Adriano Palozzi di Cambiamo!, con un passato in Forza Italia, ha scritto su Facebook: «Sfrutta il fratello tossico per avere successo». Dopo le critiche sono arrivate la rimozione del messaggio e le scuse.
Ilaria Cucchi «sfrutta il fratello tossico per il proprio successo». Questo era il messaggio contenuto nel vergognoso post di un consigliere regionale del Lazio di Cambiamo!, Adriano Palozzi, già Forza Italia, poi cancellato con tanto di scuse. Il post però è rimasto su Facebook abbastanza per circolare e indignare il web. Anche per i toni usati. Nel post Palozzi sosteneva che Cucchi «è stato maltrattato» e lo definiva «tossico». gettando un velo anche sulle condanne dei due carabinieri commentando: «Giuste? Bah».
L’OFFESA ALLA MEMORIA DI STEFANO: «ERA UN TOSSICO E PURE SPOCCHIOSO»
«Stefano Cucchi ha avuto finalmente giustizia (Bah)!» – aveva scritto Palozzi – «la sorella finalmente è soddisfatta e si lancia in una nuova e brillante carriera politica o nello spettacolo (insomma cerca un modo per guadagnare). Stefano Cucchi sarà anche stato maltrattato e per questo ci sono state delle condanne (giuste? Bah)! Va però ricordato che non parliamo di uno studente modello o di un bravo ragazzo di città, bensì di un tossico preso con 20 grammi di hashish e con alcune dosi di cocaina destinate evidentemente allo spaccio e pure abbastanza spocchioso».
LE SCUSE IN SERATA: «IMPOSSIBILE NON ESSERE FRAINTESI»
Il post, intitolato ‘Io non sto con Ilaria Cucchi’, si concludeva con l’attacco a Ilaria: «Per carità nessuno può morire e deve morire di botte, ma neanche può passare per vittima o per eroi lui e tanto meno la sorella che sta sfruttando il fratello tossico per il proprio successo!». In serata le parole sono state cancellate e sono arrivate le scuse: «Tolgo il post sulla vicenda Cucchi perché ormai su Facebook non è più possibile esprimere una opinione senza essere fraintesi o giudicati. Mi scuso con chi si è sentito offeso non era questo lo scopo!”. Ilaria Cucchi da sempre è oggetto di episodi di odio online. Anche dopo la sentenza di condanna dei due carabinieri. Un’altra esponente di Cambiamo! dopo la sentenza aveva sempre su Fb: «I carabinieri avranno anche sbagliato!!!!…. ma tuo fratello rimarrà sempre un drogato e spacciatore che uccideva altre persone …. Non c’è nulla da festeggiare!!!!! #ILARIACUCCHI Vergognati». «Parole vergognose», è stato il commento del segretario del Pd Lazio, senatore Bruno Astorre, sul post di Palozzi. «Non varrebbe la pena replicare né fare polemica con chi immagino sia in cerca di visibilità sfruttando il dramma di una famiglia. Voglio, tuttavia, ringraziare Ilaria Cucchi per aver combattuto una battaglia di civiltà, sui diritti che ha aiutato tutto il Paese a compiere passi avanti nelle coscienze di ciascuno perché lo Stato di diritto vale per tutti, anche per chi specula sui drammi».
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A inizio settimana nuovo vertice di Conte con i Mittal. Ma tra Pd e M5s le distanze sullo scudo restano abissali. E l'ipotesi di un piano B si fa strada. Mentre indagano i pm di Taranto e i lavoratori preparano lo sciopero "al contrario".
È un «fate presto» corale quello che giunge al governo da sindacati e imprenditori. Ora che lo spegnimento dell’ex Ilva di Taranto è una realtà scandita da un cronoprogramma cresce la richiesta al governo di trovare una soluzione. Anche i magistrati tarantini, dopo un ricorso dei commissari, indagano su ArcelorMittal. Ma tutti gli occhi sono puntati su Palazzo Chigi: a Giuseppe Conte è affidata la trattativa ai più alti livelli e un nuovo incontro del premier e del ministro Stefano Patuanelli con i Mittal dovrebbe esserci a inizio settimana.
ULTIMO TENTATIVO PRIMO DI UN PIANO B
Sarà l’ultimo tentativo, prima di lavorare a un piano B. Ma a complicare l’estrema trattativa ci sono le divisioni della maggioranza sulle soluzioni da proporre. Il Pd, con Andrea Marcucci, invoca un decreto che ripristini lo scudo penale. Luigi Di Maio frena: «Lo scudo è solo un pretesto». Il presidente del Consiglio, raccontano dal governo, lavora in queste ore attraverso ogni canale, anche diplomatico, per una soluzione che eviti lo spegnimento degli altiforni e la perdita di oltre 10 mila posti di lavoro. Il ministro Stefano Patuanelli tiene i contatti con i commissari e con i dirigenti italiani dell’azienda.
IL GOVERNO NON CEDE SUI 5 MILA ESUBERI
I Mittal potrebbero tornare a Palazzo Chigi a inizio settimana (ma manca ancora ogni ufficialità), poi mercoledì o giovedì il Consiglio dei ministri si riunirà con all’ordine del giorno proprio il dossier Taranto. Tra le armi di cui l’esecutivo dispone per trattare ci sarebbero ammortizzatori sociali per i lavoratori (ma di certo non i 5 mila esuberi chiesti da Mittal), sconti sull’affitto degli impianti, defiscalizzazione delle bonifiche, una soluzione per l’altoforno 2 su cui devono pronunciarsi i giudici, una partecipazione di Cdp. E lo scudo penale su eventuali inchieste per danno ambientale. Ma quando si tocca il tema arrivano le divisioni. Tanto che Michele Emiliano denuncia un allarme creato ad arte da Mittal per «mettere in crisi il governo». Di Maio è convinto che prima si debba «trascinare in tribunale» l’azienda e attendere il risultato del ricorso d’urgenza presentato dai commissari a Milano: lo scudo è solo un «pretesto», ininfluente, e di piani B per ora non si deve neanche parlare, sostiene.
IL PD TIRA DRITTO SULLO SCUDO
Dal Pd, invece, Nicola Zingaretti dà ragione agli operai quando chiedono al governo di «accelerare» il confronto con l’azienda. Non aspettare. «Non si accettano ricatti», dice Peppe Provenzano. Ma se l’azienda accetta di sedersi al tavolo e tratta per restare, dichiara Andrea Marcucci, l’esecutivo deve varare subito un decreto con uno scudo per tutte le aziende «in contesti di forte criticità ambientale, a partire dall’ex Ilva». Anche Iv, con Teresa Bellanova, invoca lo scudo. Ma il M5s spiega che ad ora non se ne parla e spera non si renda necessario, perché se è vero che Patuanelli e Conte sono pronti a spiegare ai gruppi pentastellati le ragioni per reintrodurre la tutela, al Senato rischierebbe di aprirsi una faglia con una pattuglia di pentastellati irremovibili (e decisivi per il governo). Ma, mentre partono iniziative individuali come quella dell’ex ministro Carlo Calenda per «parlare con i Mittal», lo scudo lo invocano tanto i sindacati, con Annamaria Furlan della Cisl, quanto Vincenzo Boccia per Confindustria («Servono soluzioni, non prove muscolari»).
IL LAVORATORI PRONTI ALLO SCIOPERO “AL CONTRARIO”
«Resisteremo alla chiusura degli impianti», annuncia Francesco Brigati della Fiom: lunedì si terrò un consiglio di fabbrica, si pensa a uno «sciopero al contrario» per tenere accesi gli altoforni. «Sarebbe barbarie», osserva Maurizio Landini della Cgil, se l’azienda vincesse. I commissari, intanto, a Taranto presentano una denuncia per «fatti e comportamenti lesivi dell’economia nazionale»: i magistrati indagano per distruzione dei mezzi di produzione. E il ministro Patuanelli li ringrazia. Sul fronte legale il governo è pronto a usare ogni arma. Nell’attesa di capire se ci siano davvero i margini per un’estrema trattativa, prima di lavorare a un piano B con una «nazionalizzazione» transitoria e la ricerca di nuovi azionisti.
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Conto alla rovescia verso il 4 dicembre. Crescono le adesioni alla proposta d'insubordinazione lanciata dalla Uilm per non spegnere gli impianti. Mentre rischia di deflagrare la vertenza dell'indotto.
Il 4 dicembre è sempre più vicino e la soluzione sembra drammaticamente lontana, ma gli operai dell’ex Ilva non vogliono rendersi complici della morte della fabbrica. Due settimane per resistere, con il cronoprogramma di sospensione degli impianti consegnato da ArcelorMittal che ha fatto scattare il conto alla rovescia. E l’idea dell’insubordinazione annunciata il 15 novembre dal leader della Uilm Rocco Palombella per non spegnere gli impianti è stata rilanciata anche da Francesco Brigati, coordinatore delle Rsu Fiom dell’ex Ilva e componente della segreteria provinciale della Fiom, che ha parlato dell’ipotesi di «una sorta di sciopero al contrario». Anche se, ha precisato, «ogni decisione comunque andrà condivisa con le altre sigle e i lavoratori».
ATTESA PER IL CONSIGLIO DI FABBRICA
Le rappresentanze sindacali unitarie dei sindacati metalmeccanici hanno convocato per lunedì 18, alle ore 11, il consiglio di fabbrica dello stabilimento siderurgico ArcelorMittal di Taranto, allargato ai delegati sindacali delle imprese dell’indotto, per decidere eventuali iniziative di mobilitazione. Brigati ha detto che si stanno «prendendo in considerazione anche modalità che sarebbero diverse dalle forme solite, come manifestazioni classiche o scioperi». Il problema, ha fatto notare l’esponente della Fiom, è che «anche se gli altiforni restano in marcia, il governo deve chiedere di garantire le materie prime per consentire il proseguimento delle attività e della loro funzione. Senza materie prime la produzione si ferma».
IL SETTORE ELETTRICO GIÀ PRONTO ALL’INSUBORDINAZIONE
A favore dell’insubordinazione si sono già espressi i sindacati del settore elettrico, annunciando che «i lavoratori delle centrali non procederanno ad alcuna fermata degli impianti e di conseguenza rigettano al mittente la improvvida comunicazione aziendale». Le segreterie Filctem-Cgil, Flaei-Cisl Reti, Uiltec-Uil e Ugl-Chimici hanno spiegato che «anche il settore elettrico rischia di subire una notevole ripercussione occupazionale dalla parziale e/o totale chiusura degli impianti produttivi dello stabilimento Ilva. Sono 100 i dipendenti diretti, al netto dell’indotto, più nove lavoratori già in Cigs, allocati nelle due centrali elettriche (Cet 2 e Cet 3)». Rischia di deflagrare anche la vertenza dell’indotto. Le imprese che attendono il saldo delle fatture da parte di ArcelorMittal aspetteranno fino a lunedì. «Se questi soldi non arriveranno» – è il timore di Vincenzo Castronuovo della Fim Cisl – «è molto probabile che le aziende metteranno in libertà i dipendenti. Siamo già stati convocati da Confindustria Taranto per martedì prossimo. Bisogna fare di tutto per disinnescare quella che sta già diventando una vera bomba sociale».
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Gli estremisti della Striscia di Gaza sono manovrati da Teheran per destabilizzare Tel Aviv. Che a sua volta li sfrutta per indebolire Hamas. Gli unici sconfitti, così, sono i palestinesi.
Follow the rockets, segui i razzi. La crisi nella Striscia di Gaza è esplosa in settimane cruciali per i governi che, direttamente o indirettamente, sono coinvolti nello scontro. Hamas e l’Autorità nazionale palestinese (Anp), che dal 2007 si spartiscono conflittualmente il controllo nell’ordine dell’enclave e dei territori della Cisgiordania, concertano per tornare al voto insieme dopo anni, a febbraio 2020. In Israele si tenta fino all’11 dicembre di formare un governo, finora invano, pena la chiamata straordinaria, per la terza volta da aprile 2019, degli elettori alle urne. L’Iran, attore esterno-chiave, deve fronteggiare le improvvise rivolte a catena nei Paesi che di fatto controlla: l’Iraq e, attraverso il partito e le milizie di Hezbollah, anche il Libano ormai. Al centro del triangolo tra Israele, Palestina e Iran ci sono i razzi dei terroristi di Jihad islamica.
IL SEGNALE DI “BIBI”
L’attacco mirato israeliano che all’alba del 12 novembre ha ucciso a Gaza il capo militare di Jihad islamica della zona Nord della Striscia,Baha Abu al Ata (considerato la mente degli ultimi attacchi contro Israele) e la moglie, ha avuto il disco verde a orologeria del premier israeliano Benjamin “Bibi” Netanyahu mentre il rivale Benny Gantz tenta a fatica di comporre una maggioranza. È assai probabile che, come già “Bibi”, fallisca nell’impresa: trovare la quadra per un appoggio esterno della Lista unita araba sarà molto più difficile, dopo le centinaia di razzi piovuti su Israele in rappresaglia, e dopo gli oltre 30 morti tra i palestinesi per la risposta israeliana. Per Ganz sarà imbarazzante continuare a trattare, per la Lista araba quasi impossibile. Tanto più che Ganz per i palestinesi è l’ex comandante delle guerre su Gaza.
L’ARSENALE DI JIHAD ISLAMICA
Con l’omicidio di al Ata (e poche ore dopo da quello dell’altro comandante Moawad al Ferraj) in compenso Netanyahu ha dato un segnale forte a chi, nel suo elettorato, vorrebbe un’altra guerra contro la Striscia, e da tempo lo taccia di mollezza verso gli aggressori. Quest’anno i razzi di Jihad islamica hanno lambito Tel Aviv, beffando lo scudo antimissile. La guerra si è evitata perché anche Hamas ha cambiato strategia: per Israele il pericolo più grande ora viene dal movimento estremista minore, ma più direttamente manovrato dall’Iran. Fondato nel 1981, Jihad islamica è addestrata, finanziata e armata dai pasdaran con un arsenale che gli israeliani stimano aver raggiunto la portata di quello di Hamas: gran parte dei razzi sono piccoli e autoprodotti, ma alcuni percorrono 50 miglia. Non per niente il 12 novembre un missile israeliano ha colpito, ferendolo, anche un capo militare di Jihad islamica in Siria.
Jihad islamica è la longa manus dell’Iran in Palestina, come lo sono i ribelli sciiti houthi in Yemen
LA GUERRA PER PROCURA IRANIANA
Akram al Ajouri, considerato l’anello tra Jihad islamica e l’Iran, è di base in un quartiere di Damasco. Altri esponenti del movimento (terroristico anche per gli Usa, l’Ue e gli altri alleati occidentali) vivono a Beirut, in Libano. I quadri vanno in visita a Teheran, hanno incontrato il presidente iraniano Hassan Rohani, più volte il suo ministro degli Esteri Javad Zarif e i vertici dei pasdaran. Jihad islamica è la longa manus dell’Iran in Palestina, come lo sono i ribelli sciiti houthi in Yemen: una tattica che aumenta l’instabilità e le divisioni tra palestinesi, ma cementa l’influenza di Teheran e la sua pressione ai diretti confini con Israele, come in Libano con gli Hezbollah. La teocrazia sciita, in questo momento debole in Iraq, può così anche rilanciare la sua propaganda di difensore della Palestina in Medio Oriente.
LE DIVISIONI TRA I PALESTINESI
In verità a rimetterci più di tutti dalleproxy warsono come sempre i palestinesi. Anche Hamas, presa dalla gestione politica ed economica della Striscia (pessima quanto si vuole ma una realtà), non può più barricarsi nell’intransigenza della guerra a Israele: l’apertura concreta alle prime elezioni dallo scontro con Fatah è un’altra spina nel fianco per Netanyahu. L’iniezione mensile di milioni di dollari dal Qatar – permessa da Israele – alla Striscia è un compromesso accettato dagli islamisti anche a scopo elettorale, per allentare il blocco e migliorare le condizioni di vita dei due milioni di gazawi. Un piano di de-escalation sabotato sistematicamente da Jihad islamica, che dalla comoda collocazione all’opposizione attrae in compenso le frange più estreme e violente dei miliziani di Hamas.
L’unità della Palestina è un tabù per lo Stato ebraico e un freno per la Repubblica islamica
LA MIOPIA DI ISRAELE
Con loro un popolo di delusi, non a torto, della “politica” è richiamato dal movimento armato anti-sistema, soprattutto tra i giovani. Jihad islamica è anche il grimaldello dell’Iran per ridurre il margine di manovra sui palestinesi dell’Egitto (con gli Stati Uniti, mediatore delle crisi di Gaza con tutti i gruppi estremisti), diventato una sponda di Israele e degli arcinemici sauditi. Se il tentativo di organizzare le Legislative, e poi le Presidenziali, nei territori occupati e nella Striscia naufragherà, a gioirne saranno tanto gli israeliani quanto gli iraniani. L’unità della Palestina è un tabù per lo Stato ebraico e un freno per la Repubblica islamica. Ma Jihad islamica è un danno anche per Israele: alla fine dei conti, di questo passo a vincere davvero la guerra dei razzi sarà solo l’Iran.
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Dopo il successo di Piazza Maggiore a Bologna, il flashmob trasloca nelle altre città emiliano-romagnole in vista delle elezioni di gennaio. «Se Salvini prende la nostra Regione», spiega uno degli organizzatori a L43, «vorrà dire che non ci sono più argini. E la gente deve rendersene conto».
Sono riusciti a portare in piazza Maggiore a Bologna 14 mila persone contro Matteo Salvini. E ora Mattia Santori, Andrea Garreffa, Giulia Trappoloni e Roberto Morotti, gli organizzatori di 6 mila Sardine, sono pronti a replicare il flashmob in tutte le città dell’Emilia-Romagna in vista delle Regionali del 26 gennaio. A partire, lunedì 18 novembre, da Modena. Manifestazioni senza bandiere e simboli di partito, ma aperte a tutti. «Per dimostrare», dice Santori a Lettera43.it, «che esiste un’alternativa. E per chiedere alle persone se sono davvero disposte a lasciare che le cose accadano senza fare niente».
DOMANDA: Intanto siete riusciti a battere Matteo Salvini: al Paladozza c’erano poco più di 5 mila simpatizzanti. RISPOSTA. Matteo Salvini è il primo rappresentante di una politica populista fatta di slogan, che parla alla pancia delle persone. E, per quanto si sforzi di mostrarsi vicino alla gente, la sua è finzione. Costruisce un teatro al quale ci hanno già abituati sia Berlusconi sia Renzi. Riempie il PalaDozza, ma lo fa con trentini, lombardi e veneti. Quella non è politica, è marketing. Noi abbiamo voluto lanciare un modello diverso, fatto di partecipazione e di relazioni umane.
Avete detto che non vi definite anti-politici né criticoni. Cosa significa? La nostra piazza non è contro la politica, ma a favore della politica buona. Crediamo nel ritorno di una politica seria, articolata e complessa. Fatta di testa, non di pancia. Non a caso, l’inno delle sardine è Come è profondo il mare di Lucio Dalla. Una canzone bellissima, quasi poetica, ma che al contempo ha un testo lungo e non immediato.
Crediamo nel ritorno di una politica seria, articolata e complessa. Fatta di testa, non di pancia. Non a caso, l’inno delle Sardine è Come è profondo il mare di Dalla
Molti politici, dal Pd al M5s, hanno messo il cappello sul vostro successo. Vi siete sentiti strumentalizzati? Sinceramente non abbiamo percepito nulla del genere, né da parte dei partiti di centrosinistra né dal Movimento 5 stelle. A parte la Lega, che come al solito ha un modo di comunicare abbastanza bieco, abbiamo avuto l’impressione che il nostro messaggio sia passato in maniera netta.
Il centrodestra e la Lega però alle urne sembrano inarrestabili. Cosa si aspetta in Emilia-Romagna? Non lo so. Ci siamo limitati a lanciare un messaggio. Però vi sembra normale che contro anni di buon governo che parte da un radicamento sul territorio e da proposte concrete ci sia una candidata famosa soltanto per aver indossato in parlamento una maglietta con su scritto “Parlateci di Bibbiano”? Questo messaggio è arrivato così forte e chiaro che anche tanti nostri amici di destra, dopo aver visto ciò che abbiamo fatto, ci hanno detto: «Mai con la Lega».
Qual è il futuro delle Sardine? Questo dipenderà dalle Sardine. Dobbiamo capire che i primi responsabili della deriva populista siamo noi, in quanto cittadini. Se la risposta delle piazze sarà numerosa come quella di Bologna sicuramente andremo lontano. Ma dobbiamo mettere in conto che, essendo un movimento spontaneo, c’è il rischio che chi lo porta avanti commetta degli errori.
Possiamo definire le Sardine un movimento di resistenza? In qualche modo sì. Perché quella che stiamo subendo in Emilia-Romagna è un’invasione. Un’invasione dei messaggi di Salvini e della Lega. E sappiamo benissimo che se la nostra regione, che è una terra fatta di confronto, di volontariato e di associazionismo, capitola allora daremo un messaggio preciso a tutta Italia e anche a tutta Europa. Cioè che non c’è più un argine. E la gente deve rendersene conto.
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Il fondatore di Microsoft si riprende lo scettro nella classifica stilata da Bloomberg con un patrimonio di 110 miliardi di dollari. Il numero uno di Amazon fermo a 108,7. Al terzo posto si piazza Bernard Arnault.
Bill Gates si riprende il titolo di paperone mondiale, strappandolo a Jeff Bezos. Secondo l’indice dei miliardari di Bloomberg, il fondatore di Microsoft vale 110 miliardi di dollari contro i 108,7 miliardi di Bezos. Al terzo posto Bernard Arnault con 102,7 miliardi. Nelle scorse settimane Gates aveva superato per un breve lasso di tempo Bezos che, comunque, si era poi ripreso lo scettro.
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Otto vittime e almeno 75 feriti nei disordini scoppiati vicino a Cochabamba. Il presidente dimissionario chiede una riunione nazionale per pacificare il Paese.
Otto persone sono state uccise e almeno 75 sono rimaste ferite negli scontri tra manifestanti pro-Evo Morales e soldati e polizia nella città boliviana di Sacaba, vicino a Cochabamba, nel Centro del Paese. Lo ha riferito il direttore dell’ospedale cittadino, Guadalberto Lara. La maggior parte delle vittime – ha aggiunto – sono è stata raggiunta da colpi di arma da fuoco. Migliaia di manifestanti, in gran parte indigeni, si erano radunati a Sacaba fin dal mattino, protestando pacificamente. Gli scontri sono scoppiati quando un folto gruppo di manifestanti ha tentato di attraversare un checkpoint militare vicino a Cochabamba, dove sostenitori e avversari di Morales si sono affrontati per settimane.
IL NUOVO APPELLO DI MORALES
Da parte sua, Morales ha rivolto un nuovo appello a una «grande riunione nazionale» per pacificare la Bolivia anche se, ritiene, al punto a cui è giunta la situazione, le proteste in corso non si fermeranno fino a espellere «la dittatura» dal palazzo di governo. Intervistato dalla Cnn in spagnolo, Morales ha ricordato che «martedì ho proposto una grande riunione nazionale con autorità del massimo livello». E ora, ha aggiunto, “ripeto che il modo migliore per pacificare il Paese è rendere possibile una riunione con Carlos Mesa, (Luis Fernando) Camacho, Evo, i movimenti sociali e anche il governo ‘de facto’ di Jeanine Anez».
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La conduttrice di Otto e mezzo, autrice di Basta!, punta il dito contro l'Internazionale del testosterone. E sul leader della Lega dice: «Chi non è in grado di passare dallo stile sbracato a quello istituzionale ha un problema nel gestire certi ruoli». L'intervista.
La «recrudescenza del machismo è la spia di una paura diffusa, quella di perdere il controllo e il potere». Così Lilli Gruber spiega Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone (Solferino), l’ultimo libro scritto per rispondere a quella che la giornalista definisce «l’Internazionale del testosterone».
DOMANDA. L’ondata di leader “testosteronici” è una sorta di autodifesa del potere maschile davanti alla richiesta sempre più insistente di politiche femminili? RISPOSTA. Attenzione, il problema non è il potere maschile ma il potere machista che si perpetua per cooptazione. Che trova nell’insulto, nella legge del branco e nella violenza il collante per generare lealtà. E che è pericoloso perché è privo di ideali, persino di ideologie: ha solo lo scopo distruggere le strutture della convivenza democratica, che tutelano la libertà dei cittadini.
L’opinionistafranceseÉric Zemmour sostiene che il vero problema sta nella femminilizzazione eccessiva della società. Cosa ne pensa? Zemmour ha diritto alle sue opinioni, io sono andata a cercare i fatti. Mi sembra difficile definire “femminilizzata” una società in cui parlamenti, governi, palazzi presidenziali, consigli d’amministrazione, redazioni di grandi media sono ancora in larghissima maggioranza gestiti da dirigenti uomini. I numeri parlano, il resto sono appunto opinioni che non ci portano granché lontano.
Se la struttura politica e sociale in cui viviamo è strutturata per promuovere uomini, è chiaro che le poche donne arrivate ai vertici hanno dovuto adattarsi
Non sono esistite e non esistono anche leader donne “testoteroniche”? Il punto non sta nell’opporre femminile e maschile: discussioni come quella sull’essenza della leadershipsaranno interessanti per la filosofia ma sono piuttosto sterili. Più interessante, invece, analizzare la struttura del potere e le regole su cui si basa. Si vede che questa struttura è stata creata da maschi e oggi è gestita da maschi. Lo dicono i dati e lo dicono millenni di storia. A quante condottiere, cape di stato, scienziate e artiste riusciamo a ricordare? Ebbene, se la struttura politica e sociale in cui viviamo è strutturata per promuovere uomini, è chiaro che le poche donne arrivate ai vertici hanno dovuto adattarsi. Non hanno ancora avuto il potere di cambiare le regole. Ma se al potere ci fosse un numero di donne pari a quello degli uomini, questa struttura cambierebbe.
Dai cda alla strada: qualche esempio nella vita quotidiana? I farmaci verrebbero sperimentati anche sul corpo femminile invece che quasi esclusivamente su quello maschile e avremmo un diverso sistema sanitario. Le città verrebbero riprogettate per le esigenze di chi da sempre deve muoversi per commissioni multiple nel corso della giornata – scuole, genitori anziani – e avremmo un diverso sistema di mobilità urbana. Il lavoro domestico e di cura, oggi svolto al 75% dalle donne, verrebbe redistribuito generando un diverso modello di lavoro e di convivenza. E così via. Io desidero vedere questo cambiamento strutturale. Perché sarà un mondo più giusto.
Lei si è occupata del machismo di leader come Donald Trump, Matteo Salvini, Recep Tayyp Erdoğan, Vladimir Putin. Perché non ha approfondito anche casi che coinvolgono personaggi più vicini alla sinistra come Strauss-Kahn, Assange, Chávez? Perché non sono più al potere, e Julian Assange non lo è mai stato. In un pamphlet che si occupa dell’attualità avrebbero avuto un interesse piuttosto limitato. Per ragioni di spazio, se è per quello, non ho parlato nemmeno di Viktor Orbán o del primo ministro indiano Nanendra Modi, che pure sono al potere e piuttosto pericolosi. Ma soprattutto, nulla lega fra loro tutti gli uomini citati: è un semplice elenco. Invece a fare da collante alla lega l’internazionale machista è una rete tessuta con interessi ben precisi e che minaccia la tenuta delle nostre democrazie. È molto evidente se guardiamo in modo sistemico alla loro azione politica e alle forze che li finanziano. È questo che trovo pericoloso e che dovrebbe spaventare tutti noi.
I toni delle paginate di critiche che mi hanno riservato i quotidiani diretti da maschi, tra cui Feltri, sono un perfetto esempio della deriva del linguaggio e del comportamento che trovo pericolosa
Lei ha raccontato che l’idea del libro è nata dopo la polemica con Salvini. Più recentemente ha battibeccato anche con Vittorio Feltri a causa di un articolo che la riguardava… L’articolo polemico è del tutto legittimo. Quella che io notavo, con interesse, era la levata di scudi di tutta la stampa di destra il giorno dopo l’uscita del mio libro. Paginate di critiche su quotidiani diretti da maschi, tra cui Feltri, i cui toni sono un perfetto esempio della deriva del linguaggio e del comportamento che trovo pericolosa. Ma fa piacere vedere che quando assumono una dose della loro medicina sessista il livore di questi opinionisti si trasforma in un singhiozzo politicamente corretto: forse possono essere redenti.
Restando alla comunicazione: come è cambiata in questi decenni quella dei politici? La comunicazione è cambiata per tutti, è diventata più veloce, molti dicono che ormai non ci sono più contenuti ma solo slogan. In realtà non credo che la comunicazione del passato mancasse di slogan: quante parole d’ordine democristiane o comuniste abbiamo sentito ripetere a pappagallo? Però noto che la comunicazione tra politico ed elettore oggi tende a rifugiarsi in un’idea di mimesi: votami perché io sono come te. Ma io non voglio che chi mi rappresenta sia “come me”, voglio che sappia fare cose che io non so fare, per esempio gestire l’economia di un sistema complesso come l’Italia. Voglio la competenza. Ecco, il difetto della comunicazione politica oggi è la pigrizia di sostituire all’idea della competenza l’ideologia dell’identificazione.
La peculiarità di Salvini è l’incapacità di passare dalla forma sbracata a quella istituzionale. Chi non è in grado di fare questo ha un problema nel gestire un ruolo istituzionale
Salvini è “campione” nella comunicazione, sovraesposto sia sui social sia sui media tradizionali. La sovraesposizione è di tutti, i social hanno sdoganato un certo modo di autorappresentarsi, di mettere in piazza la propria vita privata. È evidente che tutti abbiamo spazi di relax, di déshabillé e di relazione, ma oggi questi spazi sono diventati strumento di azione politica. Non si può tornare indietro ed è stupido ripetere: «Si stava meglio quando si stava peggio», ormai è così. Però la forma è sostanza: la peculiarità di Salvini è l’incapacità di passare dalla forma sbracata a quella istituzionale. Chi non è in grado di fare questo ha un problema nel gestire un ruolo istituzionale.
E quali sono i problemi della comunicazione della sinistra, visto che continua a perdere? La sinistra non perde per mancanza di comunicazione, ma per mancanza di coraggio. E perché non ha saputo valorizzare i talenti femminili al proprio interno, lasciandosi incredibilmente superare a destra nella corsa alla parità dato che oggi il partito che guadagna più consensi è guidato da una donna: Giorgia Meloni.
Ma esistono poi ancora destra e sinistra, o sono categorie superate?Come molte altre categorie, nel postmoderno destra e sinistra sono diventate più liquide, per dirla nei termini di Zygmunt Bauman. Ma destra e sinistra esistono ed esisteranno sempre: guardiamo la campagna elettorale negli Stati Uniti dove una delle candidate al top, Elizabeth Warren, è portatrice di una proposta politica che viene definita “socialista”. Se capiamo ancora cosa significa questo aggettivo, è perché la distinzione tra destra e sinistra è ancora chiara e pregnante.
Lei è probabilmente la sudtirolese più famosa d’Italia, e alla sua terra ha dedicato una intensa trilogia. Che pensa dell’ultima polemica sul nomeSüdtirol/Alto Adige? Ho scritto tre libri per cercare di far capire meglio anche a chi non conosce la storia del Sud Tirolo quali ferite storiche si porti addosso quel fazzoletto di terra. Dalle reazioni e dalle lettere dei lettori, credo di esserci in parte riuscita. Le polemiche sulla toponomastica sono un portato di quella storia, la storia di un popolo che ha visto il fascismo cancellare i nomi dei propri padri dalle tombe di famiglia e non è ancora riuscito a dimenticare. Per superare questi traumi è stato fatto molto, ma una parte e dall’altra occorrono ancora buonsenso e generosità.
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L'esposto è stato presentato daI commissari straordinari. Si ipotizzano danni all'economia nazionale.
La Procura di Taranto sabato 16 novembre ha aperto un fascicolo d’indagine contro ignoti (modello 44) dopo l’esposto denuncia presentato dai commissari straordinari dell’Ilva per «fatti e comportamenti inerenti al rapporto contrattuale con ArcelorMittal, lesivi dell’economia nazionale». Finora il procuratore Carlo Maria Capristo non ipotizza reati, ma è quasi certo che saranno quelli citati nell’esposto. La procura ritiene di essere competente «perché», si apprende, «eventuali reati sono stati commessi a Taranto». Nei prossimi giorni saranno programmate le audizioni di alcuni testimoni che saranno ascoltati o dai pm o dalla polizia giudiziaria.
IPOTIZZATA LA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 449 DEL CODICE PENALE
L’esposto denuncia ipotizzava nei confronti di Arcelor Mittal la violazione dell’articolo 499 del Codice penale che punisce con la reclusione da 3 a 12 anni o con una multa non inferiore circa 2.000 euro «chiunque, distruggendo materie prime o prodotti agricoli o industriali, ovvero mezzi di produzione, cagiona un grave nocumento alla produzione nazionale» e quindi all’economia del nostro Paese, «o fa venir meno in misura notevole merci di comune o largo consumo». Per sostenere tale ipotesi di reato nella denuncia si fa riferimento al fatto che il processo messo in atto da parte del gruppo anglo-indiano di abbassamento della produzione degli impianti e di riduzione del loro calore li può danneggiare e si sottolinea che lo stabilimento di Taranto è strategico dal punto di vista nazionale “ex lege”.
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Nonostante la normativa italiana ed europea rimane ancora molto da fare per rendere internet fruibile da tutti. Eppure migliorarne l'accessibilità costituirebbe un arricchimento per l'intera comunità di utenti.
Acquistare un prodotto, prenotare un viaggio, effettuare un bonifico, scoprire quali opere d’arte potremmo ammirare in un certo museo. Per effettuare queste operazioni, ma anche molte altre, oggi non occorre più necessariamente recarsi in loco ma volendo si può stare comodamente a casa.
Basta disporre di un collegamento internet a cui accedere tramite il computer o uno smartphone. Ho appena scritto una bugia: non è sufficiente disporre di una buona connessione e di un efficiente dispositivo, bisogna anche essere messi nelle condizioni di poter entrare all’interno dei siti e delle pagine web tanto quanto di leggerne e comprenderne i loro contenuti.
Quando si parla di internet accessibile i primi utenti che ci vengono in mente sono le persone con disabilità visiva perché il mondo della Rete è composto in buona parte (ma non solo) da immagini e parole. In realtà questo tema non riguarda solo gli utenti ciechi e ipovedenti. L’accessibilità del web interessa anche le persone con disabilità motoria che devono essere messe nelle condizioni di poter navigare facilmente all’interno dei siti o delle pagine.
TUTTE LE DIFFICOLTÀ PER POTER ACCEDERE AI SERVIZI DELLA RETE
Io, ad esempio, per scrivere utilizzo la testa, non solo in senso metaforico: infatti indosso un caschetto da cui, in corrispondenza della fronte, esce un puntatore fisico con cui digito i tasti, opportunamente separati da una griglia di metallo. Come mouse uso il tastierino numerico.
La Rete dovrebbe poter essere fruibile anche da persone sorde e da chi ha difficoltà nella comprensione del linguaggio scritto e orale
Questo sistema di controllo del mouse unito alla scarsa precisione dei miei movimenti causata dal mio deficit motorio mi rende più difficoltoso, ad esempio, posizionare il cursore sui pulsanti virtuali di piccole dimensioni o rallenta la mia navigazione all’interno di un sito dove, per raggiungere l’informazione desiderata, devo cliccare su un infinito numero di link. Le informazioni che offre la Rete dovrebbero inoltre poter essere comprese e fruibili anche da persone sorde – pensiamo ai numerosi video che ormai sono parte integrante della comunicazione online – e da chi ha difficoltà nella comprensione del linguaggio scritto e orale.
L’OBBLIGO DI RENDERE FRUIBILI AI DISABILI I SITI VALE SOLO PER GLI ENTI PUBBLICI
Finora ho fatto riferimento solo alle persone disabili ma in realtà la questione riguarda tutti. Le pagine web dovrebbero poter essere fruibili anche dagli anziani, dagli stranieri che non conoscono la lingua usata nel sito che stanno visitando e da chiunque non abbia dimestichezza con l’uso di internet.
In Italia la legge Stanca impone a tutti gli enti pubblici o agli enti privati che abbiano contributi pubblici di sviluppare i loro siti internet in base a criteri di accessibilità ovvero in modo che risultino fruibili anche da coloro che utilizzano tecnologie assistive, cioè di supporto ad uno specifico tipo di disabilità.
L’Agid sta dedicando molti documenti all’accessibilità del web
Recentemente l’Agid (Agenzia per l’Italia digitale) ha emanato le nuove linee guida per aggiornare le procedure di creazione e manutenzione dei siti delle pubbliche amministrazioni e l’Edf (Forum europeo sulla disabilità) sta dedicando molti documenti all’accessibilità del web. L’obbligo di legge riguarda però solo gli enti pubblici, per quanto riguarda l’accessibilità di siti e pagine di enti privati si entra davvero nel World wild web.
CHI VENDE PRODOTTI ONLINE RINUNCIA A UNA LARGA FETTA DI CLIENTI
Avete mai visitato siti in cui ci fosse la possibilità di ingrandire la dimensione dei caratteri o dessero la possibilità di aumentare il contrasto di colore tra sfondo e caratteri? Vi è mai capitato di imbattervi in pagine che proponessero la traduzione dei video ivi pubblicati in Lis (Lingua italiana dei segni)? Pur navigando molto online i siti anche solo parzialmente accessibili li conto sulla punta delle dita.
Credo che l’estrema carenza di accessibilità online sia un grave deficit tanto per le persone con disabilità quanto per gli stessi enti privati che in questo modo rinunciano a una larga fetta di utenti
La prima volta che ho visto i simboli usati per indicare la possibilità di ingrandire la dimensione delle lettere e il contrasto tra colore e sfondo è stato in Superando.it, un sito interamente dedicato al mondo della disabilità. Credo che l’estrema carenza di accessibilità online sia un grave deficit tanto per le persone con disabilità, che si vedono negare il diritto di accesso alle informazioni, quanto per gli stessi enti privati che in questo modo rinunciano a una larga fetta di platea a cui far conoscere i loro prodotti o servizi.
Pensiamo al settore delle vendite online: se il sito che pubblicizza il prodotto a scopo di venderlo non è fruibile da persone con disabilità l’azienda perderà già in partenza questi potenziali clienti. Esattamente come succede a molti esercizi commerciali fisici che presentano barriere architettoniche. Non rendere accessibile lo spazio web dedicato alla propria ditta vuol dire fare autogoal!
UN SITO ACCESSIBILE SI POSIZIONA MEGLIO NEI MOTORI DI RICERCA
In Italia ci sono circa 4 milioni di cittadini disabili quindi si tratta di una possibile perdita molto ingente. Se tutto ciò è vero alle aziende bisognerebbe spiegare che curarsi dell’accessibilità dei loro siti web non è un solo un obbligo morale ma dovrebbe rientrare anche nel loro interesse. Un sito accessibile e ben curato, infatti, aumenta i visitatori e migliora il posizionamento sui motori di ricerca.
Yeah si occupa proprio di realizzare siti accessibili a tutti gli utenti e offrire consulenza per migliorare la fruibilità di quelli già esistenti
Yeah. Questa non è solo l’esclamazione che faremmo se tutte le aziende e i soggetti privati comprendessero l’importanza di offrire il loro contributo per la creazione di una rete davvero per tutti. È anche il ramo aziendale della cooperativa sociale Quid di Verona specializzato nella fornitura di servizi per l’accessibilità e l’inclusione di persone con disabilità.
Yeah si occupa proprio di realizzare siti accessibili a tutti gli utenti e offrire consulenza per migliorare la fruibilità di quelli già esistenti. Inoltre svolge corsi di formazione per enti pubblici e privati finalizzati migliorare i loro standard in materia. Ma penso che il progetto di questa cooperativa veronese sia importante anche e soprattutto per il messaggio che sta alla base della loro attività e cioè che garantire uno spazio web accessibile è un guadagno per tutti.
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