Il capo del governo libico di unità nazionale, Fayez al-Sarraj, e il suo rivale, il maresciallo Khalifa Haftar, uomo forte..
Il capo del governo libico di unità nazionale, Fayez al-Sarraj, e il suo rivale, il maresciallo Khalifa Haftar, uomo forte dell’est della Libia, sono attesi oggi a Mosca per firmare una tregua, sui termini del cessate il fuoco tra le loro truppe, entrato in vigore il 12 gennaio 2020. Dopo oltre novemesi di micidialicombattimenti alle porte della capitale libica Tripoli, la firma di questo accordo (è l’obiettivo di Russia e Turchia) deve diventare un ulteriore passo per abbassare i toni del conflitto, scongiurandone un’ulteriore internazionalizzazione.
NON È DETTO CHE HAFTAR E SARRAJ SI INCONTRINO DIRETTAMENTE
Ma non è detto che Haftar e Sarraj si incontreranno direttamente. Secondo quanto dichiarato dal capo del gruppo di contatto russo in Libia, LevDengov, i leader libici «avranno incontriseparati con i funzionari russi e gli emissari della delegazione turca che sta collaborando con la Russia su questo tema. I rappresentanti degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto saranno probabilmente presenti come osservatori ai colloqui».
I due leader libici non arriveranno in Russia da soli. Haftar, che ad aprile 2019 ha tentato senza successo di impadronirsi di Tripoli, sarà accompagnato dal suo alleato AguilaSalah, presidente del parlamento libico con base in Oriente. Assieme a Sarraj ci sarà invece Khaled al-Mechri, presidente del ConsigliodiStato. A Mosca sono attesi anche i ministri degli Esteri e della Difesa turchi, MevlutCavusoglu e HulusiAkar.
MACRON A PUTIN: «CESSATE IL FUOCO SIA CREDIBILE, DUREVOLE E VERIFICABILE»
Dalla Francia arriva il primo commento sull’incontro tra Haftar e Sarraj a Mosca. Durante una chiamata con VladimirPutin, il presidente EmmanuelMacron ha detto di volere che il cessate il fuoco in Libia sia «credibile, durevole e verificabile».
LA SITUAZIONE IN LIBIA
Il cessate il fuoco in Libia, richiesto da Russia e Turchia, è entrato in vigore alla mezzanotte del 12 gennaio 2020, con il plauso di Unioneeuropea, StatiUniti, NazioniUnite e LegaAraba. La Libia, ricca di petrolio, è nel caos dall’autunno del 2011 quando fu rovesciato il regime di MuammarGheddafi con una rivoltapopolare, sostenuta da un intervento militare guidato da Francia, Regno Unito e StatiUniti.
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Dalle rivolte contro il regime alla caduta di Gheddafi, fino alle lotte tribali, i tentativi falliti di transizione democratica e gli interessi di potenze straniere. I nove anni di guerra dell'ex Jamahiriya.
Gli ultimi nove anni di crisi libica testimoniano che il Paese nordafricano, nonostante il lungo regno di Muammar Gheddafi, di fatto non sia mai esistito.
Una debolezza storica, che attira ora le mire espansionistiche turche e russe, intenzionate a spartirsi il territorio e a mettere fuori dalla porta europei e italiani.
Ecco una cronistoria della crisi dell’ex Jamahiriya.
16 FEBBRAIO 2011 – LA PRIMAVERA ARABA INFIAMMA LA LIBIA
I primi scontri in Libia scoppiano a febbraio 2011, a seguito delle proteste scatenate dall’arresto dell’avvocato Fathi Terbil, noto oppositore di Gheddafi, che stava curando gli interessi dei parenti di alcuni attivisti politici morti 15 anni prima nelle galere libiche. A Bengasi si riversano in piazza migliaia di persone e la repressione della polizia non si fa attendere: muoiono quattro persone e 14 restano ferite. Ventiquattro ore dopo si incendiano tutte le principali città libiche. Negli scontri del 19 febbraio muoiono oltre 80 civili.
La Comunità internazionale biasima il pugno di ferro con cui Gheddafi gestisce la situazione. Imbarazzato il governo italiano, storico partner del Paese con noti e ingenti interessi economici in Libia.
21 FEBBRAIO 2011 – SCOPPIA LA GUERRA CIVILE
Il 20 febbraio, quando i morti sono ormai più di 120 e i feriti superano il migliaio di unità, l’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si limita a dichiarare: «Siamo preoccupati per quello che potrebbe succederci se arrivassero tanti clandestini. La situazione è in evoluzione e quindi non mi permetto di disturbare nessuno».
Il 21 febbraio Gheddafi dispone l’uso dell’esercito: i tank bombardano i manifestanti, che ormai vengono definiti «ribelli» e hanno preso la città di Bengasi. La propaganda del regime sostiene che dietro le proteste ci sia Osama bin Laden. «Combatterò fino alla morte come un martire», dichiara il raìs alla televisione libica.
26 FEBBRAIO 2011 – L’ITALIA SOSPENDE IL TRATTATO DI AMICIZIA
Il 26 febbraio il nostro Paese sospende unilateralmente il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra i due Paesi siglato a Bengasi il 30 agosto 2008. Ventiquattro ore dopo il Consiglio di sicurezza dell’Onu impone all’unanimità il divieto di viaggio e il congelamento dei beni di Muammar Gheddafi e dei membri del suo clan mentre il regime viene deferito al Tribunale Corte Penale Internazionale dell’Aja.
10 MARZO 2011 – L’UE RICONOSCE IL CNT COME NUOVO INTERLOCUTORE
Si muove infine anche l’Europa. Nel vertice straordinario dei capi di Stato e di Governo di Bruxelles si decide che Gheddafi deve abbandonare subito il potere e il Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) è il nuovo interlocutore politico.
19 MARZO 2011 – LA FRANCIA ENTRA IN GUERRA
Parigi dà il via all’operazione Odissey Dawn. La coalizione, guidata da Parigi e Londra, coinvolge anche gli Usa, la Spagna e il Canada. Roma, per non restare esclusa dalla spartizione che seguirà e non vedere danneggiati i propri interessi, volta le spalle al Colonnello e partecipa al conflitto.
OTTOBRE 2011 – LA FINE DI GHEDDAFI
La situazione per il raìs, che in un primo tempo era sembrato avere la meglio grazie all’arrivo in Libia di migliaia di mercenari al suo servizio, precipita durante l’estate. I ribelli irrompono nella sua fortezza di Tripoli e il Colonnello anziché combattere fino alla fine «come un martire» si dà alla fuga. Viene ucciso il 20 ottobre dello stesso anno, quando cade Sirte, la sua città natale.
GENNAIO 2012 – PROTESTE CONTRO IL CNT
Non c’è però pace per la Libia. Dopo pochi mesi i cittadini tornano in piazza per protestare contro il Consiglio nazionale di transizione. A luglio si elegge il Congresso nazionale generale e ad agosto avviene l’avvicendamento alla guida del Paese dei due collegi. Ma nemmeno questo apparente ritorno alla normalità ferma la rivoluzione.
11 SETTEMBRE 2012 – VIENE UCCISO L’AMBASCIATORE USA IN LIBIA
Chris Stevens, ambasciatore americano in Libia, viene ucciso da un comando di miliziani islamici nei pressi del consolato Usa di Bengasi, insieme a un agente dei servizi segreti e due marines. L’allora presidente statunitense Barack Obama decide di richiamare tutto il personale diplomatico e invia altre truppe nel tentativo di pacificare un Paese sempre più dilaniato.
ESTATE 2013 – CROLLA LA PRODUZIONE DI PETROLIO
Mentre in parlamento i Fratelli musulmani riescono a intercettare i candidati indipendenti, ponendo fine alla laicità del governo imposta per oltre 40 anni dall’ex dittatore, le guerre tra tribù e gli attentati costringono il Paese a chiudere gli impianti principali. La produzione quotidiana di petrolio crolla dagli 1,5 milioni di barili di giugno 2013 ad appena 180 mila.
FEBBRAIO 2014 – FALLISCE IL GOLPE DI HAFTAR
Contro una Libia sempre più islamica si schiera Khalifa Haftar, generale in pensione (nel 2014 ha già 71 anni) che nel 1969 partecipò al golpe che portò al potere Muammar Gheddafi. Proprio per questo non gode del favore del governo di transizione che teme voglia diventare il nuovo raìs libico. Il militare, che gode invece dell’appoggio dell’Egitto, in febbraio attua un colpo di Stato e prova a destituire il parlamento di Tripoli, ma l’esercito filogovernativo ha la meglio.
AGOSTO 2014 – L’AVANZATA DI ALBA DELLA LIBIA
Nemmeno le nuove elezioni del giugno 2014, con la vittoria di uno schieramento più moderato, consentono al Paese di avviare l’agognata transizione democratica. In estate le milizie islamiste riescono a unirsi sotto la guida dei temuti combattenti di Misurata e fondano il gruppo al Fajr Libya (Alba della Libia), conquistando Tripoli. Si crea così un governo ombra, parallelo a quello ufficiale ma costretto all’esilio nella città di Tobruk che crea ulteriori difficoltà nei rapporti con i Paesi esteri. Sono infatti due i ministri del Petrolio. Gli Emirati arabi sostengono entrambe le fazioni (durante il dialogo con Tobruk hanno infatti finanziato tutte le guerre di Haftar) nel tentativo di far salire al potere l’ex ambasciatore di Tripoli ad Abu Dhabi, Aref Ali Nayed, rendendo ancora più difficile il ruolo delle Nazioni Unite.
OTTOBRE 2014 – NASCE IL CALIFFATO DI DERNA
Dopo il ritiro delle Nazioni Unite e mentre le due milizie combattono per Bengasi, viene fondato a Derna, in Cirenaica, il Califfato islamico di Abu Bakr al Baghdadi. La città diventa covo di jihadisti che esercitano il potere con il terrore ed esecuzioni brutali. Ventuno egiziani cristiani vengono decapitati scatenando la dura repressione militare del Cairo. Intanto l’Isis conquista Sirte e sferra una serie di colpi alle ultime rappresentanze occidentali nel Paese. Il 27 gennaio viene assaltato l’hotel Corinthia di Tripoli, dove alloggia anche il premier islamista Omar al Hasi, scampato all’attentato che però causa la morte di cinque stranieri (tra cui un americano). Il 4 febbraio viene attaccato un giacimento a Mabrouk gestito dalla francese Total.
FEBBRAIO 2015 – CHIUDE L’AMBASCIATA ITALIANA A TRIPOLI
«Siamo pronti a combattere nel quadro della legalità internazionale». Questa frase, pronunciata dall’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è sufficiente a mettere l’Italia nel mirino dell’Isis che dichiara di essere pronta a fermare le nuove «crociate blasfeme» che partiranno da Roma. Il premier Matteo Renzi decide di chiudere l’ambasciata a Tripoli, l’ultima rimasta nel Paese. «Abbiamo detto all’Europa e alla comunità internazionale che dobbiamo farla finita di dormire», è il suo appello, «che in Libia sta accadendo qualcosa di molto grave e che non è giusto lasciare a noi tutti i problemi visto che siamo quelli più vicini».
17 DICEMBRE 2015 – L’ACCORDO DI SKHIRAT
L’accordo di Skhirat, in Marocco, stretto tra gli esecutivi di Tripoli e Tobruk, permette la nascita del governo guidato da Fayez al-Serraj e riconosciuto dall’Onu.
GENNAIO 2016 – IL GOVERNO PROVVISORIO IN TUNISIA
Le Nazioni Unite, finora rimaste sullo sfondo, provano la carta del governo provvisorio, ma la situazione in Libia è tale che deve insediarsi all’estero, in Tunisia e non viene riconosciuto né dal governo più laico di Tobruk né da quello islamista di Tripoli. Verrà fatto sbarcare in nave solo nel mese di marzo che segna il ritorno del personale delle Nazioni Unite nel Paese.
2016-2018 – LA CACCIATA DELL’ISIS
Inizia la controffensiva nei confronti dell’Isis che durerà più di due anni. Nel luglio 2018 l’esercito di Khalifa Haftar espugna Derna, roccaforte del Califfato.
APRILE 2019 – LO SCONTRO FINALE PER TRIPOLI
Archiviata la minaccia dello Stato islamico, nell’aprile 2019 riparte la battaglia per Tripoli. E mentre in strada si combatte, in altre cancellerie si guarda già alla pacificazione. Gli Emirati Arabi non sono i soli a portare avanti la politica dei due forni.
2017-2019 – I MALDESTRI TENTATIVI FRANCESI DI ESCLUDERE L’ITALIA
Anche la Francia di Emmanuel Macron è protagonista di una politica assai ambigua: ufficialmente appoggia Serraj, ma ufficiosamente sembra invece puntare su Haftar, nella speranza di ribaltare a proprio favore i rapporti tra Tripoli e Roma in tema di rifornimenti energetici. Il 29 maggio 2018 l’inquilino dell’Eliseo accelera e convoca un vertice con i rappresentanti libici al fine di indire nuove elezioni il 10 dicembre.
Non è la prima volta: il 24 luglio 2017 Macron aveva chiamato a Parigi Serraj e Haftar con la speranza di arrivare a una pacificazione benedetta dai francesi senza l’ingombrante presenza mediatrice di Roma. Particolarmente duro il ministro dell’Interno italiano, che in quel periodo è Matteo Salvini: «Penso che dietro i fatti libici ci sia qualcuno. Qualcuno che ha fatto una guerra che non si doveva fare, che convoca elezioni senza sentire gli alleati e le fazioni locali, qualcuno che è andato a fare forzature».
DICEMBRE 2019 – GENNAIO 2020 – L’INTERVENTISMO DELLA TURCHIA
Le Forze armate turche a fine dicembre si sono dette pronte a un possibile impegno in Libia a sostegno del governo di Tripoli contro le forze del generale Khalifa Haftar, come richiesto dal presidente Recep Tayyip Erdogan. L’ingresso delle truppe turche, col voto del parlamento di Ankarafavorevole all’invio di soldati in aiuto a Fayez Al-Sarraj, è destinato a spostare gli equilibri del conflitto libico. Una mossa che ha spiazzato l’Italia e l’Unione europea, che da tempo cercano una soluzione diplomatica, ma anche gli Stati Uniti, con Donald Trump che ha chiamato Erdogan per esprimergli la sua contrarietà all’intervento. E che ha spinto il generale Khalifa Haftar a lanciare la sua invettiva contro il presidente turco.
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Operativa la pipeline che corre dalla Russia all'Europa, passando per la Turchia. Un tassello in più nella cooperazione tra Mosca e Ankara.
Il gasdotto TurkStream è ufficialmente operativo. Alla cerimonia di battesimo, oltre al presidente russo Vladimir Putin e al suo omologo Recep Tayyip Erdogan, hanno preso parte anche il primo ministro bulgaro Boyko Borisov e il presidente serbo Aleksandr Vucic. Tutti i quattro leader hanno girato la valvola che dà il via alle forniture. La nuova linea è la seconda a collegare Russia e Turchia dopo il BlueStream e punta a portare il gas in Europa passando per il Mar Nero e per la parte europea della Turchia, bypassando l’Ucraina. La Turchia riceverà 15,7 miliardi di metri cubi di gas all’anno; altrettanti andranno in Europa.
ERDOGAN: «UN PROGETTO DI PORTATA STORICA»
«L’implementazione della costruzione del gasdotto transmediterraneo è la prova del partenariato strategico tra Russia e Turchia che ha prodotto risultati significativi e tangibili», ha dichiarato Putin alla cerimonia. «La cooperazione tra Russia e Turchia sta andando avanti in quasi tutti i segmenti. Nonostante la complicata situazione globale e i tentativi di alcuni attori internazionali di impedire l’espansione della cooperazione tra i nostri Paesi, i nostri sforzi continuano», ha osservato Putin. TurkStream, ha sottolineato Mosca, è un progetto «strategico» che contribuirà «alla stabilità della regione». Erdogan, da parte sua, ha commentato: «Il TurkStream, per cui abbiamo fatto molti sforzi con i nostri amici russi, è un progetto di importanza storica sia a livello delle nostre relazioni bilaterali che della mappa energetica».
LE CRISI SUL TAVOLO DEI DUE LEADER
Prima dell’inaugurazione del gasdotto, Putin ed Erdogan hanno avuto un faccia a faccia. Sul tavolo le crisi in Siria, Libia e Iraq. Putin è giunto in Turchia proprio dalla Siria, dove si è recato per un incontro a sorpresa con Bashar al Assad e ha fatto tappa per la prima volta dall’inizio della guerra anche a Damasco. Un colloquio preparatorio in vista di quello con Erdogan su Idlib, principale nodo irrisolto del conflitto, dove l’intensificarsi dei raid di Mosca e Damasco contro l’ultima roccaforte ribelle ha provocato nelle ultime settimane una nuova ondata migratoria di circa 250 mila persone verso la frontiera turca. L’altro capitolo chiave riguarderà la Libia, dove Erdogan ha annunciato l’invio “graduale” di truppe a sostegno del governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al-Sarraj contro l’offensiva delle forze del generale Khalifa Haftar, appoggiate da Putin. Una tregua aprirebbe la strada a una spartizione di fatto del Paese tra le regioni di Tripolitania e Cirenaica.
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L’Ue fuori gioco nel Mediterraneo. Dopo il via libera di Ankara all'invio di truppe, nell'ex colonia italiana si va verso una spartizione tra Erdogan e Putin. Come a Damasco e dintorni.
L’accordo sugli armamenti di Ankara con il governo di Tripoli a fine 2019 e, come primo atto del 2020, l’ok del parlamento turco a un contingente in Libia è l’istituzionalizzazione di una proxy war iniziata nel 2011, con le Primavere arabe. Segnata dall’accelerazione del 2014, che portò gli islamisti al governo nella capitale libica, e dalla volata di queste settimane imposta dalla marcia del nemico Khalifa Haftar su Tripoli. I rinforzi sul campo dei contractor russi alle milizie di mercenari del generale libico fanno la differenza, rendendo possibile la battaglia finale contro gli islamisti fallita da mesi da Haftar. Alla minaccia concreta i turchi, che un rapporto dell’Onu ha certificato violare «regolarmente e a volte apertamente» l’embargo sulle armi verso la Libia, sono costretti a uscire allo scoperto. Svelando come la guerra per procura sia anche, se non prima di tutto, una guerra del gas nel Mediterraneo.
ISLAMISMO CONTRO AUTORITARISMO
Da una parte scorre il corridoio di armi e di vari rifornimenti che parte dalla Turchia e, soprattutto attraverso i porti e lo scalo di Misurata, raggiunge Tripoli e ilgoverno di unità nazionale (Gna) guidato dagli islamisti. Aiuti, militari ed economici, pagati soprattutto dal ricco Qatar verso i gruppi di ribelli sponsorizzati nelle Primavere arabe contro i regimi autoritari, e a capo all’esecutivo di Fayez al Serraj legittimato dalla comunità internazionale (in seguito ai negoziati dell’Onu del 2015), ma sempre più circoscritto a Tripoli. Un governo caotico, frammentato, corrotto e composto da milizie anche violente. Dall’altra, ricorda lo stesso report sulla Libia del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del novembre scorso, c’è il fronte dei regimi sopravvissuti alle Primavere arabe che armano Haftar e conducono raid per lui: l’Egitto (finanziato dai sauditi) e gli Emirati arabi contrastano le mire neo-ottomane dei turchi in Libia, in asse con la Russia amica dei regimi.
ERDOGAN SI IMPOSSESSA DEL MEDITERRANEO
Il Leitmotiv è riportare la stabilità dell’era Gheddafi. Barattare il miraggio della democrazia con l’autoritarismo, nel nome di una sicurezza perduta e inseguita, è una tentazione ormai dalla maggioranza dei libici. Nell’ultimo anno Haftar ha raccolto simpatie anche in zone governate dagli islamisti (inclusi alcuni quartieri di Tripoli) dove da anni le aziende turche ricostruiscono strutture e infrastrutture – rilevando talvolta anche vecchi cantieri italiani. A questi grossi interessi geopolitici, che comprendono anche il Mediterraneo, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, un po’ come con i curdi nel Nord della Siria, non intende rinunciare, quand’anche come si profila le Primavere arabe dovessero soccombere alle forze di restaurazione. Il memorandum di novembre tra la Turchia e la Libia sulla giurisdizione dei due Stati nelle acque mediterranee (allegato all’accordo di cooperazione militare) è un’entrata a gamba tesa di Erdogan anche nei dossier energetici.
Complice il vassallo al Serraj, Erdogan ha diviso arbitrariamente il Mediterraneo tra Turchia e Libia
A GAMBA TESA NEL DOSSIER ENERGETICO
Egitto, Grecia, Israele, per non parlare di Cipro in contenzioso storico con la Turchia, sono insorte alla demarcazione unilaterale dei confini marittimi di Erdogan e al Serraj. Un colpo di spugna che dà mano libera ad Ankara alle esplorazioni di gas e petrolio nel Mediterraneo, per le quali i turchi si erano fatti largo nel Mediterraneo orientale già nella scorsa estate, al solito senza chiedere il permesso alla Grecia e a Cipro, lambendo anche la zona economica esclusiva egiziana e i minando i progetti dei gasdotti dei tre Paesi con Israele. Complice il vassallo al Serraj, Erdogan ha diviso arbitrariamente il Mediterraneo per scongiurare «l’emarginazione della Turchia» a terra. Anche gli accordi militari e di spartizione delle acque territoriali con la Libia furono ratificati a tambur battente dal parlamento di Ankara, in «aperta violazione del diritto di navigazione e dei diritti sovrani della Grecia e di altri Paesi», commentò il titolare della Farnesina Luigi Di Maio.
IL VIA LIBERA ALLE TRUPPE DEL PARLAMENTO TURCO
I memorandum dell’autunno erano l’antipasto della mozione per l’invio di truppe turche a sostegno del governo di Tripoli, approvata il 2 gennaio dai deputati di Ankara (325 favorevoli, 184 contrari) in un parlamento riaperto eccezionalmente dopo Capodanno, in anticipo dalla ripresa dei lavori l’8 gennaio. Curiosamente Erdogan, corso in soccorso alla battaglia finale libica, fa leva sul pretesto della «minaccia alla stabilità anche della Turchia»: con la Libia senza un «governo legittimo» si favorirebbero «gruppi terroristici come l’Isis e al Qaeda», che proprio le violazioni all’embargo anche della Turchia hanno fatto proliferare per anni, in reazione ai regimi autoritari e per sottrarre loro territori con ogni mezzo e scontri anche cruenti. Sebbene l’invio di rinforzi navali, aerei e a terra non si preveda immediato, l’escalation turca favorirà gli scontri in Libia e le tensioni nel Mediterraneo. Mentre l’Italia, e con Roma buona parte dell’Ue, staranno a guardare.
LA SPARTIZIONE TRA ERDOGAN E PUTIN
Alla condanna degli accordi «illegittimi» tra la Turchia e la Libia non seguiranno fatti. I progetti dino fly zoneventilati in un’operazione di Francia, Germania e Italia sono irrealistici, considerati il disastro dell’intervento nel 2011 contro Gheddafi e le manovre francesi inconfessabili di oggi con Haftar. E poi per difendere i libici da chi? L’Ue riconosce il governo filoturco di al Serraj a Tripoli (l’Italia ha una missione di assistenza agli islamisti a Misurata) non quello del generale nell’Est, con il quale tuttavia tiene aperti canali. Gli alt a Erdogan non possono tradursi in azioni, pena l’appoggio degli europei a regimi autoritari quali l’Arabia Saudita e i suoi satelliti (Emirati ed Egitto) e alla Russia di Vladimir Putin. Dalla Conferenza di Berlino sulla Libia di metà gennaio (se si terrà) non si attendono risultati ed è probabile che, nell’impotenza europea, mostrando i muscoli come in Siria Erdogan si ritaglierà la sua fetta di Libia – e di Mediterraneo – in accordo con Putin.
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Ankara risponde con la sua arma preferita alla minaccia di sanzioni americane per l'acquisto del sistema missilistico russo. Perché l'aeroporto di Incirlik è uno snodo strategico fondamentale per Washington.
«Se serve, possiamo chiudere una o entrambe» le basi militari gestite dagli Usa in Turchia di Incirlik e Kurecik. Lo ha ribadito il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, parlando con i reporter a margine del Forum mondiale sui rifugiati a Ginevra. «Sappiamo bene quando agire con moderazione e quando essere determinati», ha aggiunto il leader di Ankara, criticando Washington per le minacce di sanzioni per l’acquisto del sistema missilistico russo di difesa aerea S-400.
Incirlik è considerata una delle basi strategiche degli Usa nella regione. Al suo interno sono anche custodite numerose testate nucleari tattiche americane. La base era già stata al centro di diversi bracci di ferro in passato tra Washington e Ankara, che l’aveva aperta alle operazioni aeree della Coalizioni anti-Isis nel 2015. Kurecik è un’installazione miliare radar impiegata per scopi di difesa aerea.
Incirlik è il principale caposaldo logistico dell’aviazione americana (Usaf) nella regione, snodo chiave per decine di operazioni, comprese le guerre in Iraq e la missione in Afghanistan (che attraverso questo hub riceve il 70% del traffico cargo militare). Incirlik è la ‘casa’ del 39/o gruppo Air Wing Base (il cui mandato è assistere e proteggere interessi Usa e della Nato), del 728/o squadrone mobilità aerea nonché del 717/o e 425/o squadrone di trasporto dell’aviazione Usa. Sono presenti anche forze della Raf britannica e della Luftwaffe tedesca. La tendenza a utilizzare l’aeroporto come minaccia o merce di scambio non è nuova per la Turchia. Nel 2003, il governo di Ankara negò l’autorizzazione all’uso della base a Washington per l’invasione dell’Iraq: uno spartiacque nei rapporti con l’alleato storico. L’accordo tra Stati Uniti e Turchia per l’uso di Incirlik come aeroporto per i voli della coalizione anti-Isis è stato formalmente firmato il 29 luglio 2015, dopo che per quasi un anno la Turchia aveva negato l’autorizzazione all’uso delle piste. Nel luglio del 2016 la base fu usata da alcuni militari golpisti nella notte del tentato colpo di Stato contro Erdogan. All’epoca il presidente reagì con il “sequestro” immediato della base da parte della magistratura, e negli Usa si aprì il dibattito sulla convenienza nel tenere le testate nucleari stipate a Incirlik.
Ad alimentare le tensioni tra Usa e Turchia anche l’ipotesi della fine dell’embargo sulla vendita di armi alla Repubblica di Cipro, votata ieri dal Congresso Usa e in attesa della firma del presidente Donald Trump. L’embargo era stato introdotto nel 1987 per evitare una corsa agli armamenti e incoraggiare una soluzione politica a Cipro, divisa in due dal 1974 dopo un’invasione dell’esercito turco a seguito di un tentativo di golpe filo-greco. Ankara mantiene nella parte settentrionale dell’isola oltre 30 mila soldati e diverse basi militari. Inoltre, Erdogan ha dovuto subire lo smacco del riconoscimento da parte del Senato Usa del genocidio armeno, un tema su cui la Turchia è da sempre molto sensibile.
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Nel giorno in cui il presidente francese incontra il segretario Nato per chiede più coinvolgimento nel Sahel, l'"alleato" Ankara lo attacca frontalmente.
Nel giorno in cui il presidente francese Emmanuel Macron incontra il segretario Nato Jens Stoltenberg per lamentare che la Francia è lasciata sola nel Sahel a difendere l’Europa, il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu definisce il presidente della République «sponsor del terrorismo».
«VUOLE FARE IL CAPO DELL’EUROPA MA È DEBOLE»
L’accusa turca è legata alla critica francese all‘offensiva militare turca in Siria contro i curdi dell’Ypg che la Turchia considera appunto terroristi. Secondo la Bbc, Cavusoglu ha detto ai reporter che Macron vorrebbe diventare il capo dell’Europa ma è «debole».
«L’ALLEANZA HA BISOGNO DI UNA SVEGLIA»
Intanto il leader di Parigi non ha smentito le sue parole sulla Nato in stato di «morte cerebrale», anzi le ha rivendicate, a fianco del segretario generale dell’Alleanza, sottolineando che l’Alleanza aveva «bisogno di una sveglia». Dopo la strage di 13 militari francesi in Mali lunedì scorso – nello scontro fra due elicotteri durante un’operazione antiterrorismo – il presidente francese chiede ora un «maggiore coinvolgimento» nel Sahel dove la Francia, ha sottolineato, ha 4.500 uomini dispiegati e «opera per conto di tutti».
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Sarebbero 1.200 i cittadini europei catturati in Siria. Molti di loro sono jihadisti che Ankara è pronta a rimpatriare nei Paesi d'origine. Che però, nella mancata comunicazione tra intelligence, non sanno gestirli. Il punto.
L’11 novembre la Turchia ha espulso il primo dei combattenti stranieri dell’Isis trattenuti sul suo suolo, un americano che alla fine sembra essere stato abbandonato sul confine con la Grecia (quindi dell’Ue), rimbalzato più volte tra le polizie. «Non è un nostro problema», ha dichiarato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Sono seguiti due rimpatri, uno verso la Germania l’altro verso la Danimarca, e nei giorni dopo effettuati decine di voli verso l’Europa. «Centinaia e centinaia ce ne saranno ancora», ha promesso Erdogan e fa sul serio. Chi invece a lungo ha declinato, e declina, le proprie responsabilità sulle migliaia di foreign fighter (gli stranieri partiti per combattere con l’Isis e al Qaeda in Medio Oriente) sono i maggiori governi europei: la Gran Bretagna, come gli Stati Uniti, disconosce questi cittadini, la Francia e il Belgio tentano di farli processare in Iraq, la Germania li accetta ma non sa ancora bene dove mettere le mani.
LE LACUNE DELLE INTELLIGENCE
Ci sono prove o sufficienti elementi per disporre custodie cautelari? È certa alle intelligence la loro identità? In alcuni casi no. Il ministero degli Esteri tedesco ha ammesso di non conoscere ancora tutti i nomi dei concittadini in partenza dalla Turchia, solo un terzo dei rientrati è sotto inchiesta. Si tratta poi di stranieri catturati (circa 2280) dalla coalizione guidata dai curdo-siriani (Ypg) durante la liberazione caotica del Nord della Siria. Combattenti jihadisti detenuti in origine nelle carceri del Rojava, regione invasa questo autunno dalle forze turco-arabe dopo l’improvviso ritiro degli americani. Nell’ultima indagine dell’Egmont Institutesi stima che circa 1.200 foreign fighter dell’Europa fossero finiti nelle prigioni curde. Sarebbe stato necessario un gioco di squadra tra i dipartimenti dell’antiterrorismo per ricostruire i percorsi dei sopravvissuti: migliaia di jihadisti stranieri sono morti o dispersi in guerra, alcuni di loro erano tracciati, mentre altri in vita no. Invece i governi occidentali chiamati in causa erigono muri.
IN ITALIA NESSUN ARRIVO
L’Italia stavolta non fa testo: era tra i Paesi dell’Ue con meno foreign fighter, anche per le dinamiche di immigrazione più recenti. Tra i circa 140 partiti dal nostro Paese, una cinquantina risultano morti, e nel totale solo 25 erano cittadini italiani: tra loro, alcuni sono rientrati in Ue e diversi sono monitorati. Non ci sarebbero italiani in arrivo dalla Turchia: anche all’estero, ha fatto notizia la storia del piccolo Elvin, identificato dall’antiterrorismo italiano nel campo dell’Isis di al Hol, in Siria, e riportato a casa grazie alla collaborazione con le forze curde attraverso un corridoio umanitario tra Damasco e il Libano. Si ha contezza anche di altri bambini italiani nel Nord-Est della Siria sotto il controllo delle Ypg, che si tentano di rimpatriare. In ogni caso le donne e i minori rappresentano un problema nel problema, anche tra i foreign fighter in Turchia: circa due terzi di questi detenuti (ovvero 700) sono bambini tratti in salvo nei combattimenti. Spesso orfani di un genitore (come Elvin della madre), quando non dell’intera famiglia.
IL DESTINO DELLE DONNE RECLUTATRICI
Alcune donne dell’Isis sono rilasciate all’arrivo in Europa, per il ruolo passivo o la mancanza di prove, seguite poi nella de-radicalizzazione come è accaduto in Germania. Altre, come un’altra tedesca subito portata in carcere a Francoforte, sono accusate di avere avuto un ruolo attivo nella rete terroristica. E, quindi, sono considerate ancora pericolose come la combattente e reclutatrice di spose per i miliziani Tooba Gondal: 25enne di origine pachistana, è cresciuta a Londra dove vorrebbe tornare dalla famiglia, ed è ben nota all’intelligence del Regno Unito che le ha vietato il soggiorno. Tooba però, più volte vedova di jihadisti e con diversi figli, ha il passaporto francese. Di conseguenza era nella lista turca di ex membri dell’Isis da rimpatriare in Francia, dove in compenso l’intelligence ha pochi elementi su di lei. Il suo caso, come quello del primo espulso americano, è emblematico del groviglio sul destino dei terroristi cittadini di Stati occidentali che non li vorrebbero indietro.
LE CITTADINANZE REVOCATE
A questo proposito, negli Stati Uniti un giudice ha appena negato la cittadinanza a una donna dell’Isis, nata e cresciuta nell’Alabama, ma figlia di un diplomatico yemenita all’Onu: condizione che le è valsa l’altolà al rientro dalla Siria. Allo stesso modo il Regno Unito ha revocato la cittadinanza a diversi jihadisti (comprese alcune convertite da Gondal) per i quali si sostiene ci sarebbero gli estremi per la cittadinanza automatica nei Paesi d’origine. E sebbene anche i britannici si siano adeguati all’ultimatum («la Turchia non è un albergo»), lasciando atterrare dei sospetti terroristi, insistono affinché siano «processati nel luogo dove sono stati commessi i crimini», cioè in Siria e in Iraq. Una posizione sostenuta anche dal Belgio, costretto ad «aprire procedure bilaterali» con Ankara, ma con Baghdad si vedrà. Le resistenze sui connazionali nell’Isis restano forti anche in Francia, dove dal 2014 sono rientrati circa 250 affiliati grazie ad accordi con la Turchia. Ma i circa 400 che erano in Siria si vorrebbe fossero giudicati e detenuti in Iraq.
IL GIRO DI DENARO TRA RAQQA, LA TURCHIA E L’UE
A Baghdad c’è la pena di morte, anche le donne dell’Isis colpevoli di gravi reati sono giustiziate, mentre in Francia sconterebbero pene in media di 10 anni. Eppure gli esperti di terrorismo raccomandano di non mettere la testa nella sabbia, anche per ragioni di sicurezza: gli ultimi attacchi non sono stati compiuti da ex foreign fighter, in un modo o nell’altro, tracciati. Ma da cani sciolti come i rifiutati dagli Usa e dall’Ue, o fanatici e fanatiche apolidi o in fuga – con i figli – dai campi di prigionia verso le tante cellule sparse dell’Isis in Siria e in Iraq. E resta il fatto che più di 1000 jihadisti siano a tutti gli effetti cittadini Ue. Vero è che neanche la Turchia può fare il poliziotto buono, sottraendosi alle responsabilità sull’Isis: il dipartimento del Tesoro Usa sta sanzionando aziende turcheche hanno rifornito al Baghdadi per anni. Money transfer, cambi valute e gioiellerie aperte dai jihadisti hanno operato anche dal Gran Bazar di Istabul verso Raqqa e gli altri territori dell’Isis. Con ramificazioni in Medio Oriente e fino in Belgio, nel cuore dell’Ue.
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Il voto del Congresso sul genocidio armeno. Le nuove sanzioni per le operazioni in Siria. La richiesta di estradizione di Gulen. Il business delle armi e il riavvicinamento tra Turchia e Russia. I nodi e le incognite della visita del Sultano alla Casa Bianca.
Visita confermata. Il 13 novembre Recep Tayyp Erdogan è pronto a incontrare Donald Trump alla Casa Bianca. Una telefonata tra i due presidenti ha fatto sciogliere le riserve ad Ankara dopo le tensioni scatenate dalla recente mozione del Congresso Usa sul genocidio armeno e dalle nuove sanzioni imposte da Trump. Tutti nodi che evidentemente restano sul tavolo del bilaterale.
LE TENSIONI PER IL GENOCIDIO ARMENO E LE NUOVE SANZIONI USA
Andiamo per ordine. Ankara, come era prevedibile, non ha gradito il voto del Congressoamericano che a larghissima maggioranza ha riconosciuto il genocidio armeno in Turchia, il massacro di almeno 1,5 milioni di armeni sotto l’impero ottomano tra il 1915 e il 1916. Il governo turco si è limitato a definire l’eccidio come «un fatto tragico», ma non ammette la parola «genocidio». «Nella nostra fede il genocidio è assolutamente vietato», ha sottolineato Erdogan. «Consideriamo questa accusa come il più grande insulto al nostro popolo». A complicare la situazione, però, è stata anche una seconda risoluzione dei deputati statunitensi su nuove sanzioni alla Turchia per l’operazione militare nel Nord della Siria. A cui va aggiunta la recente incriminazione da parte degli States di Halkbank, la seconda banca statale turca accusata di aver aver aiutato l’Iran a violare le sanzioni economiche.
LA RICHIESTA DI ESTRADIZIONE DI GULEN
Altro tema caldo tra Ankara e Washington è la richiesta di estradizione di Fethullah Gulen. Il magnate ed ex imam residente in Pennsylvania è considerato dalla Turchia la mente del fallito golpe del 2016. Ankara ha proposto uno scambio di quelli che definisce «terroristi»: Gulen al posto della sorella di Abu Bakr al Baghdadi, l’ex Califfo del sedicente Stato islamico, catturata dai turchi (arresto al quale è seguito anche quello della moglie dell’ex leader di Daesh). «Gulen è importante per la Turchia quanto al Baghdadi lo era per gli Stati Uniti», ha ribadito Erdogan. Finora da Washington è arrivato un secco no, che però potrebbe ammorbidirsi alla luce degli interessi economici e militari americani.
IL NODO SIRIANO E LA VISITA DELL’EX COMANDANTE DEL PKK
I rapporti tra Usa e Siria rappresentano un altro motivo di tensione. Erdogan, infatti, aveva chiesto di cancellare un’altra visita programmata alla Casa Bianca: quella del capo delle Syrian Democratic ForcesFerdi Abdi Sahin, ex comandante del Pkk che sia la Turchia che gli Usa hanno riconosciuto come organizzazione terroristica. La Casa Bianca non ha smentito l’incontro, scatenando la reazione del governo turco: gli Usa «sanno che razza di terrorista sia, di quali razza di atrocità si sia reso responsabile in passato», hanno dichiarato alcune fonti vicine al presidente Erdogan citate da Middle East Eye. «Sanno che caos si scatenerebbe se il Congresso trattasse da eroe uno che difende l’Isis».
IL BRACCIO DI FERRO CON MOSCA
Infine a preoccupare Washington è anche il riavvicinamento tra Turchia e Russia. Mosca si è detta pronta a vendere il proprio sistema di difesa anti missilistico S-400 e la prima reazione statunitense è stata l’interruzione della fornitura di F35, non senza conseguenze economiche e strategiche dal momento che la Turchia rappresenta il secondo esercito in termini numerici della Nato. A pochi giorni dall’incontro tra Trump e Erdogan, inoltre, il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, ha confermato una esercitazione congiunta in Russia proprio sul sistema missilistico S-400, spiegando che per la Turchia è necessario difendersi da una doppia minaccia terroristica: l’Isis e i curdi. L’ennesima ombra sull’incontro tra il tycoon e il Sultano.
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