L'agenzia ha sottolineato i progressi delle nostre banche. Ritiene però che sia improbabile una durata del governo fino al 2023.
Rating confermato. L’agenzia Dbrs ha ribadito il giudizio BBB (high) dell’Italia con «trend stabile». Una decisione che «riflette i progressi delle banche italiane nel migliorare la qualità del credito e la moderata strategia di bilancio del governo per i mitigare i rischi alla sostenibilità del debito», ha affermato Dbrs in una nota.
DISINCENTIVI ALLA ROTTURA: POST MATTARELLA E LEGA IN SALITA
Il problema è che secondo la stessa agenzia di rating «è improbabile che l’attuale governo» resti in carica per «l’intero mandato fino al 2023, ma le elezioni del presidente della Repubblica nel 2022 e la forza della Lega nei sondaggi potrebbero rappresentare due importanti disincentivi» per i partiti al governo che vorrebbero mandare all’aria l’alleanza giallorossa. Dbrs ha aggiunto che «nonostante il nuovo governo, l’incertezza politica resta una preoccupazione e pesa sul rating».
INVESTITORI SUL CHI VA LÀ
Intanto il debito italiano è tornato a scendere per il secondo mese consecutivo, a fronte di un calo della liquidità nella cassa del Tesoro. Ma l’inflazione è ai minimi di tre anni e lo spread resta vicino ai massimi di tre mesi, pur rientrando dalla fiammata del 14 novembre: segno che l’approssimarsi di fine anno e i segnali d’instabilità politica tengono gli investitori sul chi va là.
LAGARDE NON POTRÀ FARE MOLTO
In più la Banca centrale europea (Bce) di Christine Lagarde non potrà andare molto oltre quanto già fatto dal suo predecessore Mario Draghi. Da qui in poi, la palla passa ai governi. E Berlino, schivata la recessione, ha già fatto sapere che non lancerà uno stimolo di bilancio in grado di fare da “game-changer”.
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Scontro fra azienda e governo. Per l'ad Morselli senza immunità penale «proseguire nel piano di risanamento dell'Ilva è un crimine». Conte: «Pagheranno». I lavoratori pronti all'insubordinazione contro lo spegnimento. E la procura di Milano indaga. Il punto sul futuro di Taranto.
L’Ilva è sempre più un intreccio di questioni giuridiche e politiche. Mentre la soluzione effettiva per il futuro di Taranto resta ancora un rebus. I protagonisti dello scontro sono sempre gli stessi e si sono trovati faccia a faccia a un tavolo al ministero dello Sviluppo economico. In quella sede Lucia Morselli, l’amministratrice delegata di ArcelorMittal Italia, è stata lapidaria, gelando i sindacati: ha sottolineato la «coerenza» del percorso che porta alla rescissione del contratto e alla “restituzione” dell’Ilva dal 4 dicembre 2019. L’argomento su cui fare leva è l’ormai “famigerato” stop allo scudo penale che ora impedirebbe di portare avanti il piano di risanamento ambientale per l’acciaieria senza incappare in «un crimine».
PER I COMMISSARI LO SCUDO PENALE NON È NEL CONTRATTO
Il problema è che nel ricorso cautelare presentato al tribunale di Milano dai legali dei commissari del polo siderurgico si sostiene che non c’è alcuna garanzia della continuità dello “scudo penale” nel contratto di affitto ad ArcelorMittal.
I SINDACATI NON ESCLUDONO L’INSUBORDINAZIONE
I sindacati sono arrivati a non escludere «un’insubordinazione dei lavoratori» per non spegnere gli altiforni, come ha detto il leader della Uilm. Intanto il premier Giuseppe Conte ha attaccato: Mittal pagherà i danni. La procura di Milano, in contemporanea, ha acceso un faro aprendo un fascicolo esplorativo e scendendo in campo a difesa degli interessi pubblici anche nel giudizio civile (che dovrà decidere sul ricorso di ArcelorMittal per il recesso e sul controricorso presentato dagli amministratori straordinari dell’ex Ilva).
Violazione degli impegni contrattuali e grave danno all’economia nazionale: ne risponderanno in sede giudiziaria
Il premier Conte contro ArcelorMittal
Conte ha commentato così: «Ben venga anche l’iniziativa della procura, il governo non lascerà che si possa deliberatamente perseguire lo spegnimento degli altiforni». E ancora: «ArcelorMittal si sta assumendo una grandissima responsabilità», perché lasciare l’ex Ilva «prefigura una chiara violazione degli impegni contrattuali e un grave danno all’economia nazionale. Di questo ne risponderà in sede giudiziaria», anche in termini di «risarcimento danni», ha avvertito il presidente del Consiglio.
MORSELLI AGGRAPPATA AL NODO DELL’IMMUNITÀ
ArcelorMittal ovviamente la pensa diversamente. Morselli sostiene che levando l’immunità «non sono stati rispettati i termini del contratto», come è anche per le prescrizioni della magistratura sull’altoforno Afo2: «Non era stato fatto niente» di quanto detto al momento dell’accordo. La sintesi è che se al momento del contratto erano state create le condizioni per una missione impossibile, da «bacchetta magica», oggi per l’azienda quelle condizioni non ci sono più.
ESUBERI E PRODUZIONE RESTANO IN SECONDO PIANO
Lasciando il tavolo il ministro Stefano Patuanelli ha sottolineato come la Morselli abbia puntato tutto sul nodo dell’immunità penale, politicamente il meno gestibile tra le diverse anime del governo, lasciando invece in secondo piano il tema del rallentamento del mercato (e quindi di frenare la produzione e gestire esuberi) su cui «fin da settembre c’era una disponibilità del governo» ad accompagnare un percorso.
SINDACATI NON SODDISFATTI
I toni del dibattito politico restano accesi e i sindacati mantengono la linea. Sostengono che ArcelorMittal non può esercitare un diritto di recesso, che il contratto va rispettato, ma che anche il governo deve rispettare i patti alla base di quell’accordo: «Per nulla soddisfatti» di un confronto «non andato bene» si sono detti i leader della Cgil Maurizio Landini, della Cisl Annamaria Furlan e della Uil Carmelo Barbagallo, che hanno lasciato il ministero chiedendo «l’avvio di un tavolo con la proprietà per trovare soluzioni», ma anche al governo di uscire dall’impasse: deve «ripristinare lo scudo penale per togliere l’alibi ad ArcelorMittal».
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Il presidente ha attaccato su Twitter l'ex ambasciatrice Usa a Kiev proprio mentre lei stava testimoniando alla commissione per l'impeachment.
Un venerdì nero per Donald Trump. Una delle peggiori giornate da quando è arrivato alla Casa Bianca, tradito soprattutto dalla sua arma finora più potente ed efficace: Twitter. Il suo attacco all’ex ambasciatrice Usa a Kiev Marie Yovanovitch («Ha fatto male ovunque è andata») è stato postato mentre la diplomatica stava testimoniando in diretta tv, provocando una bufera che rischia di diventare per il tycoon un vero e proprio boomerang.
«L’INTIMIDAZIONE DI UN TESTIMONE È UN REATO»
«L’intimidazione di un testimone, e per di più in tempo reale, è un reato. Ed è una minaccia rivolta a tutti coloro che vogliono farsi avanti», ha tuonato di fronte alle telecamere Adam Schiff, il presidente della commissione Intelligence della Camera che coordina le indagini sul possibile impeachment, assicurando che il comportamento del presidente sarà preso «in serissima considerazione» quando si dovranno riempire gli articoli per la messa in stato di accusa. Ma ci sono altre due tegole cadute nelle ultime ore sulla testa del tycoon, che sente sempre di più il fiato sul collo. La prima è la notizia che il suo avvocato personale, Rudy Giuliani, è indagato a NewYork nell’ambito dell’Ucrainagate, con le possibili accuse che vanno dalla violazione delle regole sui finanziamenti elettorali all’azione illegale di lobby in Paesi stranieri, passando per il reato di cospirazione e per quello di corruzione di funzionari, anche stranieri.
LA CONDANNA DELL’EX RESPONSABILE DELLA CAMPAGNA ELETTORALE
La seconda mazzata in poche ore per Trump è la dichiarazione di colpevolezza di Roger Stone, ex responsabile della sua campagna elettorale e amico di vecchia data, in uno dei filoni dell’inchiesta sul Russiagate. Anche in questo caso le accuse sono pesantissime: ostruzione della giustizia nell’ambito delle indagini sulle interferenze russe nel voto del 2016 e aver mentito al Congresso sui contatti con WikiLeaks per ottenere, sempre nel 2016, materiale compromettente contro i rivali di Trump. Insomma, il cerchio si stringe sempre più attorno al presidente Ma ciò che nelle ultime ore lo ha fatto maggiormente infuriare sono proprio le parole in diretta tv dell’ex ambasciatrice americana a Kiev, che ha raccontato come si sia sentita minacciata da Trump che, parlando con il leader ucraino Voldymyr Zelensky nella famigerata telefonata del 24 luglio scorso, la descrisse come una “bad news”, assicurando che presto sarebbe stata cacciata.
L’AMBASCIATRICE: «NON DAVO LORO QUELLO CHE VOLEVANO»
«Nel leggere la trascrizione della telefonata ero scioccata, sconcertata, devastata. Fu terribile sentire che il presidente degli Stati Uniti aveva perso la fiducia in me. E non mi fu data alcuna spiegazione sul perché venivo mandata via», ha spiegato la diplomatica in una delle fasi più drammatiche della testimonianza. Ricordando anche la campagna diffamatoria messa in piedi contro di lei da Giuliani e i suoi soci: «Capirono che era facile rimuovere un’ambasciatrice che non dava loro quello che volevano per interessi che ritengo loschi». È proprio durante questo passaggio che Trump ha sparato i due tweet che ora rischiano di comprometterlo. Lo sdegno intanto è bipartisan.
INTERVENTO A GAMBA TESA SENZA PRECEDENTI
Mai si era vista una cosa simile, un presidente che interviene per denigrare e diffamare un alto funzionario dello Stato mentre sta deponendo in Congresso. Un’uscita che potrebbe costare molto cara, sottolinea anche la Fox. Mentre passano in secondo piano le mosse orchestrate nelle ultime ore della Casa Bianca: il ricorso alla Corte Suprema per impedire che le dichiarazioni dei redditi degli ultimi otto anni del tycoon, quelle personali e delle sue aziende, vengano consegnate ai procuratori di Manhattan; la pubblicazione della trascrizione della prima telefonata con Zelensky. In quest’ultima, dello scorso aprile, non emergono pressioni da parte del tycoon che invece, nel complimentarsi per la vittoria elettorale di Zelensky, ricorda quando era proprietario di Miss Universo: «Eravate sempre ben rappresentati…», scherza, provocando la risata di Zelensky.
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La neo presidente Añez promette nuove elezioni. Ma intanto giura sulla Bibbia, estromette gli indios e si circonda di falangisti come il "Bolsonaro di La Paz", Camacho. La società è spaccata, mentre c'è chi parla di colpo di Stato. Il punto.
L’autoproclamata presidente ad interimJeanine Añez, ex vice senatrice dell’opposizione, afferma di voler essere uno «strumento di inclusione e di unità» per la Bolivia. Formalmente non è un’usurpatrice: ha assunto il ruolo in linea di successione, dopo lafuga in Messico di Evo Morales, e dopo le rinunce del vice di Morales, dei presidenti di Camera e Senato e dell’altro numero due del Senato. Ma nel gabinetto di transizione non ha incluso gli indios che sono tra il 40% e il 50% della popolazione, il 70% nelle zone rurali e più povere. Añez ha anche giurato sui Vangeli, commentando che la «Bibbia torna a Palazzo» e che il «potere è Dio». Nonostante dal 2006 al 2008 la medesima avesse fatto parte della Costituente voluta da Morales – primo presidente indigeno della Bolivia – che rese laica la Costituzione e diede più autonomia agli indigeni diseredati. Colmando così un vuoto di potere, la Bolivia si destabilizza ancora.
Gli indios di Bolivia dalla parte di Morales. (Getty).
L’ÉLITE RAZZISTA DI SANTA CRUZ
Migliaia di indios protestano a La Paz in difesa dei diritti conquistati, pronti alla «guerra civile». Añez è una 52enne potente ed emancipata: avvocato, divorziata, è stata anche dirigente. Ha condotto campagne contro la violenza di genere ed ecologista, ma appartiene alla destra boliviana estrema e ultra-religiosa. Le viene attribuito un tweet razzista del 2013 (che avrebbe cancellato) dove si augurava un «Paese liberato dai riti satanici indigeni». Anche le manifestazioni esplose contro la rielezione di Morales sono cariche di tensioni sociali: su internet circolano video di manifestanti che incendiano le bandiere wiphala degli indigeni. Tra gli agitatori delle rivolte c’è il fondamentalista cristiano Luis Fernando Camacho: 40 anni, avvocato come Añez, dell’élite di Santa Cruz ostile agli indiosi, ha promesso all’opposizione che «Pachamama non tornerà al palazzo presidenziale», alludendo sprezzante alla madre terra venerata dagli andini.
La Cruz è un bastione di gruppi dichiaratamente xenofobi come la Falange socialista boliviana
Il New York Times
CAMACHO E I FALANGISTI
Come per Añez, «la Bolivia appartiene a Cristo». Camacho, milionario e massone, è emerso come il «Bolsonaro della Bolivia» leader delle proteste. Anche lui è accusato di fascismo, non a caso il Brasile è tra i primi governi con gli Usa a riconoscere la nuova presidenza, che invece ha rotto le relazioni dimplomatiche con il Venezuela. Camacho ha militato a lungo nell’Organizzazione giovanile cruceñista dell’estrema destra religiosa, un movimento falangista squadrista. Il partito di Añez, Unità democratica, è di ispirazione liberale, sulla carta più moderato. Ma ha egualmente come roccaforte Santa Cruz: il leader è il governatore locale Ruben Costas, l’elettorato è la borghesia della regione ricca di idrocarburi che nel 2008 tentò la secessione attraverso il Comitato civico di Camacho, per tornare in possesso delle risorse nazionalizzate da Morales. IlNew York Timesche definisce Camacho il leader delle rivolte, quegli anni descriveva Santa Cruz come «ancora un bastione di gruppi dichiaratamente xenofobi quali la Falange socialista boliviana».
Jeanine Áñez giura sulla Bibbia come presidente della Bolivia. (Getty)
MORALES ATTACCATO AL POTERE
Il movimento boliviano franchista fu tra i primi in America Latina a dare rifugio a criminali nazisti come Klaus Barbie, ricollocato con l’operazione Condor della Cia per contribuire – come altri fascisti italiani – ai golpe e collaborare con le dittature sanguinarie sudamericane. Le contiguità dell’opposizione – e delle Chiese – con la Bolivia “nera” del passato sono una realtà, Morales e gli indios accusano Añez e Camacho di «golpe di polizia». Tuttavia anche l’ex presidente, in carica dal 2006, ha peccato della «tirannia» rimproverata. Nel 2016 Morales tentò – e perse – un referendum per una modifica della Costituzione che gli permettesse un quarto mandato. Ha potuto ricandidarsi alle Presidenziali del 20 ottobre 2019 grazie al via libera della Corte costituzionale a restare al potere fino al 2025. ll risultato fin troppo perfetto del primo turno (47% contro il 36,5% dello sfidante Carlos Mesa: i 10 punti in più che bastavano per evitare il ballottaggio) ha scatenato le contestazioni.
La polizia avrebbe sbarrato l’ingresso in parlamento ai socialisti di Morales
SENZA QUORUM DEL PARLAMENTO
Añez dichiara come «solo obiettivo» permettere nuove elezioni. E tra i ministri minori fatti giurare in un secondo tempo c’è una indios titolare del Turismo. Nondimeno la nuova presidente ha indossato la fascia di Morales senza aver raggiunto il quorum in parlamento né prestato il giuramento di rito. «Tutti gli sforzi per garantire la presenza dei parlamentari» sarebbero stati fatti, il Movimento socialista di Morales avrebbe «disertato l’aula». Contro Añez che, assunta la presidenza vacante del Senato, ha di conseguenza preso l’interim del presidente vacante per «pacificare il Paese e andare a nuove elezioni». La versione dei socialisti è diversa: all’ex presidente del Senato Adriana Salvatierra, fedelissima di Morales, la polizia avrebbe sbarrato l’ingresso in parlamento. Mentre Camacho e i suoi uomini, in un Sudamerica caldissimo, erano visti salire con Añez al palazzo presidenziale.
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Dopo anni di stallo, nel 2018 sono calati decisamente i nuovi casi registrati. La riduzione dovuta all'efficacia delle terapie antiretrovirali.
Dopo diversi anni di stallo nel 2018 sono calate decisamente (-20%) le nuove diagnosi di infezione da Hiv, soprattutto grazie all’efficacia delle nuove terapie che portando quasi a zero la presenza del virus nel sangue di chi è in cura lo rende non infettivo. Alle luci sottolineate dal rapporto pubblicato oggi dall’Istituto Superiore di Sanità fanno da contrappunto alcune ombre evidenziate dagli esperti, prima tra tutte la percentuale in aumento di persone che scoprono la propria sieropositività con anni di ritardo. Nel 2018, scrivono gli esperti del Centro Operativo Aids, sono state segnalate 2.847 nuove diagnosi di infezione da Hiv pari a un’incidenza di 4,7 nuovi casi ogni 100 mila residenti che mette l’Italia lievemente al di sotto della media dei Paesi dell’Unione Europea (5,1 casi per 100 mila residenti).
L’EFFICACIA DELLE TERAPIE ANTIRETROVIRALI
L’incidenza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv, sostanzialmente stabile negli ultimi anni, nel 2018 ha avuto un deciso calo del 20%, osservato in tutte le Regioni. La riduzione interessa tutte le modalità di trasmissione, sia eterosessuali che omosessuali ed è probabilmente da attribuire in modo principale all’efficacia delle terapie antiretrovirali ed alle nuove Linee Guida Terapeutiche che prevedono di iniziare la terapia precocemente dopo la diagnosi. «Purtroppo continua ad aumentare la quota di persone (57% nel 2018) che scoprono di essere sieropositive molti anni dopo essersi infettate», si legge nel rapporto del Centro Operativo Aids (Coa), «e vengono pertanto diagnosticate quando il loro sistema immunitario è già compromesso; questo è evidentemente l’effetto di una scarsa consapevolezza sulla diffusione ancora ampia di Hiv nel nostro Paese e del rischio che si corre di contrarre l’infezione attraverso rapporti sessuali non protetti».
LE MODALITÀ DI TRASMISSIONE
Le persone che hanno scoperto di essere sieropositive nel 2018 erano maschi nell’85,6% dei casi. L’età mediana era di 39 anni per i maschi e di 38 anni per le femmine. L’incidenza più alta è stata osservata tra le persone di 25-29 anni e 30-39. Per quanto riguarda le modalità di trasmissione nel 2018 la maggioranza delle nuove diagnosi era attribuibile a rapporti sessuali non protetti, che costituivano l’80,2% di tutte le segnalazioni (eterosessuali 41,2%; maschi che fanno sesso con maschi. 39,0%). I casi attribuibili a trasmissione eterosessuale erano costituiti per il 56,1% da maschi e per il 43,9% da femmine. Sempre nel 2018 il 29,7% delle persone con una nuova diagnosi di Hiv era di nazionalità straniera, e tra questi il 53,5% di casi era costituito da eterosessuali.
NEL 2018 I NUOVI CASI SONO STATI 661
Per quanto riguarda l’Aids, nel 2018 sono stati diagnosticati 661 nuovi casi. Dal 1982, anno della prima diagnosi di Aids in Italia, al 31 dicembre 2018 sono stati notificati 70.567 casi. A disposizione dei cittadini, ricorda l’Istituto, c’è il Telefono Verde Aids 800 861 061 da lunedì a venerdì dalle 13 alle 18. In occasione della Giornata Mondiale dell’Aids, domenica 1 dicembre, il servizio sarà attivo dalle 10 alle 18.
«MAI ABBASSARE LA GUARDIA»
Contro l’Hiv-Aids «non bisogna mai abbassare la guardia: è fondamentale promuoverne l’uso del preservativo in scuole e università. Anche se i nuovi casi di infezione nell’ultimo anno sono diminuiti in tutto il Paese, il fatto che l’incidenza più alta continui a essere registrata tra i giovani adulti, di età compresa tra i 25 e i 29 anni, ci deve preoccupare», ha detto il viceministro alla Salute, Pierpaolo Sileri, commentando i dati. Sileri per questo ricorda che «c’è già un protocollo d’intesa del 2015 tra il ministero della Salute e il Miur per l’educazione alla salute e alla sessualità in favore degli studenti e dei docenti». Sulla base di questa intesa, ha concluso, «è già pronta una proposta di linee di indirizzo».
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La Corte d'Assise d'appello di Caltanissetta ha confermato la sentenza di primo grado. Condannati a 10 anni i «falsi pentiti» Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia.
La Corte d’Assised’appello di Caltanissetta, confermando la sentenza di primo grado, ha condannato all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della scorta. Condannati a 10 anni i «falsi pentiti» Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. I giudici hanno dichiarato estinto per prescrizione il reato contestato a Vincenzo Scarantino, pure lui imputato di calunnia.
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La rilevazione Emg: nelle città sopra i 60 mila abitanti vincono i giallorossi, in quelle più piccole il centrodestra. Solo per Pd e Forza Italia dati omogenei su tutto il territorio.
I partiti di governo si affermano nei Comuni medio grandi, mentre il centrodestra è consolidato in quelli con meno abitanti. È quello che emerge da una rilevazione effettuata da Noto Sondaggi ed Emg Acqua, commissionata da Asmel, l’Associazione nazionale per la Modernizzazione degli Enti Locali che rappresenta oltre 2.800 Comuni italiani.
I PARTITI DI GOVERNO PIÙ FORTI NEI CENTRI SOPRA I 60 MILA ABITANTI
Secondo il sondaggio, nei Comuni con oltre 60 mila abitanti, la coalizione giallo-rossa raccoglie il 49,9% dei consensi, che crollano di oltre 8 punti, al 41,3%, nei centri sotto questa soglia. In questi ultimi il centrodestra si afferma con il 52,1% delle intenzioni di voto, che scendono al 43,5% nei Comuni più grandi.
PER PD E FORZA ITALIA DATI OMOGENEI SU TUTTO IL TERRITORIO
Unici partiti con percentuali identiche nei Comuni piccoli e grandi sono il Partito Democratico, che può contare sul 18,7% e Fratelli d’Italia con il 6,6%; mentre le differenze più marcate sono quelle della Lega, che perde 7 punti nel confronto tra Comuni piccoli (35,6) e grandi (28,6) e Italia viva, che al contrario raddoppia la percentuale nei grandi (9,0) a paragone con i piccoli (4,7). Per quanto riguarda il Movimento 5 Stelle si riscontrano quasi 8 punti di differenza tra il 21% nelle grandi città e il 13,5% nei Comuni con meno di 10 mila abitanti.
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La rilevazione Emg: nelle città sopra i 60 mila abitanti vincono i giallorossi, in quelle più piccole il centrodestra. Solo per Pd e Forza Italia dati omogenei su tutto il territorio.
I partiti di governo si affermano nei Comuni medio grandi, mentre il centrodestra è consolidato in quelli con meno abitanti. È quello che emerge da una rilevazione effettuata da Noto Sondaggi ed Emg Acqua, commissionata da Asmel, l’Associazione nazionale per la Modernizzazione degli Enti Locali che rappresenta oltre 2.800 Comuni italiani.
I PARTITI DI GOVERNO PIÙ FORTI NEI CENTRI SOPRA I 60 MILA ABITANTI
Secondo il sondaggio, nei Comuni con oltre 60 mila abitanti, la coalizione giallo-rossa raccoglie il 49,9% dei consensi, che crollano di oltre 8 punti, al 41,3%, nei centri sotto questa soglia. In questi ultimi il centrodestra si afferma con il 52,1% delle intenzioni di voto, che scendono al 43,5% nei Comuni più grandi.
PER PD E FORZA ITALIA DATI OMOGENEI SU TUTTO IL TERRITORIO
Unici partiti con percentuali identiche nei Comuni piccoli e grandi sono il Partito Democratico, che può contare sul 18,7% e Fratelli d’Italia con il 6,6%; mentre le differenze più marcate sono quelle della Lega, che perde 7 punti nel confronto tra Comuni piccoli (35,6) e grandi (28,6) e Italia viva, che al contrario raddoppia la percentuale nei grandi (9,0) a paragone con i piccoli (4,7). Per quanto riguarda il Movimento 5 Stelle si riscontrano quasi 8 punti di differenza tra il 21% nelle grandi città e il 13,5% nei Comuni con meno di 10 mila abitanti.
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La capitale dell'Indonesia affonda di 25 cm l'anno. Il governo indonesiano ha già stanziato 40 miliardi di dollari. Ma non può salvarla: è costretto a spostarla di migliaia di chilometri.
Affonda al ritmo di 25 centimetri all’anno. E ormai quasi metà della città di trova sotto il livello del mare. Periodicamente una larga parte dell’abitato finisce sott’acqua, paralizzando ogni cosa e provocando danni incalcolabili.
Le autorità hanno messo in campo ormai da tempo un piano ambizioso, il cui costo stimato sfiora già oggi i 40 miliardi di dollari, per correre ai ripari, ben consci che i cambiamenti climatici non aspettano e non daranno tregua alla loro città. Purtroppo non stiamo parlando di Venezia, la città che non appartiene solo all’Italia ma all’intera umanità, invasa e ferita – forse in modo irreparabile – da una marea fuori controllo.
Siamo a oltre 10 mila chilometri di distanza, in un altro Stato – la nazione musulmana più popolosa del mondo – in un altro continente e di fronte a un problema che colpisce quasi 10 milioni di persone (32 considerando i sobborghi): siamo a Giacarta, capitale dell’Indonesia, che ormai da anni affonda lentamente ma inesorabilmente e rischia di diventare la prima “vittima eccellente” del disastro climatico alle porte.
TANTE CITTÀ DEL SUD EST ASIATICO A RISCHIO
La soluzione studiata dalle autorità indonesiane, però, non ha nulla a che fare con il discusso ed eternamente incompiuto Mose. Laggiù stanno già preparando tutto per fare qualcosa che – sicuramente – a Venezia non si potrà mai fare: trasferire totalmente la capitale qualche migliaio di chilometri più a Est, nell’immensa e ancora in buona parte selvaggia provincia del Kalimantan. Per gli scienziati non ci sono soluzioni. Così ministeri e ambasciate si sposteranno nell’isola del Borneo.
Giacarta, Manila, Saigon e Bangkok sprofondano ogni giorno di più e a ogni alluvione
E la capitale dell’Indonesia non è nemmeno l’unica grande metropoli ad essere ad alto rischio “annegamento”: insieme ad essa anche Manila, Saigon e Bangkok sprofondano ogni giorno di più e a ogni alluvione, ad ogni marea, rese sempre più imponenti e minacciose dagli sconvolgimenti causati dal riscaldamento globale, finisco a mollo ogni volta di più, ogni vota più disastrosamente.
Tangerang, area vicina a Giacarta, dopo l’alluvione del 2009 (foto BERRY/AFP via Getty Images).
La situazione di Giacarta, però, appare davvero apocalittica: il 40% della città è già sotto il livello dell’oceano che circonda l’isola di Giava. La zona rivierasca settentrionale è affondata di 2,5 metri nell’ultimo decennio. Come sempre accade, l’intervento umano ha peggiorato la situazione: le “fondamenta” geologiche su cui poggia la città, infatti, sono state indebolite anche dal pompaggio indiscriminato delle falde acquifere. Il governo stima in 7 miliardi di dollari all’anno il danno economico causato da questa situazione.
IN INDONESIA SONO TUTTI D’ACCORDO: AGIRE SUBITO SUL RISCALDAMENTO CLIMATICO
Il presidente Joko “Jokowi” Widodo, in un discorso televisivo, ha spiegato di recente che il governo presenterà al parlamento un disegno di legge per il trasferimento della capitale, iniziando con il trasferimento di uffici e sedi istituzionali, entro il 2024. Il nome della nuova capitale non è stato ancora rivelato, ma il progetto è estremamente ambizioso e il suo costo enorme verrà finanziato per il 19% dallo Stato e il resto attraverso la creazione di partnership miste pubblico-privato o direttamente da privati. A trasferimento avvenuto, non prima di cinque anni, nella nuova capitale abiteranno e lavoreranno circa un milione e mezzo di funzionari pubblici.
In Indonesia sono tutti d’accordo: intervenire e subito, i cambiamenti climatici non ci concederanno ancora altro tempo
Secondo Heri Andreas, scienziato del Bandung Institute of Technology indonesiano, «l’innalzamento costante del livello del mare causato dal riscaldamento globale ha già fatto sì che alcune zone della città vengano periodicamente invase da più di 4 metri d’acqua. Non c’è più tempo, dobbiamo intervenire subito per evitare una catastrofe planetaria. Tutti i governi del mondo dovrebbero essere pronti a mettere da parte i loro interessi locali per unirsi nella lotta contro quella che rischia di essere un’autentica apocalisse prossima ventura».
Le strade di Giacarta dopo gli allagamenti avvenuti nell’aprile del 2019.
In Indonesia, un enorme Paese dal passato e dal presente politico spesso turbolento anche più di quello italiano, sono tutti d’accordo sul punto: intervenire e subito, i cambiamenti climatici non ci concederanno ancora altro tempo. A Venezia anche l’aula consiliare dove si tenevano i lavori si è allagata qualche giorno fa, e tutti i consiglieri sono dovuto scappare in gran fretta per mettersi in salvo dall’acqua alta eccezionale. Giusto due minuti dopo che la maggioranza, formata da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia aveva bocciato gli emendamenti per contrastare i cambiamenti climatici, presentati dall’opposizione.
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Il 15 novembre hanno debuttato gli ultimi due videogiochi Pokemon Spada e Scudo. Ma come è nato il fenomeno dei mostriciattoli da catturare? Tutto è cominciato da una semplice battaglia tra insetti.
Ventiquattro anni dopo, il mondo sta per essere invaso ancora una volta da una valanga di coloratissimi, improponibili mostriciattoli che sciamano dall’arcipelago nipponico. Sono i Pokémon, fusione di due parole, Pocket e Monster, mostri tascabili. Milioni di appassionati hanno atteso il debutto, il 15 novembre, degli ultimi due capitoli su Nintendo Switch di Pokémon Spada e Pokémon Scudo. Per dare un’idea nella notte, a Milano, nel quartiere City Life, i fan più sfegatati hanno sfidato il freddo novembrino sotto un Pikachu alto 11 metri pur di mettere le loro mani sui videogiochi allo scoccare della mezzanotte.
Ma quali sono le ragioni di una simile mania? E com’è nato questo fenomeno mondiale che non ha risparmiato angolo del globo pur affondando le proprie radici nella tradizione e nella cultura nipponica?
POKÉMON, GENESI DI UN MITO
I Pokémon vengono alla luce nel 1995 ma in realtà erano presenti da sempre nella cultura giapponese. Ancorati all’antico culto animista che ha poi pervaso, nei secoli, scintoismo e buddismo, i giapponesi sono ancora oggi intimamente convinti che qualunque oggetto possegga un’anima. Anche i sassi. E non è un caso, dunque, che ci siano Pokémon a forma di sasso, come Geodude, recentemente scelto come ambasciatore del turismo del Paese, con tanto di immancabile sigla dal sapore infantile.
Popolo indubbiamente curioso, quello giapponese, che da sempre guarda con altri occhi la natura che lo circonda, lasciandosi attrarre soprattutto dalle creature più piccole.
LA PASSIONE PER GRILLI, CICALE E COLEOTTERI
Se i Pokémon esistono da sempre non lo si deve solo all’animismo, ma anche alla passione dei giapponesi per gli insetti. Noi occidentali non li abbiamo mai particolarmente amati. Esistono invece antiche stampe nipponiche che ritraggono con dovizia di particolari locuste e scorpioni. Per non parlare, poi, dei poemi e degli haiku sui canti delle cicale e dei grilli. I più antichi risalgono al X secolo.
Un allevamento di insetti in Cina.
Il noto pittore e poeta Kobayashi Issa per esempio scrisse: «Quando io morirò, sii tu il guardiano della mia tomba, piccolo grillo». Non è un caso che, prima della Seconda Guerra mondiale, quando cioè il Sol Levante viveva ancora separato dal resto del mondo, lo straniero più noto all’epoca nel Paese fosse l’entomologo francese Jean-Henri Fabre (1823-1915), soprannominato da Victor Hugo «l’Omero degli insetti», autore di un libro che nell’arcipelago è considerato oggetto di culto: Ricordi entomologici.
Per i coleotteri, poi, i giapponesi hanno sempre avuto una sorta di predilezione. Ancora oggi, durante l’estate, nei paesini rurali i negozi vendono larve di kabutomushi che i bambini allevano per tutte le vacanze come animali da compagnia. Sono detti scarabei rinoceronte per il lungo corno curvo sulla fronte: i maschi lo usano come leva per sollevare il corpo dell’avversario negli scontri per la difesa del territorio. Questa animosità innata nel kabutomushi ha dato origine a un hobby nipponico che è a sua volta prodromico al fenomeno dei Pokémon: le battaglie tra insetti.
Pupazzi dei Pokemon a Taipei.
Anche in Cina e in Corea non è raro, magari in bar malfamati, trovare assembramenti di adulti ubriachi intenti a scommettere sull’insetto che uscirà vivo dall’incontro. E nel vasto Oriente non sempre queste competizioni sono viste di buon occhio per motivi di ordine pubblico.
In Giappone invece queste furibonde battaglie hanno conservato un pizzico dell’innocenza di un tempo e, mentre gli adulti perdono migliaia di yen al pachinko, i pochi bambini che hanno ancora la fortuna di vivere in ambienti rurali trascorrono le estati catturando esemplari che poi fanno combattere tra loro o che semplicemente mostrano agli amici, dando vita a veri e propri mercatini nei cortili delle scuole. I più ambiti sono naturalmente quelli dotati di mandibole, corna e artigli, come la mantide, il coleottero lucanide, il cervo volante, il Titanus giganteus, il Cyclommatus, il Golia, il Megasoma elefante o il Dynastes hercules. Guardando bene questi coleotteri, dai gusci spessi e dalle zanne affilate, si intuisce che un altro fenomeno tutto nipponico è probabilmente nato proprio dalla loro passione per gli insetti: quello dei robot che nei telefilm degli Anni 80, soprannominati Tokusatsu, distruggevano intere metropoli.
Pikachu è il personaggio diventato simbolo dell’intera saga.
COME SI È ARRIVATI A PIKACHU
Che i Pokémon siano nati dalle battaglie per gli insetti lo ha ammesso il loro creatore, Satoshi Tajiri. Quando, appena 30enne, nel 1995 varcò i cancelli della sede di Kyoto di Nintendo, la software house di videogiochi, propose appunto una simulazione virtuale di questo hobby. Infatti, chi ha avuto modo di esplorare il codice di gioco originario sostiene che il primo Pokémon introdotto non sia stato Pikachu, che con l’esplodere della moda è diventato emblema dell’intera serie, ma colossi come Nidoking e Kangaskhan che, per fattezze e caratteristiche, rimandano appunto ai coleotteri più ambiti.
Un enorme Pikachu alla sfilata per il Giorno del ringraziamento a New York.
Sarebbe stata Nintendo a chiedere allo sviluppatore di introdurre mostriciattoli più kawaii (aggettivo intraducibile che indica tutto ciò che è amabile e suscita trasporto materno), come appunto Pikachu (che all’inizio si chiamava Gorochu), Meowth e Jigglypuff.
Ma il concetto alla base rimase invariato: si impersonava un ragazzino che aveva come compito quello di catturare esemplari sempre più rari da fare combattere e da scambiare con gli amici. In una epoca in cui non esisteva la tecnologia bluetooth e non c’erano apparecchiature Wi-Fi, Nintendo fece miliardi di yen vendendo cavetti che mettevano in connessione due Game Boy e consentivano di trasportare i Pokémon da una consolle all’altra (oggi ne fa ancora con la Banca Pokémon, cloud in cui stoccare – a pagamento – le proprie creaturine).
A caccia di mostri con Pokemon Go.
ANIMALI DALLA UOVA D’ORO: FUMETTI, FILM E VIDEOGIOCHI
Se, le prime avvisaglie arrivarono, quasi in sordina, nei Game Boy de bambini delle elementari, in breve tempo scoppiò il fenomeno. I maestri non riuscivano più a separare i bambini dalle consolle e presto iniziarono loro stessi a giocarci, così come ci giocavano anche i genitori. Il primo aprile del 1997 andò in onda il primo episodio dell’anime (cartone animato) dedicato ai Pokémon che contribuì a diffondere l‘isteria collettiva dando alle buffe creaturine rotondità, animazioni e colori che su una consolle a 8-bit del 1989 dallo schermo verde e grigio non potevano certo avere.
Ai primi tre videogiochi, Pokémon Rosso, Pokémon Blu e Pokémon Verde venne affiancato un quarto titolo, sostanzialmente identico, ma che aveva Pikachu protagonista, per sfruttare la popolarità che il personaggio aveva guadagnato grazie alla serie animata: Pokémon Giallo. Fu un altro incredibile successo.
Oggi i quattro videogame hanno superato le 100 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Da lì a poco uscì anche Mewtwo colpisce ancora (tornerà realizzato in GC), il primo dei 23 lungometraggi per il cinema che, proprio nel 2019, hanno subito una decisa evoluzione con Detective Pikachu, pellicola in cui i mostriciattoli sono disegnati per la prima volta in computer grafica e interagiscono con attori in carne e ossa (protagonista è Justice Smith, figlio di Will Smith) in modo non dissimile dalla tecnica usata nel 1988 per realizzare Chi ha incastrato Roger Rabbit. L’arrivo su smartphone di Pokémon Go ha dato nuovo slancio al fenomeno permettendo la cattura dei mostriciattoli nel mondo reale. E ora il debutto dei due ultimi titoli, Pokémon Spada e Pokémon Scudo, destinati secondo gli analisti a infrangere ogni record precedente.
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