Chi è Tsitsipas, il 21enne greco vincitore delle Atp Finals

Dopo aver battuto Federer, ha piegato l'austriaco Thiem per 6-7, 6-2, 7-6 nella sfida decisiva per l'assegnazione del titolo.

Era l’allievo che aveva battuto il maestro Roger Federer in semifinale. E si è preso la consacrazione nell’atto conclusivo. Il 21enne greco Stefanos Tsitsipas ha vinto le Atp Finals a Londra piegando l’austriaco Dominic Thiem per 6-7, 6-2, 7-6 nella sfida decisiva per l’assegnazione del titolo, in due ore e 35 minuti di gioco.

NEI TOP 100 SOLO DA 25 MESI, PRIMO GRECO AL TORNEO DEI MAESTRI

Tsitsipas era al debutto assoluto alle Finals di Londra dopo la vittoria, 12 mesi prima, del torneo Next Gen di Milano. È stato il primo greco di sempre a qualificarsi per il torneo dei maestri ed è entrato nei Top 100 solo da 25 mesi.

«NON SO COME SONO RIUSCITO A VINCERE»

Un predestinato, l’astro nascente del tennis mondiale: «Onestamente non so come sono riuscito a vincere», sono state le parole a caldo di Tsitsipas. «È stato molto difficile gestire l’emozione di una partita così importante».

Nel primo set ha dominato il servizio. Tsitsipas ha avuto una palla-break già al quarto game ma non l’ha trasformata, così come le due consecutive nell’ottavo set, annullate da Thiem con un ace e una volée a rete. Nel gioco precedente era stato l’austriaco ad avere due possibilità per strappare il servizio all’avversario, ma senza successo. Inevitabilmente, così, la frazione si è trascinata al tie-break che, al secondo set-point, si è aggiudicato Thiem dopo un’ora e sei minuti.

UN MONOLOGO ININTERROTTO

Se il primo set era trascorso all’insegna dell’equilibrio, il secondo set si è risolto in un monologo ininterrotto del 21enne greco. L’iniziale passaggio a vuoto di Thiem, un black-out di circa 10′, è coinciso con il prepotente strappo in avanti di Tsitsipas, che ha conquistato 16 punti (su 18), e due break di vantaggio. Thiem ha cercato di arginare lo straripante gioco del greco, che però in 26 minuti ha ristabilito la parità dei set.

POI L’ILLUSIONE NEL TERZO SET

La finale si è portata così al terzo set. Che si è aperto come si era chiuso il precedente: Thiem costretto in difesa a limitare i danni. Nel primo gioco l’austriaco ha dovuto subito fronteggiare due palle-break. Nel game di battuta successivo ha ceduto di schianto: dopo un’ora e 47′ la finale sembrava aver preso una chiara direzione, verso Atene. Ma è stata solo un’illusione. Perché grazie a un parziale di 12 punti a tre, nei tre game successivi, Thiem non solo ha recuperato il break, ma si è portato avanti nel punteggio. Trascinando la finale al tie-break decisivo, così come era successo nel 1988 (vittoria di Boris Becker su Ivan Lendl) e nel 2005 (successo di David Nalbandian su Roger Federer). Qui Tsitsipas si è portato subito avanti 4-1, prima di subire il ritorno dell’austriaco, ma gli ultimi tre punti del match – i più importanti della sua giovane carriera – sono stati i suoi.

Mi sono sentito come sulle montagne russe. Ringrazio i miei genitori che hanno reso possibile il mio sogno


Stefanos Tsitsipas

A fine partita il neo maestro ha detto: «È stata una lotta magnifica, mi sono sentito come sulle montagne russe, semplicemente incredibile. Voglio ringraziare i miei genitori che hanno reso possibile il mio sogno».

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Autolesionismo Ferrari, in Brasile vince Verstappen

Seconda la Toro Rosso di Gasly, Hamilton terzo ma penalizzato e scivolato al sesto posto. Le due Rosse di Vettel e Leclerc si sono toccate durante un controsorpasso: entrambe costrette al ritiro.

Più che automobilismo, questo è autolesionismo. Le Ferrari sono andate a sbattere l’una contro l’altra, eliminandosi a vicenda. E alla fine il Gran Premio del Brasile di Formula 1 l’ha vinto Max Verstappen. Inizialmente terza la Mercedes di Lewis Hamilton dietro alla Toro Rosso di Pierre Gasly, seconda: ma poi il campione del mondo britannico è stato penalizzato di 5 secondi per l’urto con la Red Bull di Alexander Albon ed è scivolato al sesto posto. Sul podio è salito quindi Carlos Sainz (McLaren).

IL PASTICCIO FRA LE ROSSE NEL FINALE

Ma cosa è successo alle due Rosse? Un gran pasticcio proprio nel finale. Che ha costretto sia Sebastian Vettel sia Charles Leclerc a un mesto ritiro. Il pilota monegasco della Ferrari si è toccato con il suo compagno durante un controsorpasso per la quarta posizione, bucando la gomma anteriore destra. Danni anche alla posteriore destra di Vettel: anche lui quindi si è dovuto fermare.

LECLERC DISPIACIUTO: «RAPPORTO INVARIATO COL COMPAGNO»

Leclerc dopo l’incidente ha parlato di «una situazione da analizzare, siamo tutti e due dispiaciuti per il team, lui ha provato ad andare verso l’interno. L’episodio non condiziona il nostro rapporto, siamo abbastanza maturi». Ai microfoni di Sky ha aggiunto: «Sono molto dispiaciuto, ma sono sicuro che i rapporti con Seb resteranno invariati».

VETTEL: «NON SO PERCHÉ CI SIAMO TOCCATI»

Vettel ha dato la sua versione: «Credo che sia un peccato per la squadra, avremmo potuto ottenere un risultato migliore e, secondo me, l’avremmo meritato oggi. Eravamo in lotta tra di noi alla chicane, una lotta abbastanza aggressiva. Ero uscito meglio alle curva due o tre, pensavo di essere già passato e non so perché ci siamo toccati. Questo ha chiuso la gara di entrambi, purtroppo».

Entrambi erano liberi di gareggiare, ma con i loro errori hanno danneggiato l’intera squadra


Il team principal Binotto

Il team principal della Ferrari Mattia Binotto ha bacchettato entrambi: «Siamo delusi e dispiaciuti, i due piloti si devono rendere conto che hanno danneggiato l’intera squadra. Erano liberi di gareggiare tra di loro, però sono piccoli errori che si pagano come squadra e non va bene. Ognuno di loro avrà una parte di colpa».

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Anche il M5s scarica l’ex ministra Trenta sulla casa tenuta

La titolare della Difesa del governo gialloverde soggiorna ancora nell'appartamento "di servizio" ottenuto quando faceva parte dell'esecutivo. Il motivo? La riassegnazione al marito militare, che ne ha diritto. Ma Di Maio: «Inopportuno, lasci l'alloggio».

Politicamente Elisabetta Trenta è “tornata a casa” con la caduta del governo gialloverde formato da Movimento 5 stelle e Lega, quando l’ex ministra della Difesa ha lasciato il suo posto a Lorenzo Guerini del Partito democratico. Il problema è che non ha lasciato l’appartamento dove soggiornava: quello “di servizio” che le era stato assegnato in quanto la grillina – si era candidata coi cinque stelle in Senato nella parte proporzionale senza riuscire a essere eletta – faceva parte dell’esecutivo. E subito sul caso si è aperta una polemica politica.

IL MARITO MILITARE NE HA PIENO DIRITTO

La questione è stata sollevata dal Corriere della sera, con tanto di richiamo in prima pagina. E tutti, anche il suo partito, le hanno chiesto di lasciare l’abitazione. Ma la Trenta ha tenuto il punto, spiegando che la casa è stata riassegnata al marito, militare, che ne ha pieno diritto, in osservanza di ogni regola.

CENTRODESTRA CONTRO LA «DOPPIA MORALE» GRILLINA

Gli attacchi più duri sono arrivati ovviamente dall’opposizione di centrodestra. Maurizio Gasparri ha definito i pentastellati «moralisti “un tanto al chilo”, bugiardi e ipocriti». Anche un’altra esponente azzurra, Licia Ronzulli, ha parlato di «doppia morale dei grillini», che «urlano “onestà” ma pensano solo a occupare le poltrone e, a quanto pare, gli appartamenti di servizio». Da Fratelli d’Italia è arrivato un commento sarcastico: «I privilegi sono “di casa” per i grillini».

casa Elisabetta Trenta marito
La casa dell’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta a Roma. (Ansa)

INTERROGAZIONE URGENTE ANNUNCIATA DAL PD

Irritato anche il Partito democratico: il capogruppo dem al Senato, Andrea Marcucci, ha chiesto all’ex ministra di chiarire «velocemente» annunciando una interrogazione urgente.

Trenta lasci la casa. Poi il marito farà la richiesta per ottenere un alloggio come tutti gli ufficiali dell’esercito seguendo la normale graduatoria


Luigi Di Maio

Infine la presa di distanza che ha fatto più rumore, quella del M5s. Il capo politico Luigi Di Maio è stato chiaro: «Penso che sicuramente il marito avrà diritto a quell’alloggio. Ma è opportuno che in questo momento l’ex ministra, dopo aver avuto tre mesi di tempo per lasciarlo, abbandoni l’appartamento. Poi il marito farà la richiesta per ottenere la casa come tutti gli ufficiali dell’esercito seguendo la normale graduatoria. È la cosa più corretta da fare».

PER BUFFAGNI È UN COMPORTAMENTO «NON DA CINQUE STELLE»

Un altro pentastellato, il viceministro allo Sviluppo economico Stefano Buffagni, aveva espresso la stessa richiesta: «Ho letto stamattina la notizia dell’ex ministro Trenta sull’immobile di pregio assegnato al marito, in cui vive. Ho altresì letto la risposta dell’ex ministra Trenta: formalmente pare anche ineccepibile, ma non è da cinque stelle! Noi siamo nati con un’altra missione, stare nei palazzi rischia sempre di contaminarci, di cambiarci ed è contro questa “droga” che dobbiamo tenere alta l’attenzione».

Se fosse stato uno del Pd o uno della Lega a comportarsi alla stessa maniera cosa avremmo detto?


Stefano Buffagni

Buffagni poi ha concluso: «Non sono mai stato un giustizialista e capisco che durante il mandato possano nascere esigenze funzionali. Ma se fosse stato uno del Pd o uno della Lega ad assegnare al marito una casa di quel genere da tenere anche dopo il mandato cosa avremmo detto?».

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Il punto sulla sicurezza a bordo dei treni e nelle stazioni ferroviarie

Ogni giorno su rotaia si spostano più di 5 milioni di passeggeri. Sotto lo sguardo di 4.400 agenti PolFer. Per i sindacati ancora troppo pochi.

Una donna in fin di vita, colpita con 15 coltellate, un viaggiatore ferito in modo più lieve e i passeggeri che alla fine riescono a bloccare l’aggressore arrestato a Bologna. Quanto avvenuto il 7 novembre a bordo del Frecciarossa Torino-Roma riporta all’attenzione il tema della sicurezza sui treni, un contesto operativo e di viaggio certamente particolare per gli spazi ridotti e il grande numero di persone a bordo. 

LEGGI ANCHE: Salvini al Viminale non ha cambiato nulla per la polizia di Stato

Che i treni possano essere obiettivi sensibili, lo dice anche la cronaca. Senza andare lontano, e solo per citarne alcuni, il 21 agosto 2015 veniva divulgata la notizia del tentativo di attentato a bordo del convoglio Thalys, in viaggio da Amsterdam a Parigi: un foreign fighter marocchino, di ritorno dalla Siria e armato di pistole e fucile da assalto, tentò di compiere una strage ma venne fermato da un gruppo di soldati americani liberi dal servizio e da alcuni passeggeri. Mentre – restando nel nostro Paese – nel 2001 un anarchico torinese lanciò una molotov a bordo dell’Eurostar Roma-Milano, poco fuori la stazione di Modena: per miracolo non ci furono morti. Ci sono poi le manomissioni agli impianti di navigazione dei treni (l’ultimo è avvenuto questa estate, sullo snodo di Rovezzano, nel Ffiorentino) o eventi di “ordinaria” delinquenza come le aggressioni nei confronti del personale delle Ferrovie e dei passeggeri. 

donna accoltellata frecciarossa
La stazione di Bologna dopo l’accoltellamento sul Frecciarossa del 7 novembre.

A VIGILARE SU TRENI E STAZIONI 4.400 AGENTI POLFER

Nel nostro Paese ogni giorno viaggiano 9 mila treni passeggeri e 800 convogli merci, su oltre 16.700 chilometri di linea, per più di 5 milioni di passeggeri. A vigilare su treni, passeggeri e stazioni, a oggi ci sono 4.400 agenti della Polizia Ferroviaria (PolFer). Non abbastanza. All’appello, secondo i sindacati, mancano infatti circa 800 agenti

SAP: «AGIAMO IN UN CONTESTO DI ISOLAMENTO»

«Il treno è un ambiente operativo certamente complesso», spiega a Lettera43.it Stefano Paolone, segretario generale del sindacato autonomo di Polizia (Sap), «perché qualsiasi cosa accada, la pattuglia a bordo non può ricevere rinforzi nella tratta di viaggio tra due stazioni ed è costretta a operare con le sole risorse a bordo, in un contesto di isolamento fino alla stazione successiva». Sul treno, aggiunge Paolone, «non è possibile utilizzare neanche lo spray al peperoncino, come PolFer chiediamo che ci venga fornito quello in gel, utilizzabile in ambienti chiusi». A breve, dice il sindacalista, in dotazione dovrebbero arrivare anche 1800 teaser, «una soluzione ottimale in un contesto come quello del treno considerando che, secondo le statistiche, su 15 interventi in cui viene estratto il teaser, 14 volte vi è desistenza da parte di chi delinque alla sola vista dello strumento». Ma all’appello secondo il Sap mancano anche i giubbetti sottocamicia di protezione, più facilmente indossabili in un contesto operativo come quello ferroviario, rispetto al più pesante giubbotto antiproiettile, e dotazioni come i guanti antitaglio.

Controlli in stazione.

I PRIMI RINFORZI IN ARRIVO A DICEMBRE

A dicembre, intanto, dovrebbero arrivare ulteriori rinforzi, ma si tratta di un incremento parziale. «A dicembre di quest’anno» conferma Paolone, «saranno assegnati a livello nazionale 35 uomini alla PolFer. La città che riceverà più agenti sarà Milano perché ha avuto l’inaugurazione della stazione di Milano Rogoredo. Un ulteriore incremento avverrà poi nell’aprile 2020, con 80 uomini: di questi, 10 andranno a Roma». All’appello a quel punto ne mancheranno però ancora quasi 700 per coprire in modo adeguato treni e posti di vigilanza.

LEGGI ANCHE: I problemi dei vigili del fuoco, dalla carenza d’organico ai mezzi inadeguati

SILP: «ANCHE LA POLFER SOFFRE LA CARENZA DI ORGANICO»

Vero è che l’episodio del Frecciarossa, spiega Daniele Tassone, segretario generale del sindacato di polizia Silp Cgil, poteva accadere in qualsiasi contesto: in una discoteca o un supermercato. «Non ha senso dal nostro punto di vista dire che quel treno avesse una particolare criticità», dice a Lettera43.it. «Alcuni treni più di altri sono presidiati dalle scorte della polizia ferroviaria: la scelta è legata a variabili come il numero di viaggiatori presenti, gli orari, le denunce di reati segnalati in quella tratta. I numeri, aggiunge Tassone, «dicono che a oggi non ci può essere una pattuglia a bordo di ogni treno o un presidio PolFer in ognuna delle 2.700 stazioni ferroviarie italiane». Questo perché la polizia ferroviaria «soffre delle carenze di organico di tutta la polizia e delle forze dell’ordine». Come ha denunciato recentemente e più volte anche il prefetto Franco Gabrielli, la polizia ha oggi poco meno di 99 mila uomini rispetto ai 117 mila previsti e ai 106 mila che poi la legge Madia ha certificato. «Nello specifico», conclude il rappresentante Silp, «occorre implementare gli uffici della PolFer nelle stazioni e nelle tratte ove il numero di viaggiatori è maggiore, tenendo conto che si tratta di una situazione in mutamento perché una tratta ferroviaria oggi frequentata domani può diventare secondaria e viceversa».

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La polemica meteo su Venezia coccolata e Matera discriminata

Attacchi via social alla Serenissima sotto i riflettori della destra e della stampa. Mentre il Sud colpito dal maltempo viene considerato «una Cenerentola di cui prende le difese la sinistra». E pure Di Maio si schiera: «No a regioni di serie B».

Neanche sotto il “flagello” del maltempo l’Italia riesce a trovare unità. Anzi: ne approfitta per rimarcare le differenze, in questo caso tra Nord e Sud. Venezia è travolta dall’acqua alta? E allora Matera? E allora il Mezzogiorno? Una polemica che il Paese dei campanili ha cavalcato anche e soprattutto sui social.

DISPUTA FRA MALTEMPO “DI DESTRA” E “DI SINISTRA”

Non soltanto una questione puramente geografica: si tratta di una disputa tra una sorta di “maltempo di sinistra“, cioè quello di Matera, contro il meteo avverso a Venezia che, considerando la Regione da anni governata dai leghisti, diventa di “destra” nello scontro sul web.

IN DIFESA DELLA CAPITALE DELLA CULTURA

Tra post e commenti su Twitter e Facebook molti utenti hanno ribadito la convinzione che Venezia sia una città «coccolata dalla destra», ma anche dalla stampa mainstream, con raccolta di fondi e continui appelli «a non abbandonarla», mentre Matera, nonostante sia capitale della cultura, resta la Cenerentola di cui «prende le difese la sinistra».

Tutti si mobilitano per Venezia: soldi alle aziende, soldi ai cittadini, Iban per raccolta fondi. E Matera?


Un utente sui social

Qualche esempio: «Danni ingenti a tutto il Sud, ma pare non importi a nessuno», ha scritto un account. E un tale Mike ha postato: «Non me ne frega un c… di #Venezia, tutti si mobilitano: soldi alle aziende, soldi ai cittadini, Iban per raccolta fondi in tutti i telegiornali. In questa foto non è ritratta Venezia, bensì #Matera! Non se ne è preoccupato nessuno! Il #Maltempo al Sud non fa rumore!».

ATTACCHI CONTRO MATTEO SALVINI E MARA VENIER

Gli strali dei pro Matera se la sono presa con i politici, anche con Matteo Salvini che, secondo Luisa, «preferisce farsi fotografare nell’acqua alta di Piazza San Marco. Perché del Sud non gliene frega nulla, lo ribadisco ai meridionali che lo osannano». Qualcuno ha azzardato persino previsioni nefaste come «tanto Venezia è destinata a essere sommersa, meglio salvare Matera». Altri hanno attaccato Mara Venier che a Domenica In «parla di Venezia perché è veneziana».

ARRIVA PURE DI MAIO A FARE L’INDIGNATO

In mezzo a questa “indignazione” è arrivato anche il post del ministro degli Esteri Luigi Di Maio: «Venezia è nel dramma, ma non solo Venezia. Altre città e Regioni sono state travolte dal maltempo. Penso alla Basilicata con Matera, la capitale europea della cultura, penso alla Puglia, alla Calabria, alla Sicilia. E nessuno ne parla. Nessuno», ha scritto su Facebook puntando il dito contro quello che considera una sorta di black out mediatico a sfavore del maltempo al Sud.

Non esistono regioni di serie B, dobbiamo occuparci di ogni singolo italiano


Luigi Di Maio

Poi il capo politico del Movimento 5 stelle ha concluso così: «Non esistono regioni di serie B, dobbiamo occuparci di ogni singolo italiano, di ogni singola famiglia, di ogni singolo lavoratore, di ogni singolo commerciante. L’Italia sia unita, perché unita trova la sua forza». Anche se sui social è riuscita a dividersi pure per questioni di meteo.

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Il cannibale Marquez vince anche a Valencia

Il pilota della Honda trionfa anche nella sua Spagna. Male gli italiani a parte Dovizioso a un passo dal podio. Lorenzo chiude la carriera al 13esimo posto.

Il titolo iridato conquistato con alcuni Gp d’anticipo non ha placato la fame di Marc Marquez. Il pilota della Honda ha fatto suo anche il Gran Premio nella sua Spagna trionfando a Valencia. Seconda posizione invece per Fabio Quartararo che era partito in pole ma non ha retto agli attacchi incalzanti dello spagnolo. Con questo podio Marquez ha conquistato il 12esimo titolo stagionale consegnando alla Honda anche il titolo dedicato ai team. Terza posizione invece per l’australiano Jack Miller dell’Alma Pramac Racing. Da segnalare inoltre la 13esima posizione di Jorge Lorenzo che chiude con questo scialbo risultato la sua carriera motoristica.

A VALENCIA MALE GLI ITALIANI

Al Gp di Spagna non hanno brillato di sicuro gli italiani ben lontani dal podio e dai tempi di Marquez. A far sorridere è solo la quarta posizione di Andrea Dovizioso. Poi per trovare un pilota nostrano si deve scendere all’ottavo posto occupato da uno spento Valentino Rossi mai veramente in gara e poi al nono con Andrea Iannone. Male infine Franco Morbidelli che ha chiuso la gara – oltre che una stagione – in chiaroscuro con una scivolata sulla ghiaia chiude nella ghiaia una stagione in chiaroscuro.

LO SCONTRO TRA ZARCO E LEUCONA

Attimi di paura per lo scontro tra Zarco e Leucona. I due si sono scontrati in curva uscendo di pista e interrompendo di fatto la loro gara. Fortunatamente nessuno dei due si è fatto male. «Non so cosa sia successo. Sono caduto a un certo punto della gara. Forse c’era olio in pista. Mi scuso con la squadra. Zarco? Sono rimasto con lui, avevo paura per le gambe, l’impatto è stato molto forte. Poi l’ho visto andare via con lo scooter e mi sono tranquillizzato», ha detto Leucona a caldo.

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Il Pd rilancia sullo ius soli ma il M5s fa il benaltrista

Zingaretti promette battaglia per la cittadinanza ai "nuovi italiani". Ma i grillini lo gelano: «Sconcertante, preoccupiamoci di famiglie, imprese e del Paese sott'acqua». Orlando: «Noi pensiamo a più cose insieme».

La questione dei diritti civili ha ridato animo alle fibrillazioni tra i giallorossi. Tutta “colpa” dell’Assemblea nazionale del Partito democratico, dalla quale il segretario dem Nicola Zingaretti ha rilanciato: «Ci battiamo perché al più presto si rivedano i decreti Salvini, dentro questo governo come scelta di campo. Ci batteremo con i gruppi parlamentari per far approvare lo ius culturae e lo ius soli, certo che lo faremo». Poi ha aggiunto: «Faremo una legge per parità salariale tra donne e uomini, ma per raggiungere l’obiettivo e non per mettere bandierine e avere un’intervista sui giornali. Ci vuole serietà, non comizi».

I GRILLINI: «PENSIAMO AL PAESE SOTT’ACQUA»

Dal Movimento 5 stelle – che sul tema ha cambiato idea – non hanno digerito gli annunci zingarettiani. E fonti grilline hanno risposto sfoggiando dosi di benaltrismo: «C’è mezzo Paese sott’acqua e uno pensa allo ius soli? Siamo sconcertati. Preoccupiamoci delle famiglie in difficoltà, del lavoro, delle imprese. Pensiamo all’Italia, già abbiamo avuto uno (Matteo Salvini, ndr) che per un anno e mezzo ha fatto solo campagna elettorale. Noi vogliamo pensare a lavorare».

A molti dei cinque stelle sembrerà impossibile. Ma noi riusciamo a pensare anche due cose nello stessa giornata


Andrea Orlando del Pd

Dal Pd ha replicato il vicesegretario Andrea Orlando: «A molti esponenti dei cinque stelle sembrerà impossibile. Ma noi riusciamo a pensare anche due cose nello stessa giornata».

LA “SPERIMENTAZIONE” DI GOVERNO REGGERÀ?

Segnali di alleanza di governo che scricchiola? E pensare che Zingaretti, poco prima, aveva comunque confermato il “laboratorio” giallorosso: «Stiamo vivendo una difficile esperienza di governo, ma ribadiamo la scelta di sperimentare le alleanze. Qualcuno dice “Non vogliamo un accordo storico con il M5s”. Ma cosa vuol dire? Non si governa tra avversari politici, ma solo se si condividono almeno i fondamenti di una prospettiva politica e si calano nei territori. Ci vuole tempo, certo». Ora bisogna vedere se si riuscirà anche a condividere una visione in tema di diritti civili.

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Il Pd rilancia sullo ius soli ma il M5s fa il benaltrista

Zingaretti promette battaglia per la cittadinanza ai "nuovi italiani". Ma i grillini lo gelano: «Sconcertante, preoccupiamoci di famiglie, imprese e del Paese sott'acqua». Orlando: «Noi pensiamo a più cose insieme».

La questione dei diritti civili ha ridato animo alle fibrillazioni tra i giallorossi. Tutta “colpa” dell’Assemblea nazionale del Partito democratico, dalla quale il segretario dem Nicola Zingaretti ha rilanciato: «Ci battiamo perché al più presto si rivedano i decreti Salvini, dentro questo governo come scelta di campo. Ci batteremo con i gruppi parlamentari per far approvare lo ius culturae e lo ius soli, certo che lo faremo». Poi ha aggiunto: «Faremo una legge per parità salariale tra donne e uomini, ma per raggiungere l’obiettivo e non per mettere bandierine e avere un’intervista sui giornali. Ci vuole serietà, non comizi».

I GRILLINI: «PENSIAMO AL PAESE SOTT’ACQUA»

Dal Movimento 5 stelle – che sul tema ha cambiato idea – non hanno digerito gli annunci zingarettiani. E fonti grilline hanno risposto sfoggiando dosi di benaltrismo: «C’è mezzo Paese sott’acqua e uno pensa allo ius soli? Siamo sconcertati. Preoccupiamoci delle famiglie in difficoltà, del lavoro, delle imprese. Pensiamo all’Italia, già abbiamo avuto uno (Matteo Salvini, ndr) che per un anno e mezzo ha fatto solo campagna elettorale. Noi vogliamo pensare a lavorare».

A molti dei cinque stelle sembrerà impossibile. Ma noi riusciamo a pensare anche due cose nello stessa giornata


Andrea Orlando del Pd

Dal Pd ha replicato il vicesegretario Andrea Orlando: «A molti esponenti dei cinque stelle sembrerà impossibile. Ma noi riusciamo a pensare anche due cose nello stessa giornata».

LA “SPERIMENTAZIONE” DI GOVERNO REGGERÀ?

Segnali di alleanza di governo che scricchiola? E pensare che Zingaretti, poco prima, aveva comunque confermato il “laboratorio” giallorosso: «Stiamo vivendo una difficile esperienza di governo, ma ribadiamo la scelta di sperimentare le alleanze. Qualcuno dice “Non vogliamo un accordo storico con il M5s”. Ma cosa vuol dire? Non si governa tra avversari politici, ma solo se si condividono almeno i fondamenti di una prospettiva politica e si calano nei territori. Ci vuole tempo, certo». Ora bisogna vedere se si riuscirà anche a condividere una visione in tema di diritti civili.

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Le aziende dell’indotto minacciano ritiro operai dall’ArcelorMittal

Le ditte appaltatrici pronte a incrociare le braccia. Gli autotrasportatori invece hanno intenzione di bloccare le portinerie di ingresso e uscita delle merci. E Di Maio invita i vertici dell'ex Ilva al tavolo della trattativa.

Anche le aziende dell’indotto-appalto contro ArcelorMittal. Nel caso in cui il colosso siderurgico non dovesse pagare le fatture arretrate si potrebbe procedere a un ritiro degli operai dai cantieri. A Taranto è sempre più spinoso il caso dell’ex Ilva. Tanto che, oltre alle aziende dell’indotto, anche gli autotrasportatori tarantini a minacciare l’azienda di bloccare le portinerie d’ingresso ed uscita merci dello stabilimento siderurgico nel caso in cui ArcelorMittal non dovesse saldare a stretto giro di posta le fatture di trasporti effettuati da agosto a oggi. A lanciare il guanto di sfida sono stati i sindacati che hanno anche spiegato come le imprese abbiano maturato un credito complessivo intorno ai 60 milioni.

DI MAIO INVITA MITTAL A RISEDERSI AL TAVOLO DELLE TRATTATIVE

Intanto Luigi Di Maio ha invitato ArcelorMittal a sedersi nuovamente al tavolo delle trattative. «Tutte le scelte che verranno fatte su Ilva derivano dal fatto che Mittal si risieda al tavolo. Qui stiamo parlando di una multinazionale che se ne va. Noi speriamo ci possa essere un incontro a Palazzo Chigi», ha spiegato il capo politico del M5s intervenuto a un incontro con gli attivisti di Acerra a Napoli. «La strada su cui stiamo puntando come governo è far desistere Mittal dall’andare via da Taranto per via giudiziarie. Abbiamo presentato un ricorso ed è su quello che in questo momento aspettiamo una risposta dai giudici», ha aggiunto. Sostenendo che l’esecutivo non possa «permettere a una multinazionale indiana di venire in Italia, firmare un contratto e un anno dopo dire che se ne va perché non gli sta più bene. Perché se lo permettiamo a questa multinazionale lo permettiamo a chiunque».

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Germania, la chiamata alle armi della delfina di Merkel

Le celebrazioni per il compleanno della Bundeswehr. Il riarmo. Il pressing sul parlamento per più missioni all’estero. Un Consiglio nazionale di sicurezza. Così Kramp-Karrenbauer strizza l'occhio al militarismo.

Giusto qualche anno fa, nel 2015, l’esercito della Germania faceva notizia per imbracciare manici di scopa tinti di nero al posto dei fucili nelle esercitazioni della Nato, tanto era sguarnito. Per i training, al posto dei blindati si usavano alla bisogna dei furgoni Mercedes. Lo sgomento era così forte che qualcuno, tra i graduati, cominciò a inviare rapporti riservati a riguardo alla tivù pubblica tedesca (Ard). Un vento radicalmente cambiato dall’arrivo Annegret Kramp-Karrenbauer in capo alla Difesa, o quantomeno la delfina di Angela Merkel vorrebbe che cambiasse al più presto: per i 64 anni dalla nascita, il 12 novembre del 1955, della Bundeswehr ha dato ordine a tutti i governatori di festeggiare il «compleanno dell’esercito con parate di giuramento in tutti i Land». «All’aperto», senza vergogna, guai a ripararsi dentro le caserme.

LA PARATA A BERLINO

A Berlino il giuramento di 400 reclute è andato in scena ieratico nel grande campo davanti al Reichstag. Una cerimonia del genere, davanti alla scritta Dem deutschen Volke («al popolo tedesco») all’ingresso del parlamento, non avveniva dal 2013. E comunque mai si era cercata tanta enfasi: Ursula von der Leyen, prima alla Difesa, aveva tolto i giuramenti pubblici, avviando l’indispensabile dietro le quinte del riarmo delle truppe con una scia di inevitabili polemiche. Il passato dei Reich restava pesante: anche durante la Guerra fredda, quando la militarizzazione divenne d’obbligo per la Germania Ovest, le cerimonie militari avvenivano a testa bassa, in sordina. E dagli Anni 90, mezzi e uomini della Bundeswehr si erano assottigliati: si preferì approfittare della pax europea, anche con un esercito rinforzato delle truppe dell’Est.

INTERVENTISTA IN SIRIA

Per Kramp-Karrenbauer, Akk come la chiamano i tedeschi, è tempo di essere orgogliosi dei propri soldati, «parte e presidio della società democratica». Ed è tempo anche, ha spronato espressa sempre Akk il parlamento, che i soldati tedeschi siano più presenti nel mondo; che la Germania, con o senza la Nato, prenda l’iniziativa. Le uscite così ravvicinate sul riarmo e il piglio – molto diverso da quello di Von der Leyen – hanno valso rapidamente alla nuova titolare della Difesa la reputazione di militarista: soprattutto la proposta unilaterale di qualche settimana fa, senza consultare o informare neppure il collega degli Esteri, di una forza di peacekeeping europea in Siria, al posto degli americani, ha scatenato un’ondata di reazioni critiche. Nel governo, in parlamento e tra la popolazione tedesca. Anche le parate del 12 novembre sono state contestate da gruppi di pacifisti.

AKK È MILITARISTA?

Come la nuova presidente della Commissione Ue, Kramp-Karrenbauer è cresciuta sotto l’ala di Merkel. Entrambe devono l’ascesa alla cancelliera. Ma Akk è più a destra di Merkel e di Von der Leyen: integralista nell’etica, e sovranista in politica. Come primo provvedimento alla Difesa ha bloccato la privatizzazione, nella riorganizzazione disposta da Von der Leyen, del gruppo statale che mantiene e ripara i mezzi dell’esercito. Kramp-Karrenbauer si è anche posta da subito più vicino alle truppe: non potendo chiedere un ritorno alla leva obbligatoria, si è rammaricata che «della disaffezione alle forze armate dal suo abbandono». Ma se sulla Siria Akk ha fatto infuriare il titolare degli Esteri, il socialdemocratico (Spd) Heiko Maas, e diversi altri, dalle cerimonie per l’anniversario della Bundeswehr si è dissociata solo la sinistra radicale della Linke.

Germania riarmo Difesa Bundeswehr
AKK tra le truppe della Bundeswehr, Germania. GETTY.

IL CAMBIO DI MENTALITÀ

Si commenta che da tanto tempo i militari non erano così presenti in Germania. E non è per forza un male. Sul giuramento anche i Verdi, come i socialdemocratici, danno ragione ad Akk. La percezione della Bundeswehr, nata a Bonn con un centinaio di volontari nel 1955, è sempre meno distorta dallo spettro della Wehrmacht, soprattutto tra i giovani. Nel 1980, quando per la prima volta si tenne un giuramento delle forze armate in uno stadio, a Brema, esplosero proteste con centinaia di feriti. Ancora nel 2010 un capo dello Stato dovette dimettersi per aver affermato, come fece l’imprudente Horst Köhler (Cdu) probabilmente più da ex capo del Fondo monetario internazionale (Fmi), che un «Paese grande come la Germania avrebbe dovuto difendere i propri interessi anche commerciali, nell’emergenza, anche attraverso interventi militari».

IL CONSIGLIO DI SICUREZZA

Per Köhler si parlò di «politica da cannoniere». Come quella italiana, la Costituzione tedesca vieta azioni offensive, tanto più guerre commerciali, alle forze armate. E ogni intervento militare a scopo difensivo deve essere richiesto dal parlamento. Con Kramp-Karrenbauer si inizia a chiamare la «Germania poliziotto del mondo» e si torna a invocare il dettato costituzionale. Ma non scatta più tanta veemenza, e non se ne chiedono le dimissioni. La proposta di Akk di istituire un Consiglio nazionale di sicurezza di coordinamento tra gli apparati militari e dei ministeri dell’Economia, dell’Interno e dello Sviluppo è stata anzi apprezzata dai vertici diplomatici e dello stato maggiore. Chiusa la parata, la ministra ha annunciato il potenziamento delle forze armate con «nuovi equipaggiamenti e nuovi militari» entro il 2031. Lo chiede la Nato, ma non solo.

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