Il 2020 sarà un anno pieno di incognite per il Medio Oriente

Iran, Libia, Iraq, Yemen, Egitto: molti Paesi sono in fibrillazione e vedono il ritorno del protagonismo della piazza. Ma la situazione, anche se è gravida di criticità, può aprire orizzonti di positività.

Se è vero che «il buon giorno si vede dal mattino», come recita il detto, il 2020 si prospetta gravido di incognite, non necessariamente gravide di criticità e anzi suscettibili di aprire orizzonti di positività. Non è cominciato bene per l’Iran questo 2020: ha perso un uomo che era un simbolo ma anche uno strumento di penetrazione politico-militare in Medio Oriente sotto le bandiere della rivoluzione islamica iraniana, dal Libano alla Siria all’Iraq a Gaza allo Yemen e ovunque vi fossero comunità sciite in terre a maggioranza sunnita.

Mi riferisco ovviamente a Soleimani, ucciso dal fuoco di droni acceso dal presidente degli Stati Uniti – un omicidio mirato come vengono chiamati asetticamente questi atti di guerra asimmetrici e di dubbia legittimabilità – per una serie di ragioni : di politica interna (l’attacco all’ambasciata Usa a Baghdad, l’uccisione di un combattente americano, l’impeachment) e di politica regionale (il rischio di apparire incapace di reagire a una serie di operazioni aggressive imputabili a Teheran e a suoi proxies come l’abbattimento di un drone americano, i missili sui siti petroliferi sauditi, etc.) e l’opportunità offerta del suo arrivo a Baghdad nelle vesti di un agitatore armato in casa altrui.

Mi riferisco alla clamorosa bugia degli 80 morti provocati dalla rappresaglia ordinata per dare una prima risposta all’omicidio di Soleimani messa a nudo dai servizi di diversi Paesi, in testa gli Usa naturalmente ma anche l’Iraq; bugia che non ha certo giovato all’immagine di determinazione, tempestività e forza che il regime degli Ayatollah intendeva valorizzare nel contesto regionale e oltre. Mi riferisco alle bugie usate per negare qualsivoglia responsabilità nell’abbattimento dell’aereo ucraino – con pesante bilancio di 176 vittime innocenti – e al rifiuto di consegnare la scatola nera che lo stesso regime ha dovuto in qualche modo ammettere seppure col condimento di un rinnovato attacco agli Usa.

A FEBBRAIO TEHERAN VA ALLE ELEZIONI POLITICHE

Penso che queste circostanze, al netto delle responsabilità dell’Amministrazione Trump, e non sono poche, abbiano sporcato l’immagine di un regime cui l’Europa guarda forse con un garbo non del tutto giustificato dai pur rilevanti suoi interessi economici e di sicurezza e dal rispetto della grandiosa storia di questo Paese. Immagine certo appannata sul piano internazionale. Il tutto in un contesto di grandi difficoltà interne, frutto in larga misura dal nodo scorsoio delle sanzioni Usa, che hanno provocato anche forti reazioni popolari represse nel sangue; contesti che in questi giorni si sono arricchite di sonore manifestazioni contro lo stesso Khomeini. Mentre il regime sembra incerto sul da farsi e privilegi, al momento, la logica del contenimento nella sgradevole attesa degli effetti delle nuove sanzioni di Trump. A febbraio sono previste le elezioni: saranno il primo termometro della situazione.

IN IRAQ AUMENTANO LE PROTEST ANTI USA E ANTI IRAN

L’altra incognita riguarda l’Iraq, dove un governo dimissionario fa la voce grossa con gli Usa ma fino a un certo punto visto che nel Paese e soprattutto nell’area sciita cresce la volontà di scrollarsi da dosso le influenze straniere, compresa quella iraniana oltre a quella americana, naturalmente. Le ultime mosse di Teheran non hanno favorito la sua pressione anti-americana su Baghdad e si attendono le determinazioni del presidente Barham Salih che ha rifiutato la nomina di Asaad al-Idani perché troppo ossequiente nei riguardi dei desiderata iraniani. Anche qui il Paese manifesta una diffusa aspettativa di recupero di una “identità irachena” al di là e al di sopra delle distinzioni settarie.

Un governo più rappresentativo delle principali componenti di questo Stato (sciiti, sunniti e curdi) potrebbe rimettere sui binari più costruttivi il futuro di questo Paese

Anche qui con un impressionante bilancio di vittime fra i protestatari mentre Washington non intende farsi mettere alla porta in un momento in cui il governo vigente deve cedere il passo e la minaccia del terrorismo è tutt’altro che superata. Un governo più rappresentativo delle principali componenti di questo Stato (sciiti, sunniti e curdi) potrebbe rimettere sui binari più costruttivi il futuro di questo Paese di nevralgica importanza per gli equilibri della regione e non solo per la sua ricchezza energetica. Ma sarà realistico ipotizzarlo?

LIBIA IN SUBBUGLIO E IL LAVORO PER UNA PACICAZIONE DIFFICILE

Il 2020 è iniziato in Libia con la minaccia di Haftar di sfondare nella capitale e liberarla della presenza dei terroristi, con ciò intendendo la Fratellanza musulmana, fermata dall’annuncio/ordine dl cessate il fuoco venuto da Putin ed Erdogan. Era prevedibile che questi due leader, attestati su posizioni contrapposte – Putin con Haftar (Tobruk) e Erdogan con Serraj (Tripoli) -, arrivassero a una tale intesa, evitando il rischio di un confronto militare che in realtà nessuno dei due voleva correre. Prevedibile pure che Haftar accettasse il cessate il fuoco all’ultimo giorno utile (il 12 gennaio) nell’evidente intento di marcare tutto il terreno conquistabile per poterlo capitalizzare, anche politicamente. Altrettanto prevedibile che lo stesso Haftar abbia minacciato una dura rappresaglia in caso di violazione della tregua (le poche sono apparentemente a lui addebitabili) e che Serraj abbia chiesto l’impossibile e cioè il ritiro del suo avversario che ovviamente non ne ha tenuto minimamente conto.

Intendiamoci, la tregua è la premessa per un’ipotesi di stabilizzazione-soluzione politica che è ancora lontana. È una sorta di parentesi che occorre riempire, auspicabilmente con la politica. Una politica che archivi l’esclusione proclamata da Haftar nei riguardi di una parte libica in ossequio ai suoi sponsor tra i quali stanno l’Egitto, che ha fatto della lotta contro l’Islam politico della Fratellanza musulmana la sua crociata, gli Emirati Arabi, l’Arabia saudita, la Francia, etc. e solo in parte la Russia. Una politica che escluda anche l’invadenza politica ed economica di una Turchia “ottomana”, che tra l’altro non sarebbe ben accolta neppure dai libici. Tutto ciò sullo sfondo di una sistemazione delle tessere sociali di un Paese che, prive del collante gheddafiano, sciolto nell’acido della sua uccisione nel 2011, si sono pericolosamente dissociate in assenza di un nuovo fattore collante. Mosca e Ankara, ancorché forti, non sono i risolutori veri e non tanto perché non siano affidabili quanto perché vi sono altri attori che debbono entrare nella partita. All’interno e all’esterno.

L’ITALIA DEVE RECUPERE IL SUO RUOLO IN MEDIO ORIENTE

Su questo sfondo conforta solo in parte il recupero di ruolo che l’attuale governo italiano sta tentando e che a mio giudizio non dev’essere contrastato dal tradizionale ricorso a un’autoflagellazione che rischia solo di appesantire la posta in gioco, che è politica, economica e di sicurezza. La Germania, con il vertice dell’Unione europea, è nostra importante compagna di viaggio e con l’ombrello delle Nazioni Unite sta lavorando ad una Conferenza internazionale che paradossalmente trova la sua forza proprio nella sua scelta di campo a favore della “soluzione politica”. Ma si corre ancora sul filo del rasoio.

In Medio oriente è tornato il protagonismo della piazza, pesantemente contrastato dal potere locale, ma che merita attenzione perché rappresenta una luce che l’Occidente dovrebbe sostenere

Il 2020 è iniziato anche nel segno di un nuovo protagonismo della “piazza” come si usa dire, in diversi Paesi del Medio Oriente, dall’Iraq al Libano all’Algeria e, carsicamente, anche in Egitto. Sono piazze diverse ma anche almeno tre punti in comune: la scelta della non violenza, la lotta alla corruzione e al mal governo, il recupero di un’identità nazionale liberata dal settarismo. Si tratta di un protagonismo embrionale, forse, e pesantemente contrastato dal potere locale, che merita attenzione perché rappresenta una luce che l’Occidente dovrebbe sostenere sgombrando il campo da ambigui e controproducenti paternalismi. Il 2020 si apre inoltre nell’incerta dinamica yemenita, nell’attesa delle prossime elezioni in Israele, nell’incipiente crisi governativa in Tunisia. Sarà comunque lo si voglia vedere un anno impegnativo.

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Trump sa solo destabilizzare perché è incapace di ricostruire

Il presidente Usa ha commesso l’errore di voler abbandonare un mondo, quello disegnato 70 anni fa dalla leadership americana, senza proporne un altro. Così rischia l'arroccamento degli Stati Uniti fra i due Oceani.

Una campagna elettorale sarebbe, in tempi normali, già decisa. La disoccupazione è negli Stati Uniti ai minimi storici dal 1969 anche se in un mercato assai diverso e molto più “atipico”; la Borsa è ai massimi; la crescita del Pil ha continuato con il presidente in carica una marcia avviata nel giugno del 2009, ormai da sei mesi un record storico, superiore all’espansione marzo 1991-marzo 2001 e primato assoluto di durata da quando vengono elaborati dati del genere, cioè dal 1854.

Tutto è più contenuto che in passato, la crescita cumulativa è più bassa, la disoccupazione è calata più lentamente, ma i risultati ci sono. In più, gli avversari democratici del presidente Donald Trump non hanno in campo per ora candidati particolarmente forti. Ma Trump ugualmente, pur rimanendo a tutt’oggi il favorito, non avrà una campagna scontata in partenza, anche se non è facile scalzare al voto un presidente in carica.

L’impeachment deciso dalla Camera il 18 dicembre 2019, e che probabilmente il Senato a controllo repubblicano boccerà (serve la maggioranza qualificata dei due terzi), c’entra fino a un certo punto, anche se trasformerà il voto presidenziale del prossimo 3 novembre più che mai in un referendum sull’immobiliarista newyorkese diventato campione del neonazionalismo americano.

LA POLITICA ESTERA DI TRUMP NON ESISTE

La decisione di far saltare in aria a Baghdad il 3 gennaio scorso con razzi sparati da un drone il generale delle milizie iraniane Qasem Soleimani, l’organizzatore da 20 anni della presenza armata iraniana in tutto il Medio Oriente, spiega meglio le difficoltà del presidente. Da un lato un gesto rapido e decisivo contro un ben noto nemico dell’America è piaciuto in sé alla base che ha dato a Trump nel 2016 la Casa Bianca, grazie a 77 mila voti giudiziosamente distribuiti in vari collegi di Pennsylvania, Michigan e Wisconsin e con un voto popolare nazionale inferiore a quello ottenuto da Hillary Clinton, cosa però perfettamente legittima nel sistema americano dove conta non solo il numero ma anche la geografia delle scelte popolari.

Cortei in America contro la decisione degli Usa di bombardare l’Iran.

Dall’altro però il caso Suleimani, seguito subito da un Trump minaccioso e poi dopo pochi giorni da un Trump che tende la mano all’Iran, pone allo stesso elettorato trumpiano, in genere molto contrario ad avventure internazionali e tutto concentrato sull’economia, l’immigrazione e la riaffermazione di una supremazia dell’America bianca, un chiaro quesito: che politica estera ha il presidente? Trump ha una politica elettorale, non una politica estera.

L’ATTACCO ALL’IRAN COZZA CON IL NAZIONALISMO ISOLAZIONISTA

In genere gli americani votano sulla base dell’economia e delle questioni interne, e assai meno della politica internazionale, che ha pesato solo nel voto del 1948 e del 1952, quando veniva organizzato il sistema della Guerra Fredda, e in parte quello del 1968 e 1972, quando si trattava di chiudere la malaugurata partita del Vietnam, e in parte ancora minore in quello del 1960, ancora all’ombra dello choc Sputnik (1957). Trump ha ereditato la guida della prima potenza mondiale, leader di un sistema multilaterale ormai vecchio di 70 anni ma non facilmente superabile, che va dall’economia ai commerci fino alla strategia militare di cui la residua Nato è l’esempio più chiaro ma non unico.

Trump ha sempre seguito un’altra America, a lungo ridotta al semi silenzio e disdegnata, quella dei cranks, persone con idee “strane”, poco interessate a quanto succede oltremare

Ma Trump è un immobiliarista, grosso ma neppure molto stimato, forte di una crassa ignoranza su come e perché questo sistema è stato costruito dai suoi predecessori, a partire da Franklin D. Roosevelt e, soprattutto, da Harry Truman e Dwight Eisenhower. È diffusa a Washington l’opinione che se al presidente venisse chiesto un brevissimo riassunto improvvisato su come il suo Paese ha organizzato tra il 1945 e il 1947 l’enorme potere che la Seconda guerra mondiale a la presenza dell’Urss gli concessero sbaglierebbe abbondantemente nomi, date e la gerarchia delle decisioni più importanti. Trump ha sempre seguito un’altra America, a lungo ridotta al semi silenzio e disdegnata, quella dei cranks, persone con idee “strane”, poco interessate a quanto succede oltremare se non per fare quattrini, e il cui motto è rimasto il «…the chief business of the American people is business..» dichiarato dal presidente Calvin Coolidge nel gennaio del 1925.

Proteste in turchia dopo la morte del generale iraniano Qasem Soleimani.

Coolidge aggiungeva anche che gli americani «sono profondamente interessati a comperare, vendere, investire e prosperare nel mondo», il che implica una politica estera. Ma gli “America firsters” che ancora nel 1940 volevano un Paese fuori da ogni conflitto (anche la famiglia Kennedy li appoggiava e finanziava per spirito irlandese antibritannico) a occuparsi solo dei non meglio precisati fatti propri dovettero aspettare Pearl Harbour nel dicembre 1941 per guardare in faccia la realtà. Trump viene da qui, e il resuscitato America First come noto è il suo motto, puro nazionalismo con forti tentazioni isolazioniste. Questo lo ha fatto vincere nel 2016. E con questo un drone contro Suleimani non ha molto a che fare, come mossa politica. È solo una vendetta. Ma anche questa è politica. E allora?

TRUMP DESTABILIZZA IL VECCHIO MONDO SENZA PROPORNE UNO NUOVO

I guai che Trump sta facendo come leader nazionalista di un Paese ancora molto condizionato da un multilateralismo che a lungo è stata la sua bandiera sono numerosi e gravi, sul piano commerciale e strategico. Anche Richard Nixon era un nazionalista e non esitò a gettare a mare nel ’71 quello che era forse in economia il perno del sistema, le parità monetarie di Bretton Woods, ma la sua base non erano i cranks bensì l’ala destra repubblicana da cui poi emergeranno, in parte, i neoconservatori degli Anni 90, nazionalisti ma tutt’altro che isolazionisti. Trump ha commesso l’errore di voler lasciare un mondo, quello disegnato 70 anni fa dalla leadership americana, senza proporne un altro, che non deve necessariamente abolire il precedente, ma cambiarlo in modo significativo, che non vuol dire in modo totale.

Suleimani è servito a far parlare meno di impeachment, a riaffermare la forza dell’esecutivo, a far vedere che i militari erano d’accordo

Dov’è questo mondo di Trump? Nell’alleanza con Boris Johnson e nella semi-alleanza con Vladimir Putin, nemico-amico. E nei suoi tweet, nell’insofferenza per i collaboratori più stretti, con la girandola di ministri e altri con rango ministeriale più ampia, in tre anni, rispetto a tutti i predecessori da Nixon in poi, persone uscite in gran parte perché impossibilitati a collaborare a una strategia che non c’è. L’uccisione di Suleimani che cosa vuol dire, più o meno Medio Oriente per gli Stati Uniti? Suleimani è servito a far parlare meno di impeachment, a riaffermare la forza dell’esecutivo, a far vedere che i militari erano d’accordo (ma invocano a gran voce una politica più coerente, o meglio una politica tout court).

Il presidente Usa Donald Trump.

Trump è stato definito da vari commentatori americani un geopolitical destabilizer. Uno che cambia il vecchio senza però saper proporre un nuovo che non sia un impossibile, almeno oggi, arroccamento dell’America fra i due Oceani. Del resto Johnson e mezza Gran Bretagna pensano sia possibile un arroccamento con la protezione della Manica. Far fuori un avversario è in sé cosa gradita a tutti i cranks d’America, ma bisogna vedere poi le conseguenze, e queste non sono chiare. Neppure sulle prospettive elettorali, che certamente hanno pesato sulla scelta di mandare due droni a far fuori il patron delle operazioni speciali dei rivoluzionari islamici iraniani.

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Ma quale Soleimani, la minaccia globale è il dittatore Trump

La scusa del rischio imminente di attentati terroristici per giustificare l'uccisione del generale iraniano non regge: il pericolo per il mondo è solo The Donald. E persino alcuni repubblicani, scavalcati come tutto il Congresso Usa, se ne stanno accorgendo.

Mentre Meghan e Harry si “licenziano” dalla Corona britannica, il presidente Donald Trump sogna di essere dittatore assoluto, e decide, senza consultare il Congresso, e cioè come un dittatore qualsiasi, di trucidare Qassem Soleimani. Non era certo uno stinco di santo, il generale Soleimani, anzi: per quanto fosse la seconda persona più importante in Iran, rispettato e considerato un eroe dal regime, era a capo della Quds Force, un gruppo all’interno dei Pasdaran, il corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica in Iran responsabile di molti attacchi terroristici nel mondo. E nelle ultime settimane, dopo l’attacco alla base militare e l’assalto dell’ambasciata americana a Bagdad, Trump si è fatto prendere dal panico.

GIUSTIFICAZIONI DIFFICILMENTE CREDIBILI

Ha giustificato la sua azione di guerra dicendo che i Servizi segreti gli avevano annunciato che Soleimani era diventato una minaccia imminente agli Stati Uniti, scusa che in molti, fra politici e cittadini, fanno fatica a credere. In realtà pare che il generale fosse arrivato in Iraq per incontrarsi con il presidente iracheno per discutere delle trattative tra l’Iran e l’Arabia Saudita. Pare che ci sia stato un altro attacco, quella stessa notte, per ammazzare Abdul Reza Shahlai, un alto ufficiale iraniano che si trovava in Yemen, ma pare che l’attentato non abbia avuto successo.

ENORMI PREOCCUPAZIONI ANCHE A WASHINGTON

Tutto questo, per ora, sembra avere poco a che fare con una minaccia imminente. Molto a che fare (ma questa è la mia opinione) con tutto quel disastro riguardo l’impeachment e la voglia di far parlare d’altro, possibilmente migliorando le possibilità di vittoria per un secondo mandato nel 2020. Ma chi sono io per giudicare? Una cosa è chiara: la minaccia imminente più pericolosa, per ora, rimane il presidente Trump. Le azioni militari contro l’Iran hanno suscitato enormi preoccupazioni, sia a livello internazionale sia a Washington. Malgrado Trump desideri essere l’unico ad avere il potere di attaccare a destra e a manca chi lo spaventa, negli Stati Uniti non funziona (ancora) così: ogni azione bellica deve essere prima discussa al Congresso e al Senato e deve essere approvata dalla maggioranza. Cosa che non è successa: dopo l’assassinio del generale Soleimani, un rappresentante della Casa Bianca ha indetto una riunione al Senato (che è per la maggior parte in mano repubblicana) per giustificare l’azione di Trump.

PERSINO PER QUALCHE REPUBBLICANO È STATO ABUSO DI POTERE

Se per alcuni repubblicani questo è bastato per appoggiare il presidente, per alcuni di loro, compresi i senatori Rand Paul (Kentucky) e Mike Lee (Utah), è stato commesso un grave errore, un abuso di potere. Mike Lee ha rilasciato questa dichiarazione: «La riunione con il rappresentante della Casa Bianca è stata la peggiore degli ultimi nove anni che sono al Senato, soprattutto riguardo questioni militari. Conoscendo la nostra storia, fare una consultazione non è la stessa cosa che ricevere un’autorizzazione a procedere usando la forza militare. Una notifica o una patetica riunione fatta dopo che il fatto è accaduto non sono adeguate alla circostanza».

I DEMOCRATICI PROVANO A LIMITARLO

La Camera dei rappresentanti, in mano ai democratici, ha votato giovedì mattina di limitare il potere di dichiarare guerra al presidente. Oltre alla stragrande maggioranza dei voti dei democratici, anche qualche repubblicano ha ammesso che il presidente Trump questa volta l’ha fatta davvero grossa. In risposta agli attacchi degli Stati Uniti in Iraq e i Yemen, gli iraniani hanno bombardato due basi militari americane, senza causare nessuna vittima, forse per fare in modo che la situazione non degeneri in una vera guerra, che nessuno vuole.

GIOCHI A GOLF E LASCI AD ALTRI GLI EQUILIBRI GLOBALI

Speriamo che Trump non decida di prendere altre iniziative senza consultare il Congresso, perché a questo punto la situazione mondiale potrebbe diventare davvero preoccupante. Speriamo che si impegni di più a giocare a golf e che lasci a chi ne sa di più il compito di mantenere l’equilibrio di pace globale intatto.

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L’Iran ha ammesso di aver abbattuto l’aereo ucraino

Il velivolo è stato scambiato per errore per un bersaglio nemico dal sistema di difesa, che era in allerta dopo l'attacco alle basi americane in Iraq. E Zarif incolpa «l'avventurismo» degli Stati Uniti.

Quattro giorno dopo la strage che ha portato alla morte di 176 persone, l’Iran ha ammesso di aver abbattuto per errore l’aereo dell’Ukraine Interntational Airlines decollato da Teheran poche ore dopo l’attacco alle basi americane in Iraq.

«La Repubblica islamica dell’Iran si rammarica profondamente per questo errore disastroso», ha detto il presidente Hassan Rouhani, «le indagini proseguiranno per identificare e perseguire» i responsabili di «questo sbaglio imperdonabile».

Le forze armate iraniane hanno spiegato che il Boeing è stato «erroneamente» e «involontariamente» preso di mira dalla contraerea, che lo ha scambiato per un «velivolo ostile». Il sistema di difesa era in allerta per contrastare ogni possibile ritorsione degli americani dopo l’attacco alle basi militari in Iraq. E il Boeing è stato erroneamente identificato come un bersaglio nemico.

MA ZARIF INCOLPA «L’AVVENTURISMO» DEGLI STATI UNITI

Sebbene Teheran abbia riconosciuto la propria responsabilità, il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha tuttavia affermato che «l’errore» è avvenuto in un «momento di crisi causato dall’avventurismo degli Stati Uniti».

TRUDEAU CHIEDE GIUSTIZIA PER LE VITTIME

Il premier canadese, Justin Trudeau, ha chiesto «trasparenza e giustizia» per le vittime, ricordando che 63 vittime erano canadesi, molti con doppia nazionalità iraniana.

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Usa: annunciate nuove sanzioni all’Iran dopo l’attacco missilistico

Le misure colpiscono vari settori, tra cui il manifatturiero, il tessile, il minerario, nonché otto dirigenti ritenuti coinvolti nell'attacco. Trump: «Teheran è il principale sponsor mondiale del terrorismo».

Continuano le rappresaglie tra Teheran e Washington. Il 10 gennaio 2020, è infatti arrivata la risposta Usa all’attacco iraniano alle due basi statunitensi in Iraq. Il segretario al Tesoro Steve Mnuchin e il segretario di Stato Mike Pompeo hanno annunciato in una conferenza stampa alla Casa Bianca nuove sanzioni contro Teheran. Le misure colpiscono vari settori, tra cui il manifatturiero, il tessile, il minerario (acciaio e alluminio in particolare), nonché otto dirigenti ritenuti coinvolti nell’attacco. Tra questi ci sono il segretario del Consiglio supremo di sicurezza iraniano Ali Shamkhani e il comandante della milizia Basij Gholamreza Soleimani.

TRUMP: «LE SANZIONI RESTERANNO FINCHÉ L’IRAN NON CAMBIERÀ ATTEGGIAMENTO»

Secondo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, le nuove sanzioni «avranno un enorme impatto sull’economia dell’Iran» e taglieranno «sostanziali entrate che potrebbero essere usate per sostenere lo sviluppo del programma nucleare e missilistico, il terrorismo e i gruppi terroristici nella regione». Trump ha sottolineato come il regime di Teheran sia «responsabile per gli attacchi contro il personale e gli interessi degli Stati Uniti» e resti «il principale sponsor mondiale del terrorismo». Il presidente ha anche detto che «le sanzioni economiche all’Iran resteranno finché il regime non cambierà atteggiamento. E gli Stati Uniti sono pronti ad abbracciare la pace con tutti coloro che la cercano».

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Le mosse di Putin in Libia e Iran

Dopo essere volato in Siria e in Turchia, il presidente russo ha incontrato Merkel e si prepara a ospitare a Mosca l'incontro tra Haftar e al Serraj. Un iper-attivismo che condivide con Erdogan, nonostante siano spesso su fronti contrapposti. E che è convinto di poter esercitare anche con Teheran.

Dopo aver portato a casa con l’incontro con Recep Tayyip Erdogan il cessate il fuoco in Libia in cambio al non casuale via operativo al gasdotto russo-turco TurkStream, e aver visto Angela Merkel e il suo ministro tedesco degli Esteri Heiko Maas, ora Vladimir Putin si appresta a ospitare a Mosca Khalifa Haftar e Fayez al-Serraj per firmare i termini della tregua.

LO ZAR IN SIRIA POI A ISTANBUL

L’agenda di inizio 2020 del presidente russo è stata fitta: prima dell’incontro con Merkel, il 7 gennaio era volato a sorpresa in Siria, a parlare con il presidente Bashar al Assad, alleato del regime filo-iraniano. L’indomani aveva poi raggiunto Istanbul per mediare con l’omologo turco una spartizione della Libia, sulla falsariga di quanto concordato sulla Siria. Il prezzo dei negoziati politici attraverso l’hub del Cremlino è sempre economico e militare: un’arma di ricatto che i diplomatici degli altri governi e dell’Onu non hanno con gli interlocutori. Perciò sulla Libia come per il conflitto siriano, Erdogan e Putin si sono trovati immediatamente d’accordo, nonostante armino da tempo fronti contrapposti.

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Erdogan e Putin.

IL PATTO LIBICO TRA ERDOGAN E PUTIN

Per attenuare l’appoggio degli islamisti di Tripoli e di Misurata, sotto il cartello della Fratellanza musulmana, il leader turco chiede la garanzia di conservare e allargare l’influenza neo-ottomana in Libia su una fetta accettabile di territori, almeno nella Tripolitania. E, quel che più conta, di bloccare il gasdotto concorrente EastMed con il TurkStream per portare gas russo all’Europa dalla Turchia.

LEGGI ANCHE: Iran e Libia, perché l’Italia rischia la crisi energetica

L’altra pipeline è concepita per far arrivare il gas in Europa (attraverso Grecia e Cipro) dai nuovi giacimenti offshore israeliani. Una parte di mare ricca di risorse inesplorate dove, più a Ovest, opera anche Eni con concessioni di Cipro. E, più a Sud, nel maxi giacimento egiziano di Zohr.

LA CORSA TURCA AL GAS OFFSHORE

Più che qualche pozzo in Libia, il colpo azzardato da Erdogan è sfilare il gas offshore nel Mediterraneo al blocco avversario che arma il generale libico Khalifa Haftar. Arrivato all’offensiva finale contro il governo di Tripoli, Haftar ha dalla sua parte l’aviazione dell’Egitto e degli Emirati Arabi, finanziati dall’Arabia Saudita. Ma da qualche anno è anche la Russia a far avanzare l’ex comandante gheddafiano, sia con materiale bellico sia con mercenari russi della Wagner Group. Certo non prenderà bene una spartizione turco-russa della Libia, ma Haftar dipende anche dalle armi del Cremlino. E a lungo termine il metano dalla Turchia all’Ue vale più delle commesse di armi.

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Vladimir Putin e Hassan Rohani, presidenti di Russia e Iran.

IL POTERE DELLE ARMI DI RUSSIA E TURCHIA

Il potere militare di Putin e di Erdogan in Libia ha reso ininfluenti i summit con Haftar di Giuseppe Conte. Di conseguenza il premier rivale di Tripoli Fayez al-Serraj lo ha disertato. Anche Erdogan, in sfida alla Nato, negli ultimi anni è diventato un acquirente dei sistemi antimissili e di altri armamenti dalla Russia. Ma più in generale Turchia, Russia e Iran sono storici partner commerciali ed economici: non a caso, Putin ed Erdogan si sono ricompattati anche nel condannare lo strike di Donald Trump contro Qassem Soleimani. Ben più di Ankara, Teheran è un alleato dell’asse dei non allineati capeggiato da Mosca. Ma paradossalmente per Putin sarà più dura incidere sulla crisi con l’Iran.

LA DIFFICILE MEDIAZIONE CON L’IRAN

La Repubblica islamica si espande militarmente in Medio Oriente in modo autonomo dal Cremlino, attraverso le forze d’élite all’estero (al Quds) dei Guardiani della rivoluzione che erano guidate da Soleimani. Propaga nella regione un sistema religioso radicalmente diverso dal modello culturale russo. Il punto di contatto con Putin è l’autoritarismo. Quello di distacco un orgoglioso nazionalismo. L’ateismo russo è da sempre profondamente contestato dagli ayatollah sciiti, gelosi della loro sovranità. Ma Putin è convinto di avere margini di mediazione anche con Teheran, mantenendo aperto il canale dell’Iran con l’Ue che vuole evitare l’uscita annunciata dall’accordo internazionale sul nucleare del 2015.

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«Il Boeing ucraino abbattuto per errore da un missile»

Lo riferisce Newsweek citando fonti del Pentagono e delle intelligence Usa e irachena.

Il Boeing dell’Ukrainian Airlines precipitato durante la fase di decollo dall’aeroporto di Teheran causando la morte di 176 persone l’8 gennaio, sarebbe stato abbattuto per errore da un missile anti-aereo iraniano. Lo scrive Newsweek che cita tre fonti: una del Pentagono, una dell’intelligence Usa e un’altra dell’intelligence irachena.

LEGGI ANCHE: Perché l’attacco alle basi Usa può soddisfare sia Teheran sia Washington

Secondo le fonti citate, l’aereo sarebbe stato colpito da un missile terra-aria Tor M-1, di fabbricazione russa, noto come Gauntlet presso la Nato. La batteria anti-aerea iraniana sarebbe stata attiva contro possibili risposte ai raid compiuti contro due basi americane in Iraq seguiti all’uccisione da parte di un drone Usa del generale iraniano Qassem Soleimani.

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I resti dell’aereo ucraino caduto a Teheran. (Ansa)

«Qualcuno potrebbe aver commesso un errore», ha commentato il presidente Usa Donald Trump. «Ho un mio sospetto su quanto accaduto», ha aggiunto il tycoon sulle indiscrezioni stampa che puntano il dito sul sistema anti-missilistico di Teheran escludendo problemi tecnici del Boeing 737 precipitato.

LEGGI ANCHE: Cosa non torna nel caso dell’aereo ucraino caduto a Teheran

In mattinata, il team di esperti ucraini che indaga sul disastro aveva incontrato a Teheran le autorità dell’aviazione civile iraniana, che continuano a ritenere che il velivolo sia precipitato a seguito di un problema tecnico. La Repubblica islamica ha invitato a partecipare all’inchiesta anche il Canada e la Svezia che nella tragedia hanno avuto rispettivamente 63 e 10 morti.

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Gli Usa pronti ai negoziati con l’Iran

L'ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft ha scritto lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell'Onu per scongiurare l'escalation.

Gli Stati Uniti sono «pronti a impegnarsi senza precondizioni in seri negoziati» con l’Iran: lo afferma, secondo quanto riporta la Bbc online, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kelly Craft in una lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’obiettivo degli Usa, ha sottolineato Craft, è «prevenire ulteriori rischi per la pace e la sicurezza internazionali o l’escalation da parte del regime iraniano».

LA CAMERA IMPEDISCE LA GUERRA A TEHERAN

Già l’8 gennaio il rischio escalation è sembrato rientrare. L’attacco missilistico di Teheran contro due basi americane in Iraq in risposta all’uccisione di Solemaini non fa vittime. Trump ha ribadito che “tutte le opzioni restano sul tavolo”, ma per ora ha annunciato solo nuove sanzioni
contro gli interessi iraniani. Il 9 gennaio comunque la Camera americana
vota un progetto di legge per impedire al presidente Usa di fare la guerra a Teheran.

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Iran e Libia, perché l’Italia rischia la crisi energetica

Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei..

Nel 2019 l’Iraq è stato il primo fornitore di petrolio dell’Italia (circa 12 milioni di tonnellate pari al 20% dei nostri consumi). Al contrario degli americani che con il fracking, il petrolio dal gas scisto delle rocce, stanno estraendo olio nero negli Usa, gli italiani dipendono quasi totalmente dalle importazioni straniere di greggio. La fragilità dell’Italia negli attacchi tra l’Iran e gli Stati Uniti, e nella contemporanea escalation della guerra in Libia, è prima di tutto nelle conseguenze economiche che una crisi petrolifera come quelle degli Anni 70 avrebbe sul Paese a un passo dalla recessione. Dallo strike degli Usa contro il generale iraniano Qassem Soleimani, le Borse sono in calo e il prezzo del greggio è volato sopra 70 dollari al barile. La pioggia di razzi iraniani in Iraq dell’8 gennaio, in rappresaglia, ha provocato una nuova impennata.

DIPENDENTI USA VIA DAI GIACIMENTI IN IRAQ

Dopo le basi militari, i siti petroliferi degli americani in Iraq – dove c’è anche l’Eni a Zubair, vicino a Bassora – e negli altri Stati del Golfo sono i primi target degli attacchi di Teheran. Un assaggio in questo senso è stato il raid messo a segno nel settembre scorso dagli iraniani agli impianti petroliferi più grandi al mondo, in Arabia Saudita. La regia dell’attacco con droni dall’Iran o dallo Yemen, che bloccò il 6% della produzione petrolifera globale mostrando la vulnerabilità di Raid, fu con ogni probabilità del generale Soleimani, da più di 20 anni a capo delle forze d’élite all’estero (al Quds) dei pasdaran. Dopo il suo omicidio mirato del 3 gennaio, le major americane hanno imbarcato i connazionali impiegati nei campi estrattivi del Sud dell’Iraq e del Kurdistan iracheno su voli verso gli Emirati e il Qatar, ha confermato il ministero del Petrolio di Baghdad.

Iran Libia crisi petrolio Putin Erdogan
Il presidente russo Vladimir Putin e l’omologo turco President Recep Tayyip Erdogan discutono di Libia, Iran… e petrolio. GETTY.

LA MINACCIA DEL BLOCCO DELLO STRETTO DI HORMUZ

I mercati sono in fibrillazione anche per la minaccia iraniana, mai così concreta, di bloccare alle petroliere lo Stretto di Hormuz, controllato dai pasdaran, nel Golfo persico. Dalla più importante arteria di transito globale del greggio passa un terzo dell’export totale del petrolio via mare (il 29% verso l’Italia), da tutti i Paesi del Golfo esclusi lo Yemen e l’Oman; e anche tutto il gas naturale liquefatto del Qatar. La possibilità di una crisi energetica per l’Italia è aggravata dalla guerra in Libia diventata aperta tra potenze straniere. Forze rivali libiche e rinforzi arrivati dalla Turchia da una parte e da russi, emiratini ed egiziani dall’altra si dirigono verso la battaglia finale di Tripoli. In Libia gli introiti dell’export del greggio, redistribuite dalla Compagnia nazionale del petrolio (Noc) e dalla Banca centrale libica a tutte le fazioni in campo, sono il carburante del conflitto.

L’uscita o un’estromissione del Cane a quattro zampe dalla Libia è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.

LO STOP DEL GREGGIO DA IRAN E VENEZUELA

Come in Iraq, i vertici delle compagnie rassicurano che le estrazioni proseguono ai livelli invariati del 2019 «attraverso il personale locale». In Libia, a dicembre la produzione nazionale di greggio era arrivata al massimo (1,25 milioni di barili al giorno) da sette anni. Cioè dalla precedente escalation tra il 2013 e il 2014 che sfociò nella battaglia all’aeroporto di Tripoli. Le turbolenze concomitanti in Nord Africa e in Medio Oriente cadono durante un import-export del greggio già rallentato da mesi per le sanzioni massime di Trump all’Iran e dall’embargo totale al Venezuela, maggiore riserva mondiale di petrolio. Se dal 2018 Eni e le altre compagnie occidentali sono uscite dai contratti di esplorazione e di sfruttamento appena avviati con Teheran, dopo l’accordo sul nucleare, in Libia l’uscita o un’estromissione del Cane a sei zampe è assai improbabile. Anche nel caso di una spartizione tra Russia e Turchia.

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Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’omologo greco Kyriakos Mitsotakis discutono del gasdotto EastMed. GETTY.

L’ACCORDO TURCO-LIBICO PER SPARTIRSI IL MEDITERRANEO

Eni è la prima e storica compagnia straniera a essere entrata ell’ex colonia italiana, negli Anni 50. Un partner strategico consolidato, sopravvissuto nell’Est all’avanzata del generale filorusso Khalifa Haftar e ben impiantato nella Tripoli islamista, sostenuta da anni dalla Turchia e dal Qatar. Con il Noc gestisce il complesso di raffineria di petrolio e gas a Mellitah, terminal del greenstream che porta il gas libico verso l’Italia, i contratti con le società petrolifere durano decenni, e parte del gas di Eni serve le centrali elettriche dei libici. In compenso gli italiani rischiano molto nella corsa alle riserve di gas nel Mediterraneo orientale. Con un colpo di spugna, a novembre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha stretto un accordo bilaterale e arbitrario con la Libia sulla giurisdizione delle acque che spacca in due il mare nostrum, violando il diritto marittimo internazionale.

La disputa sul gas si concentra soprattutto sulle riserve attorno all’isola di Cipro contesa dalla Turchia

TURCHIA CONTRO ITALIANI E FRANCESI A CIPRO

In cambio di armi e rinforzi a terra a Tripoli e Misurata, Erdogan intende accaparrarsi i giacimenti al largo della Grecia e di Cipro, nelle acque dell’Egitto dove l’Eni ha scoperto e sfrutta il grande campo offshore di Zohr, e più a Est in quelle del Leviathan a Sud di Israele. La disputa (anche di altre major straniere) si concentra soprattutto sulle riserve attorno al piccolo Stato dell’Ue conteso dalla Turchia: a ottobre Ankara aveva alzato il livello dello scontro, inviando una nave da trivellazione proprio in un blocco esplorativo affidato da Nicosia a Eni e alla francese Total. Un’entrata a gamba tesa anche nel progetto EastMed – la pipeline concorrente alla russo-turca TurkStream – che passando per Creta dovrebbe portare il gas in Europa. Non a caso, con l’Egitto l’Ue, Italia in testa, ha dichiarato illegittimo l’accordo marittimo turco-libico. Ma mentre l’Ue parla, Erdogan agisce.

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In Iraq lanci di razzi nella zona delle ambasciate

Sono caduti nella Green zone della capitale Baghdad, l'area dove si trovano le ambasciate straniere tra cui quella americana.

Due razzi sono caduti sulla Green Zone di Baghdad, dove hanno sede diverse ambasciate tra cui quella americana. Lo rendono noto fonti della sicurezza. L’attacco è avvenuto quasi 24 ore dopo che Teheran ha lanciato missili nelle basi irachene che ospitano forze di coalizione americane, in risposta all’uccisione da parte degli Stati Uniti di Qasem Soleimani. Sono razzi Katyusha quelli caduti nella Zona Verde a Baghdad e, secondo quanto riferito dal Washington Post che cita le forze di sicurezza irachene, non ci sarebbero vittime. Secondo alcune fonti sarebbero tre i razzi che hanno colpito la capitale irachena.

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