Lo riferisce Newsweek citando fonti del Pentagono e delle intelligence Usa e irachena.
Il Boeing dell’Ukrainian Airlines precipitato durante la fase di decollo dall’aeroporto di Teheran causando la morte di 176 persone l’8 gennaio, sarebbe stato abbattuto per errore da un missile anti-aereo iraniano. Lo scrive Newsweek che cita tre fonti: una del Pentagono, una dell’intelligence Usa e un’altra dell’intelligence irachena.
Secondo le fonti citate, l’aereo sarebbe stato colpito da un missile terra-aria Tor M-1, di fabbricazione russa, noto come Gauntlet presso la Nato. La batteria anti-aerea iraniana sarebbe stata attiva contro possibili risposte ai raid compiuti contro due basi americane in Iraq seguiti all’uccisione da parte di un drone Usa del generale iraniano Qassem Soleimani.
«Qualcuno potrebbe aver commesso un errore», ha commentato il presidente Usa Donald Trump. «Ho un mio sospetto su quanto accaduto», ha aggiunto il tycoon sulle indiscrezioni stampa che puntano il dito sul sistema anti-missilistico di Teheran escludendo problemi tecnici del Boeing 737 precipitato.
In mattinata, il team di esperti ucraini che indaga sul disastro aveva incontrato a Teheran le autorità dell’aviazione civile iraniana, che continuano a ritenere che il velivolo sia precipitato a seguito di un problema tecnico. La Repubblica islamica ha invitato a partecipare all’inchiesta anche il Canada e la Svezia che nella tragedia hanno avuto rispettivamente 63 e 10 morti.
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Secondo l'inchiesta iraniana il Boeing 737 precipitato poco dopo il decollo tornava indietro per un problema. E testimoni lo hanno visto prendere fuoco in volo prima di schiantarsi ed esplodere al suolo. Ma Kiev non esclude l'ipotesi missile. Tutte le novità sull'incidente.
Perché è caduto l’aereo ucraino a Teheran, in piena crisi internazionale e nel giorno del contrattacco dell’Iran agli Usa? Restano ancora dubbi sulla vicenda del Boeing 737 precipitato l’8 gennaio 2019 poco dopo il decollo. L’inchiesta iraniana sull’incidente costato la vita a 176 persone finora ha constatato che il velivolo stava tornando indietro a causa di un «problema».
SI DIRIGEVA VERSO EST E HA GIRATO A DESTRA
L’Organizzazione per l’aviazione civile iraniana ha resto noto sul suo sito che «l’aereo, che all’inizio si dirigeva verso Est per lasciare la zona dell’aeroporto, ha girato a destra a causa di un problema e stava tornando all’aeroporto nel momento dell’incidente».
TESTIMONI HANNO VISTO LE FIAMME AVVOLGERE L’AEREO
In una dichiarazione si legge che il mezzo «ha preso fuoco in volo» prima di schiantarsi ed esplodere al suolo. «Testimoni oculari hanno visto le fiamme avvolgere l’aereo».
LE INTELLIGENCE OCCIDENTALI PENSANO ALL’AVARIA TECNICA
Le agenzie di intelligence occidentali per ora hanno scartato l’ipotesi che il Boeing 777 ucraino sia stato colpito da un missile, come ha rivelato una fonte d’intelligence canadese, citata da Ynet, il sito del giornale israeliano Yedioth Ahronot. La spiegazione condivisa, secondo la fonte, è quella di un’avaria tecnica.
KIEV NON ESCLUDE L’IPOTESI DEL MISSILE
Eppure l’Ucraina non sembra essere del tutto d’accordo. E non esclude alcuna pista. Diversi media internazionali, tra i quali Al Jazeera, hanno riportato la notizia secondo la quale Kiev valuta anche la possibilità che l’aereo dell’Ukraine International Airlines sia caduto perché colpito da un missile o durante l’attacco iraniano agli americani.
IL PRIMO MINISTRO HONCHARUK LASCIA APERTE TUTTE LE PISTE
In una conferenza stampa a Kiev, il primo ministro ucraino Oleksiy Honcharuk – citato dal Daily Telegraph – rispondendo a una domanda ha detto in effetti di rifiutare di escludere l’ipotesi del missile, precisando però di non voler fare speculazioni finché l’inchiesta sulle cause dell’incidente non sarà conclusa.
RITIRATA LA DICHIARAZIONE SUL GUASTO AL MOTORE
Inizialmente l’ambasciata ucraina in Iran aveva dichiarato che a causare lo schianto sarebbe stato un guasto a un motore. In seguito però Kiev ha ritirato questa dichiarazione e il presidente Volodymyr Zelensky ha ordinato un’inchiesta, promettendo in una nota: «Scopriremo la verità svolgendo un’indagine dettagliata e indipendente conforme al diritto internazionale». Zelensky ha espresso le sue condoglianze alle famiglie delle vittime, tra cui 11 cittadini ucraini, nonché cittadini di Iran, Canada, Svezia, Afghanistan e Regno Unito.
INDAGINE CON 45 SPECIALISTI UCRAINI
Secondo Zelensky l’indagine sarà condotta dalla commissione istituita dalla Civil Aviation Organization iraniana e coinvolgerà 45 specialisti ucraini, tra cui rappresentanti del servizio dell’aviazione statale, dell’Ufficio nazionale per le indagini sugli incidenti aerei in Ucraina e dell’Ukraine International Airlines. Se necessario, l’inchiesta potrà coinvolgere rappresentanti del Consiglio di sicurezza e di difesa nazionale, dei servizi di sicurezza, del servizio di emergenza statale, del ministero della Difesa, del ministero degli Affari esteri, del ministero dell’Interno e di altre agenzie che già sono a Teheran.
APPELLO ALLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
Zelensky ha detto che «questi sono i migliori specialisti del nostro Paese, hanno una colossale esperienza. Identificheranno e rimpatrieranno gli ucraini deceduti. Ci aspettiamo che tutti loro siano coinvolti nelle attività della commissione, comprese le informazioni di decodifica dai registratori di dati di volo». Il presidente ucraino ha annunciato che avrà una telefonata con il suo omologo iraniano al fine di rafforzare la cooperazione nella ricerca della verità, e ha esortato la comunità internazionale, incluso il Canada, ad aiutare a sondare le circostanze dello schianto.
L’IRAN NON DÀ LE SCATOLE NERE ALLA BOEING
In questo quadro poco chiaro l’Iran ha detto di non voler consegare a Boeing, compagnia americana, le scatole nere dell’aereo caduto. La notizia era stata riporta dall’agenzia iraniana Mehr che citava il capo dell’aviazione civile dell’Iran Ali Abedzadeh, senza però specificare in quale Paese saranno inviate per essere analizzate.
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Almeno 176 morti. Prima la causa individuata in un problema tecnico, poi il governo ucraino ha annunciato la creazione di una commissione. La maggior parte dei passeggeri a bordo erano cittadini iraniani diretti a Kiev.
Strage all’aeroporto di Teheran. Un Boeing 737 dell’Ukraine International Airlines è precipitato subito dopo il decollo. Nessun superstite: i morti sono almeno 176. La maggior parte dei passeggeri (82) erano cittadini iraniani diretti a Kiev. A bordo c’erano anche 63 canadesi, 11 ucraini, 10 svedesi, quattro afgani, tre tedeschi e tre britannici. Degli 11 ucraini deceduti, nove erano membri dell’equipaggio.
LA CAUSA DEL DISASTRO SAREBBE UN PROBLEMA TECNICO
Secondo i media russi l’aereo era partito alle 5 del mattino ed è precipitato in un campo alla periferia di Teheran. Le autorità locali hanno indicato un problema tecnico come causa dell’incidente, quelle ucraine in un primo momento hanno escluso che l’incidente sia stato causato da un attacco terroristico. Ma una dichiarazione pubblicata sul sito web dell’ambasciata ucraina in Iran secondo cui lo schianto era stato causato da un guasto a un motore è stata modificata precisando che tutte le informazioni saranno fornite da una commissione ufficiale.
«NESSUNA CONCLUSIONE PRIMA DELLA COMMISSIONE»
Anche il premier ucraino Aleksey Goncharuk ad un briefing ha esortato a «non costruire versioni fino alle conclusioni definitive della commissione». E se Berlino ha chiesto di fare chiarezza sulle dinamiche dell’incidente, per il ministero dei Trasporti iraniano, un motore avrebbe preso fuoco. In ogni caso, Teheran non darà a Boeing le scatole nere del velivolo. Il capo dell’aviazione civileAli Abedzadeh non ha specificato in quale Paese saranno inviate per essere analizzate.
GLI USA VIETANO AI VOLI COMMERCIALI DI ENTRARE NELLO SPAZIO AEREO IRANIANO
Intanto la US Federal Aviation Administration ha vietato a tutti i voli commerciali di entrare nello spazio aereo iraniano e iracheno, dopo l’attacco contro le basi militari americane in Iraq. Sottolineato il «rischio» di «possibili errori di calcolo» in caso di lancio di missili.
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A tre anni di distanza, riprendono le trattative per il Donbass. Questa volta a Parigi si incontreranno Macron, Merkel, Putin e Zelensky. Lo stallo però è destinato a continuare. Un compromesso tra Kiev e Mosca pare impossibile, soprattutto senza un accordo tra Russia e Usa. L'analisi.
L’ultimo incontro nel cosiddetto “formato normanno” risale all’ottobre del 2016. A Berlino si riunirono con Angela Merkel e l’allora presidente francese François Hollande, Petro Poroshenko e Vladimir Putin, i quattro che si erano visti per la prima volta in Normandia nel 2014 alle celebrazioni per il 60esimo anniversario dello sbarco degli Alleati e che avevano poi sottoscritto gli Accordi di Minsk nel 2015 impostando la road map del processo di pacificazione nel Donbass.
Da allora un sostanziale stallo, con la diplomazia internazionale incastrata sulla crisi ucraina, il conflitto nel Sud-Est della repubblica ex sovietica di fatto congelato, il numero delle vittime salito a oltre 13 mila e quello dei profughi, interni e verso la Russia, nell’ordine dei milioni.
Una tragedia sparita dai radar dei media occidentali che solo saltuariamente torna sotto i riflettori, evidenziando ogni volta la situazione critica in un Paese nel cuore dell’Europa dove si combatte una vera proxy war, una guerra per procura, tra Russia e Stati Uniti con l’Unione europea a fare in sostanza da spettatrice.
IL PRIMO FACCIA A FACCIA TRA ZELENSKY-PUTIN
Il summit di lunedì 9 dicembre a Parigi, padrone di casa Emmanuel Macron, è dunque il tentativo di fare un passo in avanti per smuovere i macigni che hanno ostruito la via verso la pace. Operazione quasi impossibile, ma il solo fatto che gli attori principali si vedano direttamente deve essere valutato positivamente, anche se alla fine la montagna partorirà il solito ridicolo topolino. Oltre a Macron, l’altra novità del quartetto è rappresentata da Volodymyr Zelensky. Eletto quest’anno – ha sostituito Poroshenko, trionfatore della rivoluzione di Euromaidan finito però disgrazia dopo il mandato fallimentare alla Bankova – Zelensky sta tentando di trovare la via del compromesso con la Russia. Spalleggiato da Francia e Germania della sempre presente cancelliera Merkel, si incontrerà per la prima volta faccia a faccia con Vladimir Putin che oggi come allora ha ancora in mano i destini del Donbass: i separatisti filorussi possono infatti sopravvivere solo con l’aiuto di Mosca, cui basta il minimo sforzo per tenere in scacco l’Ucraina sul fronte sudorientale.
UN COMPROMESSO TRA MOSCA E KIEV È ANCORA MOLTO DIFFICILE
Zelensky, Putin, Merkel e Macron ripartono quindi dagli accordi di Minsk, vecchi ormai quasi cinque anni (sottoscritti nel febbraio del 2015, sulla base del primo patto bielorusso del 2014), e riproposti adesso nella cosiddetta formula Steinmeier, una versione semplificata sulla quale ci sarebbe un’intesa preliminare. Il condizionale è d’obbligo, visto che se i punti chiave sono più o meno chiari (status speciale alle regioni di Donetsk e Lugansk ed elezioni libere e monitorate), la tempistica è invece ancora nella nebbia.
In sostanza, ed è qui il duello tra Russia e Ucraina, Kiev vorrebbe ottenere il controllo del confine prima delle elezioni, mentre Mosca il contrario. Dato che vie di mezzo non ce ne sono, è assai improbabile che si arrivi presto a un compromesso accettabile da tutti, soprattutto da Zelensky che a casa propria è incalzato dai falchi nazionalisti (vasta fazione dentro e fuori il parlamento, quest’ultima numericamente minoritaria, ma più pericolosa) che invece di una soluzione diplomatica preferirebbero una suicida resa dei conti militare.
LA RUMOROSA ASSENZA DEGLI USA AL TAVOLO DIPLOMATICO
Nulla di nuovo perciò all’orizzonte, se non la volontà, diplomatica, di riaprire il dialogo dopo il silenzio di tre anni. La partita, inoltre, si gioca su più fronti: il quartetto normanno è uno specchietto per le allodole, dato che esclude in partenza uno dei player maggiori e decisivi, cioè gli Stati Uniti. Così come Barack Obama aveva delegato la mediazione ad Angela Merkel, Donald Trump si guarda bene dall’entrare direttamente in gioco, nonostante da Kiev Poroshenko prima e Zelensky poi abbiano cercato di tirarlo per la giacca per allargare il tavolo delle trattative. È evidente però che senza un accordo tra Russia e Stati Uniti non ci potrà essere alcuna vera e duratura soluzione del conflitto, al di là di qualche accorgimento cosmetico e temporaneo.
IL MACIGNO DELLE SANZIONI
Il lavoro sporco è riservato insomma tra Parigi e Berlino che si devono accollare oltretutto gli svantaggi della strategia delle sanzioni, volute in primo luogo da Washington, ultima però a subirne riflessi e contromisure. Nonostante i malumori fino a ora si è andati avanti su questa linea, anche se ora appaiono i primi tentativi reali di smarcamento guidati da Macron. Angela Merkel, che nonostante le pressioni a stelle e strisce mai ha mollato il progetto Nordstream, il gasdotto russo-tedesco sotto il Baltico che aggira l’Ucraina, ha sempre giocato su due fronti.
L’UCRAINA È LACERATA SENZA SOVRANITÀ DAL 1991
L’Ucraina è insomma il teatro di braccio di ferro tra Cremlino e Casa Bianca che va oltre il nome dei rispettivi inquilini e dove l’Europa di Germania e Francia ha dimostrato la propria debolezza. A Kiev – dove dopo il cambio di regime del 2014 che ha lasciato immutato l’establishment politico-economico, l’onda verde di Zelensky sembra più incline adesso al compromesso con il sistema oligarchico che non alla sua distruzione – l’aiuto degli Stati Uniti e dell’Europa è necessario per non sprofondare nel baratro, ma non certo sufficiente per avere quella piena sovranità che gli ucraini attendono dal 1991, cioè dall’indipendenza dall’Urss. Il Paese è lacerato, la Crimea annessa dalla Russia e il Donbass de facto un protettorato di Mosca: impossibile ricomporre i cocci se Mosca e Washington non si metteranno d’accordo in qualche modo, anche sopra la testa di Kiev.
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Il team internazionale a guida olandese che investiga sull'abbattimento del volo della Malaysia Airlines ha pubblicato delle intercettazioni che mostrano i contatti tra funzionari di Mosca e ribelli separatisti.
Nuova svolta nell’intricato caso dell’abbattimento del volo Malaysia Airlines 17. In particolare sarebbero stati individuati stretti legami tra la Russia e i ribelli del Donbass testimoniati da nuove intercettazioni telefoniche tra funzionari russi e alcuni leader separatisti.
Le conversazioni sono state pubblicate dal Team investigativo internazionale a guida olandese (Jit) sulla tragedia del Boeing malese abbattuto nei cieli del Donbass in guerra nell’estate del 2014. Le telefonate risalgono alle settimane precedenti alla sciagura in cui morirono 298 persone. L’aereo fu abbattuto da un missile di fabbricazione russa.
Lo scorso giugno, gli investigatori hanno accusato quattro persone per la tragedia aerea: tre sono cittadini russi e – secondo gli inquirenti – sono o sono stati agenti dell’intelligence di Mosca. Uno degli incriminati è Igor Strelkov, al secolo Igor Girkin, ex comandante delle milizie separatiste del Donbass che sarebbe anche tra le persone coinvolte nelle conversazioni intercettate.
I RUSSI COINVOLTI NELLE INTERCETTAZIONI
Le telefonate riguardano anche il consigliere di Putin, Vladislav Surkov, il “premier” dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, Aleksandr Borodai, e il leader crimeano scelto da Mosca, Vladislav Surkov. In almeno tre telefonate, i separatisti affermano di agire nell’interesse della Russia e su ordine dei suoi servizi segreti. «Sto eseguendo gli ordini e difendendo gli interessi di uno e di un solo Paese: la Federazione Russa», ha detto Borodai in una telefonata.
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L'inquisitore Schiff. La talpa con un passato alla Cia. I testimoni Taylor e Kent (ma non solo). I convitati di pietra Giuliani e Bolton. Uno sguardo ai personaggi principali della vicenda che tiene gli Usa incollati alla tivù.
Ha preso via il grande show dell’impeachment di Donald Trump. Dopo settimane di audizioni a porte chiuse, il 13 novembre si sono tenute le prime testimonianze pubbliche nell’ambito del’indagine sul presidente statunitense. L’obiettivo è appurare se ci sia stato o meno un do ut des da parte di Trump legando gli aiuti militari all’Ucraina all’avvio da parte di Kiev di un’indagine per corruzione sui Biden e di un’altra sulle presunte interferenze ucraine sulle elezioni presidenziali Usa del 2016 a favore di Hillary Clinton. La fase delle testimonianze pubbliche culminerà nella decisione di mettere o meno in stato di accusa il presidente ed eventualmente, dopo il voto a maggioranza semplice della Camera, rinviarlo al giudizio (a maggioranza qualificata) del Senato. Ecco i principali personaggi della vicenda che sta tenendo una nazione intera incollata alla tivù.
ADAM SCHIFF, IL GRANDE INQUISITORE
Trump lo chiama Schifty Schiff, il losco Schiff. Avvocato californiano, il 59enne Adam Schiff è il presidente della commissione Intelligence della Camera che coordina le indagini dei democratici. È stato lui a convincere sulla necessità di agire per la messa in stato di accusa del tycoon anche la riluttante speaker della Camera Nancy Pelosi e vuole chiudere la partita in tempi brevi, portando Trump a processo in Senato, dove la maggioranza è però repubblicana. In apertura di seduta Schiff ha illustrato gli scopi dell’indagine evocando un abuso di potere da parte di Trump e una condotta da impeachment. In commissione, la controparte repubblicana di Schiff è Devin Nunes. Entrambi hanno la possibilità di porre domande – o farle porre dai legali – ai vari testimoni.
LA TALPA, ANALISTA DELLA CIA ORA SOTTO PROTEZIONE
Analista della Cia in servizio presso la Casa Bianca, la “talpa” ha raccolto le informazioni e denunciato la telefonata del luglio scorso tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Voci sulla sua identità rimbalzano da settimane, ma non c’è stata finora alcuna conferma (ragion per cui Lettera43.it non pubblica i nomi circolati, ndr). Il whistleblower che ha dato il la all’Ucrainagate vive sotto protezione. I repubblicani vorrebbero farlo testimoniare pubblicamente. I democratici, però, si oppongono.
I TESTIMONI: DALL’AMBASCIATORE A KIEV AL VICESEGRETARIO AGLI AFFARI EUROPEI
Bill Taylor, ambasciatore Usa a Kiev, e George Kent, vicesegretario di Stato agli Affari europei, sono stati i primi ad apparire pubblicamente alla Camera. Il 15 novembre è la volta dell’ex ambasciatrice a Kiev Marie Yovanovitch, cacciata da Trump perché ritenuta poco leale. C’è grande attesa per l’audizione di Gordon Sondland, ambasciatore Usa presso l’Unione europea. Il 13 novembre Taylor ha rivelato che nei giorni scorsi un membro del suo staff gli ha raccontato di aver sentito una telefonata fra Trump e Sondland mentre era con quest’ultimo in un ristorante a Kiev il 26 luglio, il giorno dopo la telefonata del tycoon a Zelensky.
Sondland gli confermò che «tutto» ciò che voleva Kiev dipendeva dall’annuncio di Zelensky dell’apertura delle indagini su Biden
Bill Taylor, ambasciatore Usa a Kiev
«Trump chiese delle indagini e Sondland rispose che gli ucraini erano pronti ad andare avanti», ha riferito Taylor. Quando il suo collaboratore chiese a Sondland cosa pensasse Trump dell’Ucraina, si sentì rispondere che «al presidente interessano più le indagini sui Biden». Taylor ha aggiunto che Sondland gli confermò che «tutto» ciò che voleva Kiev dipendeva dall’annuncio di Zelensky dell’apertura delle indagini. Legame che a lui appariva «folle». Tra gli altri testimoni che sfileranno nei prossimi giorni figurano Tim Morrison, primo consigliere del presidente per la Russia e l’Europa, Jennifer Williams, assistente del vicepresidente Mike Pence, Alexander Vindman, dirigente del consiglio per la sicurezza nazionale, Kurt Volker, ex inviato speciale in Ucraina, Laura Cooper, sottosegretaria alla Difesa per gli Affari europei, David Hale, sottosegretario di Stato agli Affari politici, e Fiona Hill, ex responsabile del consiglio per la sicurezza nazionale.
I CONVITATI DI PIETRA: IL RUOLO DI GIULIANI E LA VARIABILE BOLTON
Sullo sfondo delle audizioni, una serie di personaggi chiave nella vicenda. Innanzitutto Rudy Giuliani, l’ex sindaco di New York che oggi è avvocato personale di Trump e, stando alle prime testimonianze, braccio operativo del presidente nell’Ucrainagate. Secondo Taylor, Giuliani mise in piedi un canale politico «irregolare» che minò le relazioni con Kiev mentre cercava di aiutare Trump politicamente. Tutto ruota attorno all’ex sindaco della Grande Mela, avendo direttamente guidato gli sforzi per spingere Kiev a indagare sui rivali di Trump. In primis Joe Biden, nel mirino per gli affari in Ucraina del figlio Hunter: i repubblicani vorrebbero chiamare i due a testimoniare. Grande attenzione anche sull’ex consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca John Bolton, silurato da Trump. Bolton potrebbe imprimere una svolta con la sua testimonianza, chiesta a gran voce dai dem ma finora bloccata dalla Casa Bianca.
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Russia e Germania hanno vinto la partita sul gasdotto, a discapito degli Stati centrali dell'Europa, in particolare dell'Ucraina. Mentre Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati con la Cina assetata di energia e per accaparrarsi le risorse dell'Artico.
Già in dirittura d’arrivo, si era incagliato nelle acque territoriali danesi e senza la luce verde di Copenaghen avrebbe dovuto allungare il percorso. Niente chilometri in più e altri ritardi, quindi, e così il progetto trainato dal colosso Gazprom dovrebbe chiudersi nei prossimi mesi e partire a pieno regime nel 2020.
Si tratta del raddoppio di Nordstream 1, già in funzione da quasi 10 anni, che porterà altri 55 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno direttamente in Germania. Aggirando da Nord l’Europa centrale e soprattutto l’Ucraina. Voluto con forza da Mosca e Berlino, Nordstream 2 è stato ostacolato fortemente da alcuni Stati dell’Ue, guidati dalla Polonia, e soprattutto dagli Stati Uniti, interessati a indebolire il legame energetico tra Russia ed Europa e sostituirsi almeno in parte a Mosca attraverso forniture di gas liquido proveniente da Oltreoceano.
UNA BATTAGLIA VINTA DA PUTIN E MERKEL
Se dunque è stata detta davvero l’ultima parola sui tubi della discordia, ad averla vinta sono stati in primo luogo Vladimir Putin e Angela Merkel, in questi ultimi mesi sotto pressione da Washington per lasciare incompiuto il lavoro fatto dal suo predecessore Gerhard Schröder, che all’inizio degli anni Duemila aveva detto il primo sì a Nordstream 1. A nulla sembra essere in definitiva servito il pesante lavoro di lobby americano, sia su Bruxelles che su singoli Stati europei: il Cremlino continua a essere in posizione di forza nella guerra del gas che va avanti, tra cambiamenti di scenari anche repentini, già da un paio di lustri, ma che vede come attori principali sul Vecchio continente sempre Russia e Germania. Se sul versante meridionale Mosca ha dovuto cambiare le carte, con l’abbandono di Southstream poi in parte sostituito con Blustream a fianco della Turchia, su quello settentrionale l’asse Mosca-Berlino non ha dato segni di cedimento, nonostante lacrisi ucraina e le sanzioni occidentali, europee e statunitensi, che comunque non sono andate a toccare i progetti energetici.
KIEV E LA QUESTIONE DELLA DIPENDENZA UCRAINA DAL GAS RUSSO
Anche le minacce di ritorsioni economiche verso le aziende europee, non solo tedesche, ma anche olandesi, austriache, francesi e italiane, sono andate a vuoto. Putin e Merkel possono dirsi soddisfatti, Donald Trump un po’ meno, così come polacchi e baltici, insieme con gli ucraini, i perdenti. Sarà infatti Kiev a essere la più penalizzata dal doppio Nordstream, che in sostanza la taglierà fuori dal sistema di transito, o comunque da gran parte di esso. Addio quindi a 3 miliardi di dollari all’anno e la necessità a questo punto di dover affrontare la questione della dipendenza dal gas russo, in realtà non così complicata. Negli anni passati, già prima del regime change a Kiev e la guerra nel Donbass, il braccio di ferro tra Russia e Ucraina sulle questioni energetiche è stato ampiamente strumentalizzato da entrambe le parti per ragioni geopolitiche ed economiche, quando in realtà l’Ucraina, senza troppi sforzi come dimostrato proprio negli ultimi anni, potrebbe sensibilmente diminuire l’import di gas russo per il proprio fabbisogno interno.
Gli interessi di Gapzrom e Naftogaz e degli oligarchi di riferimento, da una parte e dall’altra, hanno segnato i rapporti tra Mosca e Kiev nel settore più opaco e corrotto dell’economia di entrambi i Paesi. Yulia Tymoshenko, l’eroina della rivoluzione arancione del 2004, era stata sbattuta in galera dal presidente Victor Yanukovich nel 2011 con l’accusa di abuso di ufficio per aver firmato i contratti con Putin nel 2009, gli stessi che sono ancora in vigore fino alla fine di quest’anno e devono essere rinegoziati con la mediazione dell’Unione europea.
ORA MOSCA PUÒ APRIRE NUOVI MERCATI DEL GAS CON LA CINA
Tra battaglie legali e successi alterni davanti ai tribunali, Gazprom e Naftogaz sono di fronte a una nuova sfida sulla quale l’avvio di Nordstream pesa non poco. Il Cremlino ha anche stavolta il coltello dalla parte del manico, anche perché l’Ucraina, pur avendo ricevuto assicurazioni di massima da parte di Berlino e Bruxelles, è rimasta isolata e gli aiuti trasversali americani, non certo disinteressati, sono finiti in un disastro. Basti pensare al 2014 e all’entrata in scena di Hunter Biden, figlio dell’allora vicepresidente americano John, in Burisma, una delle maggiori società ucraine private energetiche.
Dal Cremlino intanto Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale
In un contesto che ha visto l’Ucraina post Euromaidan commissariata con addirittura tre ministri stranieri, tra cui l’americaca Natalia Yaresko alle Finanze, il terreno di conquista si era allargato: controllata inizialmente da un oligarca vicino a Yanukovich, il suo consiglio di amministrazione è diventato dopo il cambio di governo filoccidentale a Kiev una cabina di regia proamericana dove sono finiti tra gli altri l’ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski e l’ex capo dell’antiterrorismo della Cia e vice ad di Blackwater (ora Academi) Joseph Cofer Black.
Paradossalmente, più che diventare un attore antitetico alla Russia, Burisma si è rivelata così solo il peccato originale sulla quale è scoppiato poi l’Ucrainagate che ha coinvolto Donald Trump. Ma questa è un’altra storia. Dal Cremlino intanto Putin, che con Nordstream ha infine stabilizzato il fronte occidentale, può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale, con la Cina assetata di gas, e la sfida alle risorse dell’Artico, dove per sicurezza è stata già piantata una bandiera russa.
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Russia e Germania hanno vinto la partita sul gasdotto, a discapito degli Stati centrali dell'Europa, in particolare dell'Ucraina. Mentre Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati con la Cina assetata di energia e per accaparrarsi le risorse dell'Artico.
Già in dirittura d’arrivo, si era incagliato nelle acque territoriali danesi e senza la luce verde di Copenaghen avrebbe dovuto allungare il percorso. Niente chilometri in più e altri ritardi, quindi, e così il progetto trainato dal colosso Gazprom dovrebbe chiudersi nei prossimi mesi e partire a pieno regime nel 2020.
Si tratta del raddoppio di Nordstream 1, già in funzione da quasi 10 anni, che porterà altri 55 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno direttamente in Germania. Aggirando da Nord l’Europa centrale e soprattutto l’Ucraina. Voluto con forza da Mosca e Berlino, Nordstream 2 è stato ostacolato fortemente da alcuni Stati dell’Ue, guidati dalla Polonia, e soprattutto dagli Stati Uniti, interessati a indebolire il legame energetico tra Russia ed Europa e sostituirsi almeno in parte a Mosca attraverso forniture di gas liquido proveniente da Oltreoceano.
UNA BATTAGLIA VINTA DA PUTIN E MERKEL
Se dunque è stata detta davvero l’ultima parola sui tubi della discordia, ad averla vinta sono stati in primo luogo Vladimir Putin e Angela Merkel, in questi ultimi mesi sotto pressione da Washington per lasciare incompiuto il lavoro fatto dal suo predecessore Gerhard Schröder, che all’inizio degli anni Duemila aveva detto il primo sì a Nordstream 1. A nulla sembra essere in definitiva servito il pesante lavoro di lobby americano, sia su Bruxelles che su singoli Stati europei: il Cremlino continua a essere in posizione di forza nella guerra del gas che va avanti, tra cambiamenti di scenari anche repentini, già da un paio di lustri, ma che vede come attori principali sul Vecchio continente sempre Russia e Germania. Se sul versante meridionale Mosca ha dovuto cambiare le carte, con l’abbandono di Southstream poi in parte sostituito con Blustream a fianco della Turchia, su quello settentrionale l’asse Mosca-Berlino non ha dato segni di cedimento, nonostante lacrisi ucraina e le sanzioni occidentali, europee e statunitensi, che comunque non sono andate a toccare i progetti energetici.
KIEV E LA QUESTIONE DELLA DIPENDENZA UCRAINA DAL GAS RUSSO
Anche le minacce di ritorsioni economiche verso le aziende europee, non solo tedesche, ma anche olandesi, austriache, francesi e italiane, sono andate a vuoto. Putin e Merkel possono dirsi soddisfatti, Donald Trump un po’ meno, così come polacchi e baltici, insieme con gli ucraini, i perdenti. Sarà infatti Kiev a essere la più penalizzata dal doppio Nordstream, che in sostanza la taglierà fuori dal sistema di transito, o comunque da gran parte di esso. Addio quindi a 3 miliardi di dollari all’anno e la necessità a questo punto di dover affrontare la questione della dipendenza dal gas russo, in realtà non così complicata. Negli anni passati, già prima del regime change a Kiev e la guerra nel Donbass, il braccio di ferro tra Russia e Ucraina sulle questioni energetiche è stato ampiamente strumentalizzato da entrambe le parti per ragioni geopolitiche ed economiche, quando in realtà l’Ucraina, senza troppi sforzi come dimostrato proprio negli ultimi anni, potrebbe sensibilmente diminuire l’import di gas russo per il proprio fabbisogno interno.
Gli interessi di Gapzrom e Naftogaz e degli oligarchi di riferimento, da una parte e dall’altra, hanno segnato i rapporti tra Mosca e Kiev nel settore più opaco e corrotto dell’economia di entrambi i Paesi. Yulia Tymoshenko, l’eroina della rivoluzione arancione del 2004, era stata sbattuta in galera dal presidente Victor Yanukovich nel 2011 con l’accusa di abuso di ufficio per aver firmato i contratti con Putin nel 2009, gli stessi che sono ancora in vigore fino alla fine di quest’anno e devono essere rinegoziati con la mediazione dell’Unione europea.
ORA MOSCA PUÒ APRIRE NUOVI MERCATI DEL GAS CON LA CINA
Tra battaglie legali e successi alterni davanti ai tribunali, Gazprom e Naftogaz sono di fronte a una nuova sfida sulla quale l’avvio di Nordstream pesa non poco. Il Cremlino ha anche stavolta il coltello dalla parte del manico, anche perché l’Ucraina, pur avendo ricevuto assicurazioni di massima da parte di Berlino e Bruxelles, è rimasta isolata e gli aiuti trasversali americani, non certo disinteressati, sono finiti in un disastro. Basti pensare al 2014 e all’entrata in scena di Hunter Biden, figlio dell’allora vicepresidente americano John, in Burisma, una delle maggiori società ucraine private energetiche.
Dal Cremlino intanto Putin può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale
In un contesto che ha visto l’Ucraina post Euromaidan commissariata con addirittura tre ministri stranieri, tra cui l’americaca Natalia Yaresko alle Finanze, il terreno di conquista si era allargato: controllata inizialmente da un oligarca vicino a Yanukovich, il suo consiglio di amministrazione è diventato dopo il cambio di governo filoccidentale a Kiev una cabina di regia proamericana dove sono finiti tra gli altri l’ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski e l’ex capo dell’antiterrorismo della Cia e vice ad di Blackwater (ora Academi) Joseph Cofer Black.
Paradossalmente, più che diventare un attore antitetico alla Russia, Burisma si è rivelata così solo il peccato originale sulla quale è scoppiato poi l’Ucrainagate che ha coinvolto Donald Trump. Ma questa è un’altra storia. Dal Cremlino intanto Putin, che con Nordstream ha infine stabilizzato il fronte occidentale, può tornare a occuparsi dei progetti già avviati su quello orientale, con la Cina assetata di gas, e la sfida alle risorse dell’Artico, dove per sicurezza è stata già piantata una bandiera russa.
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