La regia di Verdini dietro al possibile asse Renzi-Salvini

Si vocifera che abbia ospitato un incontro toscano tra i due Mattei. Che meditano di coalizzarsi per disfarsi dei rispettivi nemici: Zingaretti e Di Maio. Il retroscena.

A Firenze gli orfani del Nazareno ne parlano da mesi: Denis è tornato. Denis di cognome fa Verdini ed è l’ex richelieu di Berlusconi. Il ‘coordinatore’ del Pdl che per Silvio ha gestito per anni col bilancino quorum, premi di maggioranza, soglie di sbarramento e le poltrone. Colui che ha tessuto pazientemente le relazioni tra gli Azzurri e l’allora presidente della Provincia diventato poi sindaco grazie anche alla scelta tutta verdiniana dell’avversario, l’ex calciatore Giovanni Galli. Poi le inchieste giudiziarie, i processi, l’addio a Forza Italia fondando il gruppo parlamentare Ala (Alleanza liberalpopolare Autonomie) e lo sfaldamento del Patto del Nazareno saltato lo hanno allontanato dalla scena. Ma Denis, abituato a lavorare nel retrobottega, non si è mai fermato, ripetono in riva all’Arno. E ora è tornato. Anche se sta sempre a Roma e non solo per andare a cena al ristorante del figlio Tommaso (frequentatore della Leopolda) o con la figlia Francesca, fidanzata con Salvini. Dagli spifferi di palazzo echeggia la voce che partecipi pure alle riunioni strategiche della Lega.

QUEL PRESUNTO INCONTRO TRA RENZI E SALVINI A CASA VERDINI

L’indiscrezione raccolta da La Stampa su un presunto incontro tra i due Mattei «sorseggiando Chianti» nella casa di Denis al Pian de’ Giullari è stata smentita: «Renzi e Salvini non si sono incontrati a Firenze, meno che mai nella casa di Denis Verdini. I due senatori si sono invece incrociati in Senato come peraltro rivelato dai numerosi giornalisti presenti in occasione della seduta parlamentare. Ma non vi è stato invece alcun incontro toscano. E meno che mai si è bevuto Chianti in una casa privata», riporta una nota dell’ufficio stampa di Italia Viva. Seguita da una risposta de La Stampa che ha ribadito quanto scritto: «L’incontro c’è stato». Di certo, sono state scattate le foto della stretta di mano tra la moglie di Verdini, Simonetta Fossombroni, e Salvini  al convegno organizzato dal Tempo sull’Europa, intitolato Il ratto di Europa. Obiettivi dei Padri, delusione dei figli. Presente anche Denis con i suoi fedelissimi. Tra gossip, smentite, conferme e foto di Pizzi su Dagospia, qualcosa bolle in pentola. Non è un caso se Matteo Renzi si sta salvinizzando nella comunicazione, soprattutto quella sui social, ma anche berlusconizzando quando attacca le procure.

UN TRAGHETTATORE DALLA GRANDE ESPERIENZA

Serviva un regista come Verdini, dicono ancora le voci, per portare avanti il piano diabolico dei due Mattei: coalizzarsi temporaneamente per liberarsi in un colpo solo dei due rispettivi nemici: Renzi di Zingaretti e Salvini di Di Maio. Dopo aver fatto varare la manovra al governo Conte, così gli elettori sapranno già con chi prendersela nelle urne. Fantapolitica? Chissà. Di certo sarebbe un gioco da ragazzi per l’ex coordinatore nazionale di Forza Italia, traghettatore di grande esperienza. L’uomo che organizzava la vita politica di Berlusconi e specialmente quella parlamentare, mago dei numeri, capace di prevedere al millimetro l’andamento di un voto, il numero di tradimenti. L’uomo ombra: non partecipa ai talk show, non rilascia interviste, non cinguetta su Twitter. E in più fiorentino. «Verdini è un pragmatico, che conosce la prima regola della politica: i rapporti di forza», diceva di lui lo stesso Renzi. «Un comunista più anticomunista di questo non s’è visto mai», diceva di Renzi lo stesso Verdini. «Tutti mi chiedono cosa ci guadagnano a venire con me. Gli rispondo che sono il taxi. Vuoi rimanere al potere? Solo io ti conduco in dieci minuti da Berlusconi a Matteo», diceva Verdini di se stesso.

IL SOLDATO DENIS E UN ESERCITO CON DUE GENERALI

Un po’ Sassaroli di Amici Miei, un po’ Machiavelli di provincia, in realtà adora Pirandello e ha sempre preferito i personaggi in cerca d’autore per accompagnarli meglio da un partito all’altro. In Toscana, dove Verdini ha ancora molti contatti, Salvini non ha presentato una sua candidatura per le elezioni regionali. Un ottimo test per l’ex coordinatore azzurro che si chiama così perché il padre era un prigioniero di guerra e quando ritornò in Italia il primo soldato cui rivolse la parola aveva questo nome. A Firenze e nella Capitale ora qualcuno comincia a chiedersi come farà il soldato Denis a gestire un esercito con due generali

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Una hard Brexit anche per la Consob

Savona impegnato a preparare un tavolo di crisi in vista dell'uscita del Regno Unito dall'Ue? Forse perché il colosso dei dati Refinitiv è stato acquisito dal London Stock Exchange di cui dal 2007 fa parte anche Borsa Italiana...

I dipendenti della Consob sono ancora in attesa dell’invito del presidente per il tradizionale brindisi natalizio con tanto di panettone. Forse Paolo Savona è troppo impegnato a preparare un comitato di crisi in vista della Brexit che si preannuncia più hard che soft. Lo scossone avverrà in una fase chiave dell’acquisizione del colosso dei dati Refinitiv da parte del London Stock Exchange di cui dal 2007 fa parte anche Borsa Italiana. Il capogruppo della Lega in Commissione Finanze, Giulio Centemero, lancia l’allarme: «So che Consob ci sta lavorando con un tavolo ad hoc ma so anche che la partita è politica e che il governo non può lasciare i tecnici soli. L’acquisizione di Refinitiv, colosso dei dati e spin-off di Reuters, pone un ulteriore interrogativo rispetto al destino della nostra piazza finanziaria perché è evidente che il core business del Lse potrebbe spostarsi da quello della gestione dei mercati borsistici a quello della gestione dati». Nel frattempo, a fine novembre la capitalizzazione complessiva di Borsa ha raggiunto i 642 miliardi di euro, con una variazione rispetto a fine anno del 18%.

LA DIGISTART (AND STOP) DI RENZI

«Ho aperto una piccola realtà per lavorare all’estero, nel momento in cui nessuno immaginava che avrei dovuto tornare a occuparmi di politica. Appena c’è stata la crisi del mojito ho detto al commercialista di chiudere la società, avendo fatturato zero. Visto che c’è chi ha scritto che io l’ho fatta per non pagare le tasse, ho fatto una bella denuncia per recuperare le spese Io ho fatto un accordo con M5s e sono buono, fessacchiotto no». Matteo Renzi aveva usato queste parole, il 2 ottobre a Otto e mezzo, su La7 a proposito della società Digistart. Una piccola srl creata appunto l’11 maggio (quindi quando c’era ancora il governo Conte 1) versando un capitale di 10 mila euro con due assegni emessi da Cariparma e Bnl. Oggetto sociale: “analisi dei processi comunicativi che collegano cittadini e imprese, anche mediante l’organizzazione e/o partecipazione a convegni, seminari, incontri sia in Italia che all’estero” e di “consulenza aziendale e di marketing strategico”. Ma come Renzi aveva detto a Lilli Gruber a ottobre, la Digistart è stata chiusa. Per la precisione, si legge nell’atto depositato nella banca dati della Camera di Commercio, è stata sciolta anticipatamente e messa in liquidazione il 23 novembre 2019. Come liquidatore è stato nominato lo stesso Renzi , unico socio dell’srl, che a settembre si era fatto sostituire temporaneamente nel ruolo di amministratore unico dall’amico Marco Carrai, per poi riprendersi l’incarico dopo aver lanciato Italia viva. «La società è stata aperta e poi chiusa per le polemiche mediatiche, Carrai avrebbe dovuto gestire la società ma alla luce delle polemiche e dell’annuncio della chiusura ha subito lasciato la carica», aveva spiegato Renzi sottolineando che la Digistart non ha fatturato niente.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

I flop dello Stato investitore e quella nostalgia per l’Iri

Da Monte dei Paschi ad Alitalia, passando per l'interventismo di Cassa depositi e prestiti: usare le casse pubbliche per salvare l'economia nazionale in Italia si è rivelato un pessimo affare.

«In un momento in cui dobbiamo proteggere la nostra produzione industriale e le imprese, se serve torneremo all’Iri», ha detto il ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli il 26 novembre.

Evocando l’Istituto per la ricostruzione industriale creato dal governo Mussolini nel 1933 per far fronte alla crisi bancaria e industriale seguita al crac del 1929, che poi nel Dopoguerra diventò il pivot della ricostruzione post bellica e l’artefice del miracolo economico.

Di miracoli, però, lo Stato ne ha fatti pochi quando ha messo il cappello dell’investitore in testa al ministero del Tesoro.

IL MONTE DEI PASCHI, PESSIMO AFFARE PER LO STATO

L’esempio più lampante è il Monte dei Paschi di Siena, dove il Mef è ancora azionista con quasi il 70%. Entro dicembre dovrà spiegare alle autorità europee come intende uscire dal capitale da qui al 2021, scadenza fissata dagli accordi presi in cambio del via libera alla ricapitalizzazione precauzionale nel 2017. Il problema è che ai corsi attuali lo Stato perde oltre 4,5 miliardi sui 5,39 versati due anni fa per salvare Rocca Salimbeni.

SIENA 25-01-2013 Piazza Salmbeni sede centrale di Mps (foto Riccardo Sanesi/LaPresse).

L’obiettivo era quello di scendere dal Mps in fretta e senza farsi troppo male ma di cavalieri all’orizzonte ancora non se ne vedono e anche la soluzione studiata al momento dai tecnici di via XX settembre sembra complicare la exit strategy perché contempla l’ipotesi di scindere i crediti deteriorati di Mps girandoli ad Amco, la ex Sga al 100% del Tesoro, a un prezzo però più vicino al 47% dei conti di Mps che a prezzi di mercato.  

IL BUCO NERO DI ALITALIA

Alle perdite del Monte di Stato, si aggiungono poi i 900 milioni concessi dal governo Gentiloni all’Alitalia che è in rosso per circa 600 milioni. Anche in questo caso una soluzione di mercato non si vede all’orizzonte e nel triangolo tra il M5s, il Mise e i commissari qualcuno avrebbe suggerito un intervento di Fs – che sono appunto dello Stato – per accollarsi la compagnia, come per l’Anas.

Una nazionalizzazione di Alitalia costerebbe almeno 600 milioni all’anno

Altra ipotesi sarebbe una pubblicizzazione strisciante, con il prolungamento del commissariamento e ulteriori finanziamenti pubblici. Il decreto fiscale ha stanziato 400 milioni, ma la Ue ha fatto sapere che questi soldi possono essere erogati solo se si fa la Newco che comprerebbe Alitalia. La Newco però non c’è, perché non c’è l’offerta di Fs & C. Una nazionalizzazione di Alitalia costerebbe almeno 600 milioni all’anno.

GLI INTERVENTI DI CASSA DEPOSITI E PRESTITI

Lo Stato deve poi fare i conti con gli investimenti della controllata Cassa depositi e prestiti che ad aprile 2018 è entrata nel capitale di Tim, di cui oggi ha il 9,9%. Il raddoppio della quota ha consentito di ridurre i valori di carico in bilancio rispetto al 5% che era stato acquistato nel 2018 a prezzi di gran lunga superiori a quelli che il titolo sconta oggi in Borsa. La partecipazione è iscritta a bilancio a 722 milioni (0,48 euro per azione con il titolo Tim che oggi viaggia attorno a 0,56 euro) ma la Cassa resta comunque fuori dalla gestione, in attesa di risolvere il conflitto d’ interessi che ha con Open Fiber.

Giuseppe Conte parla durante il 170esimo anniversario di Cassa depositi e Prestiti (foto Valerio Portelli/LaPresse).

Dall’ultimo bilancio di Cdp saltano inoltre all’occhio i minori profitti delle partecipate (-13,4% a 587 milioni). Al 30 giugno il valore delle partecipazioni è sceso a 20,29 miliardi (20,39 miliardi a fine 2018) dopo aumenti di capitale (72 milioni), rivalutazioni (620 milioni soprattutto legati a Eni e Poste) e svalutazioni (37 milioni, tra cui Trevi e Open Fiber), con 644 milioni di dividendi distribuiti.  

ENTRATI PIÙ DI 3 MILIARDI IN CEDOLE NELLE CASSE PUBBLICHE

Il Tesoro si consola, infatti, con le cedole. Grazie a quelle staccate dalle principali controllate, lo Stato italiano nel 2018 ha incassato più di tre miliardi di euro. Tra le quotate, in particolare, Enel ha versato 568 milioni di euro, Eni ha dato 126 milioni di euro al Mef e 747 milioni a Cdp. Enav ha staccato cedole per 53 milioni e Leonardo per 24,44, mentre Poste italiane ha dato 160 milioni al Tesoro e 192 a Cdp. Tra le aziende non quotate, invece, la più ‘pesante’ è sempre Cassa depositi e prestiti che ha corrisposto un dividendo di 1,1 miliardi di euro, mentre Ferrovie dello Stato ha staccato una cedola di 150 milioni di euro. Tra le altre, 2,2 milioni di euro fanno capo a Consip e 20 milioni a Sogei.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it

Banche, per chi suona il valzer delle fusioni

Occhi puntati sul mondo delle Popolari. Per adesso di nozze tra BancoBpm e Ubi, a parte aperture a mezzo stampa, non se ne parla. Più probabile un matrimonio della seconda con Bper. Mentre i dipendenti di Credito Valtellinese si aspettano una mossa da Crédit Agricole.

Chi sarà ad aprire le danze del risiko bancario nel 2020? È la domanda che circola nelle sale operative dove per ora i broker si accontentano di scommettere su fusioni di piccolo-medio taglio. Sotto ai riflettori sono in particolare le mosse di quel mondo Popolare che deve trovare un nuovo centro di gravità permanente magari dando vita al terzo polo del credito in Italia. Per adesso di nozze tra il BancoBpm e Ubi, a parte aperture a mezzo stampa tese più a vedere l’effetto prodotto che ad avviare negoziati concreti, non se ne parla. Più probabile sembra, invece, un matrimonio tra Bper e Ubi con a fare da sensale la Unipol (primo azionista della Popolare emiliana) di Carlo Cimbri. In generale, ha detto l’ad del gruppo assicurativo di via Stalingrado lo scorso 8 novembre, «non potremo che favorire strutture più grandi, più solide e più performanti di quelli attuali». 

LEGGI ANCHE: Perché Mustier ha tanta fretta di vendere

ATTESA AL CREDITO VALTELLINESE

Nel frattempo, però qualcosa potrebbe muoversi anche lungo la strada tra l’Emilia-Romagna e l’alta Lombardia. Nelle filiali del Credito Valtellinese, infatti, i dipendenti sono sempre più convinti che la loro banca finirà prima poi nella rete dei francesi del Crédit Agricole che hanno già la Cariparma. E che del Creval sono già azionisti con una quota del 5% oltrechè partner bancassicurativi. Da Parigi hanno sempre smentito («potremmo salire leggermente, fino a poco meno del 10%», perché l’obiettivo è «la partnership, non il controllo», aveva detto un anno fa il Ceo dell’Agricole, Philippe Brassac) ma il vento potrebbe essere cambiato. 

MANDARINI PER BAZOLI

Per Giovanni Bazoli la Cina è più vicina. Il 12 novembre, in qualità di presidente della Fondazione culturale Cini, il banchiere bresciano ha accolto a Venezia il finanziere cinese Eric Li, fondatore e managing partner di Chengwei Capital e amministratore fiduciario del China Institute della Fudan University. Li è uno dei nuovi Amici di San Giorgio, la “creatura” della Cini che raccoglie soggetti disposti a investire nel suo funzionamento con un impegno triennale e rinnovabile, di 100 mila euro annui. Ad accompagnare Li da Bazoli è stato un amico di vecchia data di entrambi ovvero l’ex premier Romano Prodi, che con la Cina ha da sempre rapporti consolidati e che è anche presidente onorario del Taihu World Cultural Forum, il consesso internazionale legato proprio allo sviluppo dei temi culturali lanciato da qualche anno dalla Cini. Il nuovo sponsor orientale può di certo dare sostegno alla Fondazione che già può contare sui contributi di soggetti privati istituzionali, come Intesa Sanpaolo, Cariplo e Generali. Ed Eni.

Leggi tutte le notizie di Lettera43 su Google News oppure sul nostro sito Lettera43.it