo dei tre quesiti che vorrei porre alla vostra attenzione – che fosse appunto questo 5%, e non la fiscalità generale, a farsi carico del sostegno al reddito delle famiglie e italiani più poveri? Nei giorni scorsi è apparsa la notizia che i 300 miliardari svizzeri hanno accresciuto quest’anno il loro già notevolissimo patrimonio (640 miliardi di euro) in misura mai registrata prima. Allo stesso modo dei 20 tech-miliardari più ricchi del mondo, che nei primi dieci mesi del 2019 hanno realizzato sostanziosi incrementi. Tranne Jeff Bezos, ma solo perché per divorziare ha dovuto versare 38 miliardi all’ex moglie (la separazione più cara della storia). Tutti questi super ricchi però si segnalano per una sensibile propensione alla beneficenza. Nello stesso tempo in cui, però si oppongono a qualsiasi proposta di innalzamento delle tasse. Insomma sono disponibili a spendere, e spendono effettivamente miliardi, in buone cause però si dichiarano assolutamente contrari a pagare di più al fisco.
SECONDO QUESITO: PERCHÉ SONO DISPOSTI ALLA BENEFICENZA MA NON ALLE TASSE?
E qui siamo al secondo quesito: perché Bill Gates, Mark Zuckerberg sono pronti a regalare metà e anche più delle loro ricchezze, ma sono indisponibili a pagare maggiori imposte? La classe miliardaria americana sembra concordare con Bernie Sanders e Elizabeth Warren di essere in possesso di troppa ricchezza. Ma sono convinti di potere loro, in prima persona, provvedere a un’efficace ridistribuzione della ricchezza. E per questo hanno dato di vita a Giving Pledge: un movimento, un’associazione, un club (non si sa come chiamarlo) fondato nell’agosto 2010 da 40 delle persone più ricche d’America. Creato da Bill e Melinda Gates e Warren Buffett, il Giving Pledge si è presto allargato ai più ricchi di tutto il mondo. Oggi ha miliardari filantropi di 23 Paesi. Manca l’Italia. Verosimilmente perché i miliardari nostrani, con in testa Leonardo Del Vecchio e Silvio Berlusconi, sono avidi e taccagni, come di norma è la categoria, ma non si curano nemmeno di nasconderlo sotto spoglie da buoni samaritani.
L’inadeguatezza della beneficenza come strumento di distribuzione della ricchezza
Ma per tornare al tema, come scrive l’analista Alexander Sammon su The American Prospect, l’inadeguatezza del Giving Pledge come strumento significativo di distribuzione della ricchezza è stata persino ammessa da molti dei firmatari stessi. Che tuttavia non pensano proprio di passare la mano ai poteri pubblici. Anche perché nonostante le donazioni miliardarie i loro patrimoni (in titoli e investimenti finanziari) continuano a crescere: «Il patrimonio netto di Mark Zuckerberg è aumentato di circa il 40% solo quest’anno…Steve Ballmer ex n.2 di Microsoft è due volte più ricco di quanto fosse all’inizio del 2017… Bill Gates regala circa 5 miliardi di sovvenzioni all’anno, ma mantiene un patrimonio netto che è aumentato di 18 miliardi solo nel 2019». I Paperoni americani non vogliono cedere il potere di decidere loro chi e cosa finanziare.
Il problema non è il denaro ma il potere
«Il problema non è il denaro ma il potere… è la cessione del potere decisionale su cosa fare con i loro soldi che i miliardari trovano così odioso». Effettivamente l’aumento delle tasse sui grandi patrimoni ha un significato che va ben oltre l’incremento delle entrate statali, rappresentando la capacità di un governo di regolare gli eccessi sociali più deleteri, di minimizzare le disuguaglianze e sancire che la classe miliardaria è anch’essa subordinata al processo democratico. Però di questa consapevolezza che è ben presente ai protagonisti si perde traccia a livello di classe politica e di governo, ma anche di opinione pubblica. Incredibile ma è così: la stragrande maggioranza delle persone, non essendo povere ma nemmeno ricche, avrebbero tutto l’interesse a sostenere proposte di maggiore tassazione della ricchezza e di redistribuzione della medesima.
TERZO QUESITO: PERCHÉ VINCE CHI TASSA MENO I RICCHI?
E invece no: plaudono e votano chi (Trump) le tasse ai ricchi al contrario le taglia o chi (Salvini) promette flat tax per tutti. Perché? È il terzo quesito, al quale, nonostante la dirompente materialità economica e politica, si può rispondere solo evocando categorie e spiegazioni psicologiche. È la fascinazione prodotta da più di trent’anni di narrazione incessante ed esaltata del binomio soldi&successo che abbaglia e rende incapaci di vedere e valutare le poste in gioco. Ma è anche l’esito di un processo che è antico come il mondo, ma sempre efficacissimo nell’imporre un dominio simbolico sulla realtà che però non è percepito nella sua distruttività da chi lo subisce.
DIFFIDARE DEGLI ATTI DI GENEROSITÀ
I doni, i regali, come ha scritto Georges Bataille, facendo eco a una vasta letteratura, distruggono chi li riceve non chi li fa. Che anzi accresce ancor più il suo potere. I filantropi facendo del bene lo fanno soprattutto a se stessi. Visto che, come già ricordato, più danno miliardi in beneficenza più aumentano le loro ricchezze. Nel contempo ci guadagnano pure l’aureola da santi laici. Timeo danaos ac dona ferentes: temo i greci anche se portano doni, lamentava inascoltato dai suoi concittadini Laooconte, riferendosi a quel grande cavallo di legno che avevano lasciato in dono alla città di Troia.
Distribuiscono laute mance, ma non vogliono pagare il conto
Ecco, se vogliamo una società più giusta e ricca per tutti, bisognerebbe cominciare non solo a diffidare ma addirittura a rifiutare tutto ciò che per quanto mosso da sincero spirito altruistico si configuri come dono, atto di generosità, gesto beneficente. Della serie niente regali ma tasse, che perseguano un impatto significativo sulla vita e il benessere dell’intera collettività. «Sono dei bei rompicoglioni, i filantropi», ha scritto Ferdinand Celine. Distribuiscono laute mance, ma non vogliono pagare il conto.
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