Si chiamano Massimo e Giacomo e fanno musica insieme dal 2012. Nel loro bagaglio musicale non ci sono solo rapper ma anche i grandi cantautori italiani. Il profilo.
Si chiamano Giacomo e Massimo, ma sul palco sono “solo” i Sierra, duo di rapper romani che sta conquistando X Factor 2019. Sotto la guida di Samuel, stanno procedendo verso la puntata di giovedì 21 novembre, quando avranno la possibilità di far sentire al pubblico il loro inedito.
QUEL PROGETTO ANDATO IN FUMO
Giacomo e Massimo hanno entrambi 26 anni e vivono a Roma con le loro famiglie. Giacomo è figlio di un tastierista e coltiva la passione per la musica sin da ragazzino. Massimo, invece, ha genitori medici che, nonostante il supporto, vorrebbero per lui una strada diversa da quella imboccata. La loro avventura è cominciata nel 2012 quando un produttore ha puntato su di loro. Il progetto però è andato in fumo qualche anno dopo.
Nonostante questo, i due non hanno mollato: prima hanno cominciato a registrare i pezzi in autonomia, usando la cabina armadio di un amico comune come sala di registrazione. E ora, a distanza di qualche anno, sono riusciti ad aprire uno studio di produzione grafica e musicale per fare sul serio.
LE INFLUENZE MUSICALI
I Sierra apprezzano diversi generi musicali. Nonostante facciano rap e utilizzino l’autotune, non si considerano trapper.
Nel loro bagaglio musicale ci sono infatti anche i mostri sacri del cantautorato italiano, come Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Lucio Battisti e Antonello Venditti, oltre che il rapper genovese Tedua e il cuneese Izi.
DUE CARATTERI OPPOSTI MA COMPLEMENTARI
Giacomo e Massimo, nonostante la complicità nella scrittura e il feeling sul palco, sono ragazzi molto diversi. Il primo si definisce estroverso, il secondo invece è più riservato e introverso. Li accomuna però una grande passione per la musica e la voglia di sfondare in questo settore.
IL PRECEDENTE DI ANASTASIO
Finora a X Factor i Sierra con il loro sono stile stati apprezzati da giudici e pubblico. Un po’ come Anastasio, che con il suo rap aveva portato una ventata d’aria fresca riuscendo a vincere l’edizione del 2018. Porterà fortuna?
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Si tratta di un "papa straniero": per la prima volta il Consiglio superiore della magistratura non ha optato per una soluzione interna. A Roma da pm si è occupato di Ustica, Nar, Br e non solo. Poi togato di sinistra nel Csm e la nomina a Catania. Da n.2 dell'Anm si scontrò con Berlusconi.
La Cassazione ha un nuovo procuratore generale: è Giovanni Salvi, il “papa straniero” scelto dal Consiglio superiore della magistratura che per la prima volta non ha optato per una soluzione interna.
UNA LUNGA CARRIERA A ROMA
Salvi è in magistratura da 40 anni. Una lunga carriera segnata da due costanti: il legame con Roma, sua città di adozione, e con le funzioni di pubblico ministero, che non ha mai smesso se non per brevissimi periodi. Nato a Lecce, 67 anni fa, Salvi è arrivato alla procura della Capitale nel 1984 e ci è rimasto per 20 anni. Un lunghissimo arco di tempo in cui si è occupato di indagini delicate, come quelle sulla strage di Ustica, gli omicidi di Mino Pecorelli e Roberto Calvi e di inchieste sui Nar e le Brigate rosse.
NEL CSM CON MAGISTRATURA DEMOCRATICA
Esperienza interrotta nel 2002, quando Salvi è stato eletto componente togato del Csm, nella lista di Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe confluita negli ultimi anni in Area, senza però sciogliersi.
A CATANIA FRA TRAFFICO DI MIGRANTI E MAFIA
A Roma è poi tornato da procuratore generale nel 2015, nominato all’unanimità dal Csm. Quattro anni prima invece era passata sul filo di lana la sua nomina a procuratore di Catania. E da quell’ufficio, che ha guidato dal 2011 al 2015, ha coordinato numerose inchieste sul traffico dei migranti e sulla mafia. Indagini che con la collaborazione dei capi di Cosa nostra catanese hanno consentito di individuare i responsabili di delitti centrali per la ricostruzione delle vicende nazionali dell’organizzazione mafiosa, come l’omicidio di Luigi Lardo.
GLI SCONTI ALL’ANM CON BERLUSCONI
Salvi in realtà non è del tutto estraneo all’ufficio che dovrà guidare: vi ha lavorato per quattro anni, dal 2007 al 2011, con le funzioni di sostituto pg. È stato anche vicepresidente dell’Associazione nazionale magistrati negli anni dello scontro tra le toghe e il governo Berlusconi. A cercare negli archivi non sono tante le sue esternazioni. L’ultima l’ha fatta per invocare rispetto per il lavoro della procura di Roma, dopo che la Cassazione ha fatto cadere l’accusa di associazione mafiosa per i condannati dell’inchiesta sul Mondo di mezzo.
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Almeno sei feriti in uno scontro a fuoco. La polizia è intervenuta immediatamente.
Sparatoria in un liceo di Santa Clarita, in California. La polizia è immediatamente intervenuta e ci sarebbero almeno sei feriti, di cui due gravi. La situazione alla Saugus High School di Santa Clarita, nella contea di Los Angeles, sarebbe ancora in evoluzione. Gli agenti sarebbero impegnati in una caccia all’uomo, una persona vestita di nero che avrebbe aperto il fuoco. Tutte le scuole della zona sono in ‘lockdown’.
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Il tennista romano batte in due set l'austriaco Thiem. Prima di lui, Panatta (1975) e Barazzutti (1978) erano riusciti a portare a casa solo un set.
Matteo Berrettini si congeda dalle Atp Finals di Londra con una vittoria, che non ne evita l’eliminazione ma lo fa entrare nella storia del tennis italiano. Il 23enne romano, nel terzo e ultimo incontro del gruppo B, ha battuto l’austriaco Dominic Thiem con il punteggio di 7-6 6-3, diventando così il primo tennista italiano vincere un match di singolare nelle Atp Finals. Il torneo riunisce gli otto giocatori che hano fatto più punti nell’anno solare. Berrettini si presentava a Londra da ottava testa di serie, Thiem da quinta. I due, prima dell’incontro odierno, avevano avuto un percorso opposto nel girone: Berrettini aveva perso entrambe le partite contro Novak Djokovic (testa di serie numero 2) e Roger Federer (3) e arrivava al match con l’austriaco già eliminato; Thiem, al contrario, aveva vinto sia con il serbo, sia con lo svizzero, strappando in anticipo il pass per le semifinali.
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Secondo un'inchiesta del Giornale, il leader M5s avrebbe portato con sé agli Esteri un gruppo di affezionati: «Un cerchio magico da 700 mila euro».
Luigi Di Maio, il ministro dei viaggi in economy, è finito al centro di una polemica sugli stipendi al Ministero degli Esteri. Secondo un’inchiesta del Giornale, il leader del M5s avrebbe fatto assumere alla Farnesina otto fedelissimi con stipendi variabili, alcuni dei quali decisamente alti. Si tratta – scrive il quotidiano – di otto persone equiparate a dirigenti e funzionari, fatti assumere agli Esteri a partire dal 6 settembre scorso con scadenza fissata al “termine del mandato governativo”.
I collaboratori sono:
Augusto Rubei, inquadrato come “consigliere del ministro per gli aspetti legati alla comunicazione”, stipendio lordo di 140 mila euro l’anno;
Pietro Dettori, “consigliere del ministro per la cura delle relazioni con le forze politiche inerenti le attività istituzionali”, stipendio 120 mila euro;
Cristina Belotti, “capo segretaria e segretario particolare del ministro”, 120 mila euro;
Sara Mangieri, “consigliere per i rapporti con la stampa”, 90 mila euro;
Daniele Caporale, “consigliere del ministro per le comunicazioni digitali”, 80 mila euro;
Carmine America, “esperto in questioni internazionali di sicurezza e difesa”, 80 mila euro;
Giuseppe Marici, “consigliere per le informazioni diffuse attraverso i media”, 70 mila euro;
Alessio Festa, “consigliere per le relazioni istituzionali”, 11.580 euro.
Il totale dei compensi lordi è di 711 mila euro. «Finché Di Maio resta ministro, restano lì pure loro», scrive il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti, «non è solo la quantità di fedelissimi imposti da Di Maio ma anche l’entità dei loro compensi a creare fastidio alla Farnesina, dove una gola profonda ci racconta che “all’ufficio del personale sono inorriditi, dicono di non avere mai visto prima degli stipendi così alti, forse l’ultimo che aveva fatto qualcosa del genere era stato De Michelis (ministro Psi, ndr) ma erano altri tempi e comunque non queste cifre”».
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Entrambe sono attese il 14 novembre. La prima, che riguarda il pestaggio, vede imputati cinque carabinieri. La seconda i medici dell'ospedale Pertini, dove il geometra romano morì 10 anni fa. I genitori: «Ci aspettiamo una svolta».
Il 14 novembre è atteso come il giorno della possibile svolta sul caso di Stefano Cucchi. Da una parte, la sentenza della Corte d’Assise di Roma su cinque carabinieri imputati a vario titolo per omicidio preterintenzionale, abuso d’autorità, calunnia e falso. Dall’altra, quella della Corte d’Assise d’Appello di Roma su cinque medici dell’ospedale Pertini di Roma, dove nell’ottobre del 2009 il geometra romano morì una settimana dopo essere stato arrestato per droga. «Ilaria [Cucchi, sorella di Stefano, ndr] ci ha dato la forza per andare avanti e cercare la verità», hanno commentato i genitori di Stefano, Giovanni Cucchi e Rita Calore, in mattinata. «Quello che abbiamo giurato davanti a quel corpo massacrato è che non ci saremmo mai fermati e così faremo, andremo sempre avanti. Oggi ci auguriamo una svolta, i dati sono tutti a favore di una sentenza positiva, però ci sono dei segnali».
CHIESTI 18 ANNI PER DUE CARABINIERI
Partiamo dal processo che riguarda il pestaggio. Per l’accusa di omicidio preterintenzionale e abuso d’autorità sono finiti sotto processo i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro; per loro il pm ha chiesto la condanna a 18 anni di reclusione. Per il carabiniere Francesco Tedesco, l’imputato-accusatore che con le sue dichiarazioni ha fatto luce sul presunto pestaggio subito da Cucchi in caserma la notte del suo arresto, il rappresentante dell’accusa ha chiesto l’assoluzione dall’omicidio preterintenzionale e tre anni e mezzo di reclusione per l’accusa di falso. Otto anni di reclusione per falso sono stati richiesti per il maresciallo Roberto Mandolini; mentre per l’ulteriore imputazione di calunnia, contestata al carabiniere Vincenzo Nicolardi e ai colleghi Tedesco e Mandolini, il pm ha sollecitato una sentenza di non procedibilità per prescrizione del reato.
I CINQUE MEDICI IMPUTATI NELL’ALTRO PROCESSO
Per quanto concerne il processo ai medici, gli imputati sono il primario del Reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini, dove fu ricoverato il geometra romano, Aldo Fierro, e altri quattro medici, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. Nei loro confronti il pg Mario Remus ha chiesto di non doversi procedere per prescrizione del reato di omicidio colposo. Un terzo processo, per presunti depistaggi, deve ancora entrare nel vivo e vede coinvolti otto carabinieri.
LE TAPPE PRINCIPALI DEL CASO CUCCHI
15 ottobre 2009: Stefano Cucchi viene fermato dai carabinieri al Parco degli Acquedotti a Roma perché trovato in possesso alcuni grammi di droga. Viene portato nelle celle di sicurezza di una caserma dei carabinieri.
16 ottobre 2009: Cucchi appare all’udienza di convalida del fermo con ematomi e difficoltà a camminare. Parla a stento: una registrazione diffusa successivamente testimonierà dello stato di Cucchi all’udienza. L’arresto è convalidato e Cucchi viene portato a Regina Coeli.
22 ottobre 2009: Cucchi, dopo una settimana di detenzione, muore nel reparto protetto dell’ospedale Pertini. Inizia la battaglia giudiziaria della famiglia che una settimana dopo diffonde alcune foto del cadavere in obitorio che mostrano ematomi e segni ‘sospetti’.
25 gennaio 2011: vanno a processo sei medici e tre infermieri del Pertini e tre guardie carcerarie.
5 giugno 2013: vengono condannati quattro medici del Pertini. Assolti gli infermieri e le guardie carcerarie.
31 ottobre 2014: in Appello tutti i medici vengono assolti.
Gennaio 2015: viene aperta l’inchiesta bis dopo che la Corte d’appello trasmette gli atti in procura per nuove indagini.
Settembre 2015: i carabinieri entrano per la prima volta nell’inchiesta: cinque vengono indagati.
Dicembre 2015: la Cassazione annulla con rinvio l’assoluzione dei cinque medici. Vengono nuovamente assolti nel 2016 ma la procura ricorre in Cassazione che dispone un nuovo processo d’Appello.
Gennaio 2017: la procura chiude l’inchiesta bis (quella sui cinque carabinieri). Nel luglio 2017 vengono rinviati a giudizio Di Bernardo, D’Alessandro e Tedesco, accusati di omicidio preterintenzionale e di abuso di autorità. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia insieme con il maresciallo Mandolini, mentre della sola calunnia risponde Nicolardi.
11 ottobre 2018: il pm Giovanni Musarò rivela che Tedesco per la prima volta parla di un pestaggio subito da Cucchi da parte di Di Bernardo e D’Alessandro. Le indagini sul pestaggio erano state riaperte grazie alle parole di un altro carabiniere, Riccardo Casamassima. Nel corso del processo emergono anche presunti depistaggi con la sparizione o l’alterazione di documenti di servizio. Si apre l’inchiesta.
16 luglio 2019: nell’ambito dell’inchiesta sui depistaggi vengono rinviati a giudizio il generale Alessandro Casarsa e altri sette carabinieri tra cui Lorenzo Sabatino, all’epoca dei fatti comandante del reparto operativo di Roma.
3 ottobre 2019: il pm chiede la condanna a 18 anni per Di Bernardo e D’Alessandro accusati del pestaggio che viene, per la prima volta, associato alla morte di Cucchi.
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A fine novembre si ferma un treno nastri per mancanza di ordini. I forni invece verranno chiusi tra metà dicembre e metà gennaio. Il piano della multinazionale per abbandonare Taranto.
La data dello spegnimento degli altiforni di Taranto è già segnata nel calendario di ArcelorMittal. La mattina del 14 novembre, ha fatto sapere il segretario generale della Fim Cisl, Marco Bentivogli, «l’amministratore delegato della multinazionale franco-indiana, Lucia Morselli, ha incontrato le rsu di Taranto per smentire le notizie emerse dalla Regione Puglia al termine dell’incontro del 13 novembre. La Morselli ha invece comunicato il piano di fermate degli altiforni: Afo2 il 12 dicembre, Afo4 il 30 dicembre e Afo1 il 15 gennaio mentre verrà chiuso il treno nastri2 tra il 26 e il 28 novembre per mancanza di ordini».
«LA SITUAZIONE STA PRECIPITANDO»
«Se ancora non fosse chiaro la situazione sta precipitando in un quadro sempre più drammatico che non consente ulteriori tatticismi della politica», ha commentato Bentivogli. «Le RSU», ha aggiunto, «hanno chiesto in che prospettive ci si muove e se intendono fare dichiarazioni di esuberi, discussione che l’azienda ha rinviato al tavolo di domani. Il piano di fermate modifica le previsioni contenute nell’Aia, pertanto l’azienda si confronterà con il Ministero dell’Ambiente».
«LA DISCUSSIONE SUGLI ESUBERI NON È ACCETTABILE»
«Non voglio perdere neanche un posto di lavoro – ha detto – non è una discussione accettabile quella sugli esuberi. Lì si deve continuare a produrre acciaio, garantendo la salute di cittadini e lavoratori», ha detto a proposito il segretario generale della Cgil,Maurizio Landini, ospite di Tagadà su La7. Il 15 novembre è fissato al Miseil «primo incontro con la presenza dell’azienda. La situazione è difficile e i tempi delle decisioni devono essere rapidi. Per noi non ci sono le condizioni per recedere dal contratto, per noi ArcelorMittal deve applicare tutte le parti del contratto», ha concluso.
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È davvero arduo accettare il principio di una sorta di licenza di uccidere qualcuno, in casa propria o al di fuori dei propri confini, rivendicato da Tel Aviv, che ha sempre fatto una bandiera della sua democraticità.
Il cessate il fuoco concordato tra la Jihad islamica e Tel Aviv con la mediazione dell’Egitto e dell’inviato delle Nazioni Unite deve essere accolto positivamente anche se nessuno può davvero sperare che da quest’intesa possa innescarsi un processo di strutturale de-escalation e quindi di stabilizzazione.
Del resto, si attende ancora la conferma dell’intesa proprio da parte israeliana che peraltro penso non mancherà seppure con qualche distinguo che, c’è da augurarsi, non riguardi la parte relativa all’impegno che sarebbe stato preso da Tel Aviv di non ricorrere più agli omicidi mirati.
Questi, che altri chiamano azioni di killeraggio, non sono a mio avviso accettabili; non lo sono rispetto all’esigenza proclamata della prevenzione di atti di terrorismo, soprattuto se se pianificati da mesi come nel caso in esame. Non lo sono neppure se autorizzati all’unanimità dal governo in ragione della «bomba ad orologeria» che sarebbe stata pianifica dalla Jihadh islamica né se collocati nel perimetro scivoloso della cosiddetta «guerra asimmetrica» che la Jihad islamica sta conducendo.
ISRAELE SI SENTE LIBERO DI UCCIDERE E SI VANTA DELLA SUA DEMOCRAZIA
È davvero arduo infatti accettare il principio di una sorta di licenza di uccidere qualcuno, in casa propria o al di fuori dei propri confini, rivendicato da uno Stato che si definisce – e viene riconosciuto come tale – democratico. E soprattutto da uno Stato come Israele che fa una bandiera della sua democraticità anche per marcare la differenza esistente, proprio su questo terreno, con i Paesi vicini. Intendiamoci, da questo giudizio non discende neppure la più tenue legittimazione dei lanci delle decine, decine e decine di missili effettuati per ritorsione da parte da parte delle Brigate al-Quds, il braccio armato della Jihad Islamica.
Bibi Netanyahu, nella logica protesa a rendere problematica l’opera di formazione del governo da parte del rivale Benny Gantz, aveva nominato a sorpresa, a ministro della Difesa il cofondatore de La Nuova Destra Natali Bennett
Una ritorsione del tutto prevedibile da parte di un’organizzazione terroristica che si serve anche dei morti, oltre 30, caduti sotto il fuoco israeliano a fronte delle decine di feriti provocati dai suoi missili in terra israeliana. Prevedibile e certamente messa in conto anche da parte israeliana che evidentemente riteneva di poterne pagare un prezzo sopportabile. Da Bibi Netanyahuin primis che, nella logica protesa a rendere problematica l’opera di formazione del governo da parte del rivale Benny Gantz – al quale resta solo una settimana per raggiungere il traguardo – aveva nominato a sorpresa, poche ore prima, a ministro della Difesa il cofondatore de La Nuova Destra, Natali Bennett, affrettatosi ad annunciare misure speciali di sicurezza.
Poi ha deciso l’intervento missilistico nel convincimento che avrebbe ottenuto il placet del presidente e l’allineamento al suo fianco dello stesso Benny Gantz che non ha esitato ad affermare che il suo partito porrà sempre la sicurezza dei cittadini prima di qualunque cosa. Non sfugge infatti che con queste operazioni – che Netanyahu ha inteso saldare con un dichiarato, complementare intervento da terra, aria e mare – ha voluto dare un significativo segnale politico al Paese; segnale irrobustito dal messaggio che il bersaglio di Tel Aviv era solo la Jihadh e non Hamas che ha in quest’ultimo un concorrente temibile e che sembra mostrare sensibilità ai contatti propiziati anche dal Cairo per ottenere concessioni da Israele e, complessivamente, un abbassamento della conflittualità.
LA TREGUA RIMANE FRAGILISSIMA
Nello stesso tempo Netanyahu ha inteso inviare un inequivoco segnale anche a Teheran, sponsor della Jiadh islamica sia nella striscia di Gaza sia in Siria con l’altro attentato nel quale si è peraltro mancato il bersaglio principale, in un momento in cui l’Iran incontra difficoltà a sostenere i suoi proxies nella regione ma con i quali non intende allentare la presa. E proprio da Teheran che per bocca di Abbas Mousavi, il portavoce del ministero degli Esteri, è venuta la reazione più forte, non solo con la condanna degli attacchi missilistici, bollati come veri e propri crimini di guerra, ma anche con il vigoroso appello alla necessità che Tel Aviv sia perseguita e punita nei tribunali internazionali e con una dura critica «al silenzio e all’inazione» delle organizzazioni e della comunità internazionale contro l’aggressione e gli atti terroristici del regime sionista. Il tutto assortito dell’elogio dell’eroica resistenza del popolo palestinese contro gli «usurpatori».
Il raid israeliano un crimine contro il nostro popolo a Gaza
Abu Mazen, presidente della Palestina
Scontata a questo riguardo la reazione del presidente palestinese Abu Mazen che da Ramallah, in Cisgiordania, ha definito il raid israeliano «un crimine contro il nostro popolo a Gaza», così come la denuncia turca dell’aggressione israeliana. E per contro il sostegno bipartisan espresso nei riguardi Tel Aviv da parte americana (segnatamente da Mike Pence e da Joe Biden) mentre la Ue si è limitata a invitare le parti al contenimento mentre, curiosamente, si pubblicizzava la decisione di imporre la pertinente etichetta sui prodotti provenienti dai territori occupati; decisione avversata da Tel Aviv e naturalmente salutata con favore da parte palestinese (e non solo) come un passo importante nella direzione giusta.
La tregua raggiunta nelle ultime 24 ore è fragile e non solo perchè il suo annuncio è stato accompagnato da una serie di violazioni da una parte e dall’altra ma anche perché la Jihadh islamica è etero-diretta e non è detto che Teheran voglia favorire un percorso suscettibile di favorire la politica di contrasto israeliano ai proxies iraniani nel quadrante regionale che va da Gaza, per l’appunto, al Libano e alla Siria. Così come non è scontato che Netanyahu non abbia nei suoi calcoli altre azioni di forza. Penso che in ogni caso il bilancio dell’operazione – che è costata 34 morti, e solo da parte palestinese, mentre da parte israeliana si lamentano solo 63 feriti – non rappresenti un incoraggiamento alla pace.
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Sono stati i parenti delle vittime a rivolgersi alla Corte europee dei diritti umani per la presenza in libertà di due manager tedeschi condannati.
La Corte europea dei diritti umani ha avviato un procedimento contro Italia e Germania sul caso del rogo dello stabilimento della ThyssenKrupp a Torino il 6 dicembre 2007. Sono stati i parenti delle vittime e uno dei sopravvissuti, Antonio Boccuzzi, a rivolgersi alla Corte di Strasburgo, accusando i due governi di aver violato i loro diritti, in particolare quello al rispetto della vita, perché nonostante una sentenza di condanna dei tribunali italiani nel 2016 di due manager tedeschi, questi restano in libertà. Secondo i ricorrenti, in tutto 26, la violazione del loro diritto alla vita deriverebbe «dalle omissioni e dai ritardi delle autorità italianee tedesche nel dare esecuzione alla sentenza di condanna dei due manager». I ricorrenti affermano anche di non aver altro modo, se non attraverso la Corte di Strasburgo, per far valere i loro diritti nei confronti di Roma e Berlino. Il ricorso era arrivato a Strasburgo il 12 aprile dello scorso anno.
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Várhelyi, designato per l'Allargamento, non ha superato l'audizione a Bruxelles. Bocciato da socialisti, liberali, Verdi e sinistra. Altro introppo sulla strada dell'insediemento di Von der Leyen.
Rimandato. Il commissario designato dall’Ungheria per l’Allargamento, Olivér Várhelyi, non ha superato l’esame nell’audizione del 14 novembre al parlamento europeo. È mancata la maggioranza a favore dell’esponente del Partito popolare europeo (Ppe) nella riunione dei coordinatori della commissione. Al commissario designato devono essere posti ulteriori quesiti.
SOTTO ESAME ANCHE IL FRANCESE BRETON E LA ROMENA VALEAN
Sono stati socialisti, liberali, Verdi e Gue (Sinistra unitaria europea) ad aver determinato la bocciatura di Várhelyi. Al parlamento europeo sono in programma nella stessa giornata le audizioni di tre commissari designati da Ungheria, Francia e Romania. Oltre a Várhelyi tocca al francese Thierry Breton per il mercato Interno e poi alla romena Adina Valean con il portafoglio ai Trasporti.
IN ATTESA DEL VOTO SULL’INTERA COMMISSIONE
Se i tre commissari fossero stati “promossi” alle audizioni, la plenaria di Strasburgo il 27 novembre si sarebbe espressa con un voto sulla Commissione in toto in modo che Ursula von der Leyen potesse insediarsi a Palazzo Berlaymont a inizio dicembre. Ma sull’ungherese è subito arrivato un intoppo.
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