Il nostro Paese è al nono posto per le sue elevate performance nella classifica comandata da Islanda e Norvegia. Ma restano ancora molte criticità.
Il sistema sanitario italiano è nono al mondo – dopo Islanda, Norvegia, Olanda, Lussemburgo, Australia, Finlandia, Svizzera e Svezia – per le sue elevate performance come testimoniato anche dallo stato di salute della popolazione, che resta buono nonostante gli stili di vita non sempre salubri e come ‘certificato’ dall’aspettativa di vita alla nascita (all’ottavo posto nel mondo, 85,3 anni per le donne, 80,8 per gli uomini nel 2017). Le criticità tuttavia non mancano.
PARAMETRI DI QUALITÀ E ACCESSO ALLE CURE
È quanto emerge dal primo studio a livello nazionale del Global burden of disease (Gbd) study, pubblicato sulla rivista The Lancet public health e coordinato dall’Irccs materno-infantile Burlo Garofolo di Trieste. In questo lavoro la qualità dei sistemi sanitari dei vari Paesi è stata misurata con l’indice ‘Haq’ (health access and quality index) che tiene conto di diversi parametri di qualità e accesso alle cure. Lo studio ha confrontato anche i cambiamenti nel tempo delle perfomance del Servizio sanitario nazionale (in particolare dal 1990 al 2017) – usando indicatori come la mortalità, le cause di morte, gli anni di vita persi e quelli vissuti con disabilità, l’aspettativa di vita alla nascita e molto altro.
LA POPOLAZIONE ITALIANA INVECCHIA RAPIDAMENTE
«Ne emerge un quadro globalmente positivo» – riferisce all’Ansa Lorenzo Monasta dell’Irccs, primo autore del lavoro – «pur con alcune criticità: per esempio la popolazione sta invecchiando rapidamente poiché in Italia abbiamo uno dei tassi di fertilità più bassi al mondo (1,3%) e una tra le più alte speranze di vita; questo sta cambiando il panorama epidemiologico delle malattie, aumenta il carico delle patologie croniche dell’invecchiamento, da problemi di vista e udito all’Alzheimer e altre demenze (gli anni di vita con disabilità legati alle demenze sono aumentati del 78% dal 1990 al 2017 e i decessi per Alzheimer sono più che raddoppiati, +118%)». «L’altro aspetto significativo» – continua – «è che dal 1990 a oggi è aumentata gradualmente la spesa privata del cittadino per la salute, di pari passo a una riduzione del finanziamento pubblico alla salute, riduzione che, quindi, non è frutto di una aumentata efficienza del servizio sanitario». In particolare, rileva l’esperto, dal 2010 al 2015 il finanziamento statale in rapporto al Pil è sceso dal 7% al 6,7%, mentre nello stesso arco di tempo la spesa privata per la salute è passata aumentato dall’1,8% al 2%. Inoltre la spesa complessiva per la salute in rapporto al Pil dal 1995 è aumentata dell’1,15%, aumento assorbito, però, non dalla spesa pubblica, ma da quella privata.
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I grillini si appoggiano alla piattaforma del Movimento per decidere se prendere parte alle Regionali di gennaio. Consultazione al via dalle 12 alle 20 di giovedì 21 novembre.
Un voto su Rousseau per uscire dall’empasse. Il Movimento 5 stelle ha deciso di appoggiarsi alla piattaforma per decidere se correre alle Regionali di gennaio in Emilia-Romagna e Calabria. Con un post sul blog delle Stelle è stato annunciato che il 21 novembre, dalle 12 alle 20, gli iscritti potranno sceglere le prossime mosse del Movimento.
«SERVE UN MOMENTO DI RIFLESSIONE»
«Ci siamo confrontati. Abbiamo consultato le persone che portano dalla prima ora sulle spalle questo Movimento, e tutti concordano che serva un momento di riflessione, di standby. Ma decidiamo insieme», si legge nel post in cui si annuncia la consultazione. «È quindi il momento di chiederci se questa grande mobilitazione di crescita e rigenerazione sia compatibile con le attività elettorali».
«TUTTI SI CHIEDANO SE PARTECIPARE AL VOTO»
«Per questo», continua il post, «abbiamo deciso di sottoporre agli iscritti la decisione riguardante la partecipazione alle imminenti elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria». «Partecipare alle elezioni richiede uno sforzo organizzativo, anche nazionale, e di concentrazione altissimo. Ciascuno di noi deve interrogarsi, con la massima responsabilità, sul contributo che sente di dare nei prossimi mesi, su dove sente più giusto che i suoi portavoce dirigano il proprio impegno». «Deve chiedersi», conclude la nota, «se pensa se siamo capaci, tutti insieme, in un grande lavoro di rete di condivisione e divisione degli incarichi, di essere utilmente presenti su diversi fronti. Qualsiasi cosa sceglieremo, la affronteremo come sempre con tutta la dedizione di cui siamo capaci»,
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Torna altissima la tensione tra Conte e Salvini. Il premier accusa l'opposizione di «sovranismo da operetta» dopo mesi di silenzio. Gualtieri difende il negoziato. E il M5s è in fermento.
La riforma del meccanismo Salva-Stati riporta il dibattito tra maggioranza e opposizione ai livelli di guardia, con il premier e il leader della Lega che affilano i coltelli. Giuseppe Conte, chiamato a riferire in parlamento il prossimo 10 dicembre, sembra essere tornato ad agosto, quando sfoderava la sua verve polemica contro l’alleato che faceva cadere il governo. Si scaglia contro Matteo Salvini con una inusuale forza dandogli dell’«irresponsabile» per aver sollevato un «delirio collettivo» su un argomento che la Lega di governo aveva ampiamente condiviso in vertici di maggioranza e «con i massimi esponenti» del Carroccio.
«DALL’OPPOSIZIONE SOLO SOVRANISMO DA OPERETTA»
Ora, attacca il presidente del Consiglio, c’è chi «scopre» di essersi seduto al tavolo «a sua insaputa» o «non avendo capito quel che si era studiato». In questo modo, è l’attacco definitivo, non si fa «un’opposizione seria, credibile» in difesa degli interessi nazionali ma solo «sovranismo da operetta». La replica, neanche a dirlo, è altrettanto velenosa. «Il signor Conte è bugiardo o smemorato. Se fosse onesto direbbe che a quei tavoli, così come a ogni dibattito pubblico, compresi quelli parlamentari, abbiamo sempre detto di no al Mes. Non è difficile da ammettere», ribatte Salvini.
L’ULTIMO VERO DIBATTITO IN ITALIA LA SCORSA ESTATE
Ma dal governo contestano anche questa ricostruzione e invitano ad andare a rileggere le dichiarazioni della Lega in proposito. Di certo in tutto questo marasma quel che colpisce è la tempistica. Se è vero che la riforma dell’Esm, o Mes come la si chiama in Italia, sarà al centro del prossimo Eurogruppo di dicembre dove lo stesso vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis si augura di poter «raggiungere un accordo», è anche vero che l’ultimo vero dibattito in Italia, se si fa eccezione per alcune audizioni, risale alla scorsa estate.
GUALTIERI CONFERMA LA LINEA DI TRIA
«Da marzo a giugno 2019 abbiamo avuto quattro vertici di maggioranza coi massimi esponenti della Lega, in cui abbiamo discusso di Mes, delle fasi di avanzamento del negoziato e tutti i risvolti. Oggi si scopre l’esistenza del Mes e si grida allo scandalo», sottolinea Conte. E Salvini controbatte: «Ho sempre detto a Conte e Tria che non avevano mandato a trattare. Se qualcuno l’ha fatto, l’ha fatto tradendo il mandato del popolo italiano». Ma l’ex ministro del Tesoro, Giovanni Tria, ha già dato la sua versione sulla stampa: dice di aver combattuto «una battaglia durissima» per evitare l’inserimento di regole fisse sulla sostenibilità dei debiti di Paesi e che alla fine «i parametri fissi sono stati eliminati» dalle bozze di accordo. E il suo successore conferma: la riforma non introduce «in nessun modo la necessità di ristrutturare preventivamente il debito per accedere al sostegno finanziario. Effettivamente, all’inizio del negoziato alcuni Paesi lo avevano chiesto», ma, «anche grazie alla ferma posizione assunta dall’Italia, queste posizioni sono state respinte».
IL M5S INVOCA E OTTIENE UN VERTICE DI GOVERNO
Insomma, taglia corto Roberto Gualtieri: «Il dibattito di questi giorni su questo argomento è senza senso». Interviene anche Bankitalia, chiamata in causa da alcuni deputati secondo i quali avrebbe espresso preoccupazioni sulla revisione del trattato. «Il governatore Visco non ha espresso un giudizio sfavorevole sulla riforma del Mes», sottolinea palazzo Koch che conferma: la riforma non prevede né preannuncia «un meccanismo di ristrutturazione dei debiti sovrani». La questione intanto agita anche il M5s dopo la richiesta fatta a Di Maio dai deputati di adoperarsi per convocare un vertice di governo. La riunione è stata accordata, si terrà venerdì mattina molto presto, ma sul capo M5s è piovuta l’accusa di aver teso un sgambetto al premier, e per di più andando dietro a Salvini. Di Maio nega e il M5s lo appoggia: «Eravamo e continuiamo a essere contrari all’affidamento al Mes di compiti di sorveglianza macroeconomica degli Stati membri». Una posizione rimasta agli atti visto che a giugno il blog M5s tuonava contro la riforma e chiedeva a Conte di porre il veto. Anche per questo un sottosegretario M5s assicura: «Questa riforma non passerà o il gruppo parlamentare non lo teniamo più».
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Il leghista Corradino si scusa dopo averle negato la cittadinanza onoraria. Ma aggiunge: «Ha subito quelle sofferenze 70 anni fa, adesso qualcuno se ne approfitta». E intanto anche la Giunta di centrodestra di Sesto San Giovanni dice no al riconoscimento per la senatrice a vita sopravvissuta ai lager.
Il sindaco di Biella Claudio Corradino ci ha pensato su. E sulla vicenda della cittadinanza onoraria negata a Liliana Segre e riconosciuta a Ezio Greggio, che però l’ha rifiutata, ha elaborato questo pensiero autocritico: «Io sono stato un cretino, lo ammetto, e chiedo scusa».
«È STATA FATTA UNA SPECULAZIONE INDEGNA»
Però c’è sempre un però: «Su questa cosa è stata fatta una speculazione indegna da parte di tutti quanti e mi dispiace. Il risultato è stato negativo, ingiustamente. Una grandissima sciocchezza che è diventata una cosa nazionale. La signora Segre non ha bisogno che arrivi il sindaco di Biella a darle la cittadinanza, è un “patrimonio dell’umanità” e le chiedo ancora scusa», ha detto.
LA SENATRICE INVITATA PER LA GIORNATA DELLA MEMORIA
Infine l’invito: «Le ho chiesto di venire a Biella per la Giornata della Memoria e non c’è nulla contro di lei». Intanto Greggio ha annullato la sua di visita, sabato 23 novembre a Biella: era atteso all’Istituto Eugenio Bona, scuola in cui ha conseguito la maturità nel 1973, nel reparto di pediatria dell’ospedale e al Rotary Club, per un incontro benefico.
«SI MINA LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE»
Il sindaco ha parlato ai microfoni di Stasera Italia – in onda su Retequattro – dopo la polemica scoppiata. Prima però a Radio Capital aveva detto anche altro: «La signora ha subito quelle cose 70 anni fa. Voglio dire che si tira fuori la Segre adesso evidentemente perché c’è un tentativo di minare la libertà espressione. A me fa pensare al peggior maccartismo. C’è gente che vuole approfittare delle sofferenze che la signora ha subito».
Questa vicenda è nata male, per un errore di comunicazione che abbiamo fatto
Il sindaco di Biella
In realtà la “signora” sta subendo minacce anche adesso. E infatti le è stata assegnata la scorta. Il sindaco di Biella ha provato a metterci una pezza dicendo che «questa vicenda è nata male, per un errore di comunicazione che abbiamo fatto» e ribadendo poi di essere dalla parte della Segre.
MA ANCHE SESTO SAN GIOVANNI FA LA STESSA COSA
Fine degli episodi spiacevoli? Non proprio, visto che Sesto San Giovanni, Comune nel Milanese, ha fatto la stessa cosa: niente cittadinanza onoraria per la senatrice a vita internata nei campi di sterminio nazisti. In Consiglio comunale è stata infatti bocciata la “manifestazione di intenti” presentata dal Movimento 5 stelle, accolta da tutta l’opposizione. Il Partito democratico ha spiegato che «le motivazioni del sindaco di centrodestra, Roberto Di Stefano, sono che “Liliana Segre non ha a che fare con la storia della nostra città e darle la cittadinanza sarebbe svilente per lei perché è una strumentalizzazione politica». Ci risiamo, insomma.
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Ultimi ritocchi alle modifiche pensate dalla ministra Lamorgese. Sul tavolo ritocchi alle maxi multe per le ong e alle disposizioni in materia di oltraggio a pubblico ufficiale. I dettagli.
È uno dei temi divisivi del governo M5s-Pd. Per il momento è stato accantonato dando priorità alla manovra ed alle altre urgenze. Ma entro la fine dell’anno un nuovo decreto cambierà i dl sicurezza voluti dall’ex ministro Matteo Salvini e diventati legge.
«È già pronto», ha annunciato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, «uno schema di provvedimento, ne devo parlare in Consiglio dei ministri. Posso già dire che nel testo saranno inserite modifiche connesse alle osservazioni pervenute dal presidente della Repubblica». Illustrando le sue linee programmatiche in commissione Affari costituzionali della Camera, Lamorgese non si è sbottonata sui contenuti del provvedimento.
Ma ha fatto sapere di aver messo al lavoro gli uffici legislativi del Viminale, che hanno già prodotto un primo testo di decreto. Naturalmente, prima di essere portato in Consiglio dei ministri, dovrà essere condiviso dagli alleati di governo e dal premier Giuseppe Conte. E qui la ministra dovrà fare ricorso alle capacità di mediazione sviluppate nella sua carriera da prefetto per trovare una formulazione che stia bene al Pd, che chiede un segnale netto di discontinuità rispetto al precedente Governo ed ai Cinquestelle e Conte, che invece sono per mantenere comunque una linea di rigore sull’immigrazione.
LE MODIFICHE AL PRIMO DL
La stella polare della ministra nell’opera di revisione dei due dl è rappresentata dalle osservazioni vergate da Mattarella al momento di firmare i provvedimenti. Quello è il perimetro entro cui si muoverà il nuovo testo. Col primo decreto Salvini ha sostanzialmente cancellato la protezione umanitaria ed il capo dello Stato ha tenuto a sottolineare che, in materia, «restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia». Proprio la formula «restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato», a quanto si apprende, sarà inserita nel nuovo decreto. Ad indicare una gerarchia delle leggi cui anche questa norma deve sottostare.
INTERNVENTI SULLE MAXI MULTE ALLE ONG
Più articolate e circostanziate le critiche di Mattarella al secondo dl sicurezza, quello che conteneva la stretta contro le navi ong che fanno soccorso nel Mediterraneo. La revisione messa a punto dai tecnici del Viminale interviene così in particolare sulla maxi-multa da un milione di euro alla nave che viola il divieto di ingresso nelle acque italiane e sulla confisca della stessa, non subordinata alla reiterazione della condotta. Nella nuova formulazione la sanzione torna quella compresa tra 10mila e 50mila euro prima dell’emendamento che ne ha innalzato l’importo e la confisca può scattare solo se la violazione viene reiterata. In ossequio al principio della necessaria proporzionalità tra sanzioni e comportamenti. Per l’applicazione delle multe, inoltre, si farà distinzione tra le diverse tipologie di natanti.
IL CASO DELLA RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE
L’altra modifica riguarda l’articolo che ha tolto la causa di non punibilità per la «particolare tenuità del fatto» alle ipotesi di resistenza, oltraggio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale. Col nuovo testo sarà ripristinata la discrezionalità del magistrato in merito alla valutazione se il fatto è tenue o meno. Dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri il decreto sarà all’esame del parlamento per l’ok definitivo entro due mesi. La Lega ha già annunciato battaglia: «Lamorgese non si preoccupa di trovare i fondi per le Forze dell’Ordine ma annuncia di modificare i Decreti Salvini che così diventeranno Decreti insicurezza, filo-ong e contro le donne e gli uomini in divisa. Siamo pronti alle barricate, in Aula e nelle piazze», hanno fanno sapere Stefano Candiani e Nicola Molteni.
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Ultimi ritocchi alle modifiche pensate dalla ministra Lamorgese. Sul tavolo ritocchi alle maxi multe per le ong e alle disposizioni in materia di oltraggio a pubblico ufficiale. I dettagli.
È uno dei temi divisivi del governo M5s-Pd. Per il momento è stato accantonato dando priorità alla manovra ed alle altre urgenze. Ma entro la fine dell’anno un nuovo decreto cambierà i dl sicurezza voluti dall’ex ministro Matteo Salvini e diventati legge.
«È già pronto», ha annunciato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, «uno schema di provvedimento, ne devo parlare in Consiglio dei ministri. Posso già dire che nel testo saranno inserite modifiche connesse alle osservazioni pervenute dal presidente della Repubblica». Illustrando le sue linee programmatiche in commissione Affari costituzionali della Camera, Lamorgese non si è sbottonata sui contenuti del provvedimento.
Ma ha fatto sapere di aver messo al lavoro gli uffici legislativi del Viminale, che hanno già prodotto un primo testo di decreto. Naturalmente, prima di essere portato in Consiglio dei ministri, dovrà essere condiviso dagli alleati di governo e dal premier Giuseppe Conte. E qui la ministra dovrà fare ricorso alle capacità di mediazione sviluppate nella sua carriera da prefetto per trovare una formulazione che stia bene al Pd, che chiede un segnale netto di discontinuità rispetto al precedente Governo ed ai Cinquestelle e Conte, che invece sono per mantenere comunque una linea di rigore sull’immigrazione.
LE MODIFICHE AL PRIMO DL
La stella polare della ministra nell’opera di revisione dei due dl è rappresentata dalle osservazioni vergate da Mattarella al momento di firmare i provvedimenti. Quello è il perimetro entro cui si muoverà il nuovo testo. Col primo decreto Salvini ha sostanzialmente cancellato la protezione umanitaria ed il capo dello Stato ha tenuto a sottolineare che, in materia, «restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia». Proprio la formula «restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato», a quanto si apprende, sarà inserita nel nuovo decreto. Ad indicare una gerarchia delle leggi cui anche questa norma deve sottostare.
INTERNVENTI SULLE MAXI MULTE ALLE ONG
Più articolate e circostanziate le critiche di Mattarella al secondo dl sicurezza, quello che conteneva la stretta contro le navi ong che fanno soccorso nel Mediterraneo. La revisione messa a punto dai tecnici del Viminale interviene così in particolare sulla maxi-multa da un milione di euro alla nave che viola il divieto di ingresso nelle acque italiane e sulla confisca della stessa, non subordinata alla reiterazione della condotta. Nella nuova formulazione la sanzione torna quella compresa tra 10mila e 50mila euro prima dell’emendamento che ne ha innalzato l’importo e la confisca può scattare solo se la violazione viene reiterata. In ossequio al principio della necessaria proporzionalità tra sanzioni e comportamenti. Per l’applicazione delle multe, inoltre, si farà distinzione tra le diverse tipologie di natanti.
IL CASO DELLA RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE
L’altra modifica riguarda l’articolo che ha tolto la causa di non punibilità per la «particolare tenuità del fatto» alle ipotesi di resistenza, oltraggio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale. Col nuovo testo sarà ripristinata la discrezionalità del magistrato in merito alla valutazione se il fatto è tenue o meno. Dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri il decreto sarà all’esame del parlamento per l’ok definitivo entro due mesi. La Lega ha già annunciato battaglia: «Lamorgese non si preoccupa di trovare i fondi per le Forze dell’Ordine ma annuncia di modificare i Decreti Salvini che così diventeranno Decreti insicurezza, filo-ong e contro le donne e gli uomini in divisa. Siamo pronti alle barricate, in Aula e nelle piazze», hanno fanno sapere Stefano Candiani e Nicola Molteni.
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A sorpresa i due leader pareggiano nell’agguerrito duello tivù per le Legislative. I progressisti perdono consensi tra i Libdem. Mentre il Labour non si decide sul divorzio dalla Ue.
ll fermo immagine più esaustivo del sorprendente duello in tivù del 19 novembre tra Boris Johnson e Jeremy Corbyn è sul pubblico che ride. Più volte e a più riprese, fragorosamente. Che si ricordi in Gran Bretagna non si era mai riso tanto a un dibattito tra leader politici, come al primo duello andato in scena Oltremanica tra un primo ministro e un capo dell’opposizione. Lo scontro in vista del turbolento voto nazionale del 12 dicembre 2019 ha avuto quasi 7 milioni di spettatori incollati allo schermo (5 milioni in più dei faccia a faccia tra i leader minori) e l’inatteso risultato di un pareggio. Nei sondaggi il premier pirotecnico è in vantaggio di almeno 10 punti (42%) sul capo dei laburisti (32%), Le previsioni di YouGov sul duello erano ancora più sbilanciate verso il leader dei conservatori (37%): appena il 23% del campione si immaginava che Corbyn potesse fare meglio di “BoJo”. Invece la percentuale si è quasi ribaltata con un 49% di gradimento per Corbyn e un 51% per Johnson.
IL NUCLEARE SULLA BREXIT
Anche la Bbc è del parere che non ci siano vincitori. Corbyn si è dimostrato aggressivo quanto il premier per la turbo Brexit: lo ha attaccato da mastino sulla sanità, proponendo al pubblico affamato una svolta. Ma la verità è che tutti sono stufi e nessuno ha un’idea di come andranno le Legislative più drammatiche della democrazia britannica: l’elettorato è mobile, disilluso, frammentato. lo dimostra anche la bufera sui Libdem, terzo partito rivelazione delle Europee di quest’anno, scatenata dalla leader Jo Swinson «pronta se necessario a usare l’atomica», ha dichiarato in tivù subito dopo il duello. E ci mancava il nucleare: Swinson aveva molti punti a suo favore (prima donna in capo ai Libdem, più giovane leader politico britannico di sempre, calamita degli anti-Brexit) per calare la carta del rinnovamento, ma si sta alienando molte simpatie per l’imprudenza nelle dichiarazioni. Dall’estate i Libdem sono scesi dal 20% al 15% nei sondaggi.
I LIBDEM HANNO UN PROBLEMA
Swinson, europeista thatcheriana, vuol marcare le distanze dalla sinistra. Ma la scelta non paga. La leader indipendentista Nicola Sturgeon, scozzese come Swinson, è inorridita dal «test di virilità nauseante» del bottone dei Libdem sull’atomica: «La mia risposta a uccidere milioni di persone sarebbe stata no». Un fossato tra Swinson e la socialista Sturgeon, rossa governatrice di Edimburgo, significa minor compattezza nelle barricate a Westminster contro la Brexit: gli indipendentisti scozzesi sono una forza cruciale anche nel parlamento di Londra. Con “BoJo” al governo hanno anche ripreso a puntare i piedi sulla secessione: nel dibattito il premier uscente ha accusato Corbyn di volersi alleare con i nazionalisti scozzesi di Surgeon, per chiedere un referendum, e ha ammesso che «preservare il Regno Unito è più importante che compiere la Brexit». Una priorità: la deregulation nell’isola è uno dei rischi peggiori – e concreti – della Brexit.
Al duello Corbyn ha demolito il piano dei 40 nuovi ospedali promessi dal leader conservatore
LA BATTAGLIA SULLA SANITÀ
I sostenitori più accaniti del leave lo antepongono anche all’unità nazionale. Sarebbe una catastrofe e Johnson frena, ma così rischia di perdere consensi verso il Brexit Party (5%)di Nigel Farage. Viceversa, in Scozia diversi elettori conservatori – pro remain – come già dei deputati potrebbero mollare i tory. Da parte sua Corbyn nega di spalleggiare gli scozzesi, ma certo sui temi sociali è più vicino ai separatisti di Edimburgo che non ai Libdem: il suo Labour anticapitalista fa la guerra alla «società di miliardari e di persone molto povere», è per la «fine dell’austerità» e per un welfare granitico. Al duello Corbyn ha demolito il piano dei 40 nuovi ospedali promessi dal leader conservatore. Un documento (smentito da Johnson) proverebbe incontri segreti tra l’ultimo governo e investitori statunitensi pronti a entrare nel sistema sanitario britannico, con nuovi accordi commerciali bilaterali, non appena verrà archiviata la Brexit.
ELETTORATO INSOFFERENTE
L’impopolarità di Swinson tra i progressisti è acqua al mulino del Labour, che tuttavia sull’uscita dall’Ue non riesce a inviare messaggi chiari. Neanche al faccia a faccia: incalzato da “BoJo”, Corbyn ha affermato di voler rinegoziare una Brexit migliore con Bruxelles e di sottoporla a un nuovo referendum, con l’opzione anche di restare nell’Ue. Ma non ha detto se è per leave o per il remain. Schierarsi, equivarrebbe a perdere la fronda dei laburisti euroscettici, preziosa anche per i tory. Ma allora non c’è da stupirsi se alla dichiarazione di «voler unire il Paese, non dividerlo» il pubblico è scoppiato a ridere. Come all’esclamazione di Johnson: «La verità è importante per le elezioni!». Spenti i riflettori, gli spettatori hanno commentato di non poterne più dei politici. Ben vengano le belle intenzioni, ma poi Labour, scozzesi e Libdem troveranno una sintesi per la convivenza? E le promesse di BoJo hanno fondamento, la Brexit è possibile entro il 31 gennaio?
Un’altra insidia del voto la localizzazione dell’elettorato britannico pro e contro la Brexit
VOTO A MACCHIA DI LEOPARDO
Come David Cameron, l’ex sindaco di Londra si gioca la carriera politica sulla tabella di marcia. Battuto da Westminster, Johnson ha mandato il Paese alle urne per ricompattare itory sul leader e crearsi un parlamento amico. È verosimile che la spunterà: anche scendendo sotto il 42% di Theresa May è molto difficile che il Labour arrivi al 40% del 2017. Ma sarà una vittoria di misura tra una popolazione sempre più lacerata: un’altra insidia è la localizzazione dell’elettorato britannico in macroaree pro e contro la Brexit. Scozia e Londra (e altre città inglesi) per il remain, come oltre la metà dell’Irlanda del Nord tornata calda. Galles e Inghilterra per il leave. E nel sistema elettorale britannico, conta il prevalere di una forza sull’altra nei collegi, non importa con quale percentuale. L’80% di un collegio vale i deputati del 51% di un altro. Il prossimo match tra “BoJo” e Corbyn è il 6 dicembre, verso le Legislative di un altro voto schizofrenico sulla Brexit.
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I giudici hanno confermato la condanna definitiva per Maria Giulia Sergio partita per la Siria nel 2014. Sentenze convalidate anche per altri quattro imputati.
Anche dalla Siria continuava, via Skype, la sua opera di proselitismo: in un messaggio del 2015 lanciò un vero e proprio proclama dello Stato Islamico in lode del ‘Califfo’ Abu Bakr al Baghdadi. Poi di lei si sono perse le tracce e non si sa se sia ancora viva.
È arrivata in contumacia la condanna definitiva per terrorismo internazionale per Maria Giulia ‘Fatima’ Sergio, la giovane radicalizzata, partita da Inzago nel Milanese, e considerata la prima foreign fighter italiana: 9 anni di reclusione, come stabilito dalla Corte d’assise d’appello di Milano un anno e mezzo fa e ora confermato dalla Cassazione.
La seconda sezione penale ha respinto, dichiarandolo inammissibile, il ricorso presentato per conto suo e di altri quattro imputati, tra cui l’albanese Aldo Kabuzi (condannato a 10 anni), l’uomo che Fatima aveva sposato e col quale era partita, e la sua ‘maestra indottrinatrice’ Haik Bushra, cittadina canadese, poi partita per l’Arabia Saudita, condannata a 9 anni. Confermate anche le condanne a Donika Coku e Seriola Kobuzi, madre e sorella di Aldo Kobuzi, a loro volta partite per la Siria, senza fare più ritorno.
IL PROSELITISMO DI FATIMA
A nessuno dei cinque sono state riconosciute le attenuanti, come aveva motivato la Corte d’appello, data anche la «pericolosità per la collettività delle azioni poste in essere». Secondo l’accusa, Fatima ha incitato i suoi familiari ad unirsi al Califfato abbracciando la lotta armata per ammazzare i “miscredenti”: la madre e il padre, poi arrestati nell’estate del 2015 perché ritenuti in procinto di partire, ed entrambi morti nel corso del procedimento, e la sorella Marianna (a sua volta finita nell’inchiesta), che dalla Campania si erano trasferiti nel piccolo paese in provincia di Milano.
LA PARTENZA PER LA SIRIA NEL 2014
Nel corso egli inquirenti hanno accertato che Fatima ha agito come una «reclutatrice» che ha aderito al programma criminale dello Stato Islamico, ma si era era anche addestrata all’uso delle armi. Nelle telefonate ai familiari spiegava di essere pronta a morire, appena le verrà consentito di passare al jihad. Fatima e Kobuzi erano partiti per andare a combattere con le milizie dell’Isis nell’autunno del 2014, di loro non si sa più nulla: risultano latitanti e non si sa se siano vivi o meno. Secondo quanto dichiarato dalla sorella, Fatima sarebbe morta già prima della condanna d’appello.
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Anche Marchionne accusato di aver dato tangenti allo United auto workers per condizionare le trattative sul contratto di lavoro. E i titoli crollano in Borsa. La replica: «Vogliono fermare la nostra proposta di fusione con Psa».
E ora si passa alle vie legali. General Motors fa causa a Fiat–Chrysler, accusandola di corruzione con lo United auto workers, il potente sindacato americano dei metalmeccanici. La notizia è stata riportata dall’agenzia Bloomberg. E subito Fca è calata a Wall Street: il titolo è arrivato a perdere fino al 3,4%, mentre Gm il 2,4%.
TRATTATIVE “INCRIMINATE” TRA IL 2009 E IL 2015
Fca ha sempre negato di essere stata a conoscenza della cospirazione fra tre suoi ex manager con funzionari dell’Uaw per indebolire le norme sul lavoro. Gm accusa Sergio Marchionne di essere ricorso a tangenti per corrompere le trattative sul contratto di lavoro fra il Uaw e le tre case di Detroit fra il 2009 e il 2015.
«CAUSATI DANNI A GENERAL MOTORS»
Craig Glidden, il responsabile legale di Gm, ha detto che «il piano di corruzione su più anni di Fca ha minato l’integrità delle trattative» per il rinnovo del contratto di lavoro e «causato a Gm sostanziali danni». Poi ha messo in evidenza come l’ex amministratore delegato di Fca morto il 25 luglio 2018 sia ricorso a mazzette per corrompere le trattative fra il Uaw e le case automobilistiche americane per diversi anni.
TRE EX MANAGER DICHIARATI COLPEVOLI E CONDANNATI
Il risultato, ha aggiunto, è stato causare costi più alti del lavoro per General Motors e una posizione meno competitiva sul mercato. Gm ritiene che parte dell’intento di Fca fosse quello di indebolire finanziariamente Gm e rendere più probabile una fusione con Chrysler. Nella causa si punta il dito contro Fca e tre ex manager della società, che si sono dichiarati colpevoli e sono condannati al carcere per il loro ruolo nello scandalo. Fra questi anche Alphons Iacobelli, che è stato vice presidente e capo negoziatore con il Uaw.
LA DIFESA: «STUPITI, UNA CAUSA SENZA MERITO»
Fiat-Chrysler si è detta «stupita» dall’azione legale «sia per i contenuti sia per la tempistica». Il commento affidato a una nota: «Possiamo solo presumere che sia per fermare la nostra proposta fusione con Psae le trattative con lo United auto workers». E quindi «intendiamo difenderci in modo forte contro questa causa senza merito e perseguire tutti i rimedi legali per rispondere».
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Anche Marchionne accusato di aver dato tangenti allo United auto workers per condizionare le trattative sul contratto di lavoro. E i titoli crollano in Borsa. La replica: «Vogliono fermare la nostra proposta di fusione con Psa».
E ora si passa alle vie legali. General Motors fa causa a Fiat–Chrysler, accusandola di corruzione con lo United auto workers, il potente sindacato americano dei metalmeccanici. La notizia è stata riportata dall’agenzia Bloomberg. E subito Fca è calata a Wall Street: il titolo è arrivato a perdere fino al 3,4%, mentre Gm il 2,4%.
TRATTATIVE “INCRIMINATE” TRA IL 2009 E IL 2015
Fca ha sempre negato di essere stata a conoscenza della cospirazione fra tre suoi ex manager con funzionari dell’Uaw per indebolire le norme sul lavoro. Gm accusa Sergio Marchionne di essere ricorso a tangenti per corrompere le trattative sul contratto di lavoro fra il Uaw e le tre case di Detroit fra il 2009 e il 2015.
«CAUSATI DANNI A GENERAL MOTORS»
Craig Glidden, il responsabile legale di Gm, ha detto che «il piano di corruzione su più anni di Fca ha minato l’integrità delle trattative» per il rinnovo del contratto di lavoro e «causato a Gm sostanziali danni». Poi ha messo in evidenza come l’ex amministratore delegato di Fca morto il 25 luglio 2018 sia ricorso a mazzette per corrompere le trattative fra il Uaw e le case automobilistiche americane per diversi anni.
TRE EX MANAGER DICHIARATI COLPEVOLI E CONDANNATI
Il risultato, ha aggiunto, è stato causare costi più alti del lavoro per General Motors e una posizione meno competitiva sul mercato. Gm ritiene che parte dell’intento di Fca fosse quello di indebolire finanziariamente Gm e rendere più probabile una fusione con Chrysler. Nella causa si punta il dito contro Fca e tre ex manager della società, che si sono dichiarati colpevoli e sono condannati al carcere per il loro ruolo nello scandalo. Fra questi anche Alphons Iacobelli, che è stato vice presidente e capo negoziatore con il Uaw.
LA DIFESA: «STUPITI, UNA CAUSA SENZA MERITO»
Fiat-Chrysler si è detta «stupita» dall’azione legale «sia per i contenuti sia per la tempistica». Il commento affidato a una nota: «Possiamo solo presumere che sia per fermare la nostra proposta fusione con Psae le trattative con lo United auto workers». E quindi «intendiamo difenderci in modo forte contro questa causa senza merito e perseguire tutti i rimedi legali per rispondere».
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