L’insulto del direttore leghista di Aler: «Le sardine infilatevele nel c…»

Della Torre dell'Azienda lombarda edilizia residenziale: «Quello degli imbecilli è un gene». Di Marco, consigliere regionale M5s: «Becero e vergognoso, riveste ruoli di vertice nell'amministrazione dei beni pubblici».

Ormai sono un marchio registrato, hanno più o meno un leader e un manifesto, invadono le piazze e collezionano nuovi fan. Ma anche tanti nemici. Sono le sardine, il movimento nato dal basso per contrastare l’avanzata populista e sovranista di Matteo Salvini. A qualcuno però la cosa non va giù. Prima c’è stato il professore emiliano che ha minacciato i suoi studenti nel caso fossero andati a manifestare, ora è spuntato Corrado Della Torre, direttore generale di Aler, l’Azienda lombarda edilizia residenziale di Brescia-Mantova-Cremona in quota Lega. Che ha scatenato un altro caso politico.

IL M5S: «PARLA COME UN ODIATORE QUALSIASI»

In un post su Facebook ha scritto: «Le sardine infilatevele nel c…, evidentemente quello degli imbecilli è un gene». Nicola Di Marco, consigliere regionale del Movimento 5 stelle Lombardia, ha commentato così: «Sono dichiarazioni becere e vergognose, Della Torre ogni volta che parla rappresenta un ente regionale di primo piano, non può parlare come un odiatore qualsiasi». Poi ha aggiunto: «Il movimento delle sardine, al di là di quello che esprime, va rispettato soprattutto da chi riveste ruoli di vertice nell’amministrazione di beni pubblici».

MA A FERRARA C’È UN LEGHISTA CHE VUOLE INCONTRARLE

Non tutti i leghisti però dialogano a suon di insulti. Il sindaco di Ferrara Alan Fabbri, in vista della manifestazione prevista per sabato 30 novembre, ha detto: «Per le sardine la porta del Comune è sempre aperta, sono disponibile a incontrare gli organizzatori e ad ascoltare idee e proposte». Fabbri, ospite di Omnibus, ha aggiunto: «L’occasione è ottima per uscire dagli schemi della contrapposizione, la nostra amministrazione si è insediata da poco, stiamo costruendo le basi per il futuro della città e siamo aperti al dialogo con chiunque abbia qualcosa da dire e voglia contribuire al bene comune, superando le logiche della strumentalizzazione politica».

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Cos’è successo nella rissa alla Camera sul Mes

Bagarre a Montecitorio mentre si parlava della riforma del fondo salva-Stati. Fischi e urla dai banchi del centrodestra, sedia sfasciata (da un leghista?), polso slogato per Mulè di Forza Italia e una deputata di Leu uscita in lacrime. Il tutto davanti alle scolaresche. Fico: «Spettacolo inaccettabile, presto sanzioni».

Non bastava la polemica politica in salsa sovranista e la già insopportabile leggerezza del dibattito sul Mes. È arrivata anche la rissa nell’Aula della Camera. Tutta colpa, ancora una volta, dell’ormai famigerato Meccanismo europeo di stabilità, cioè il fondo salva-Stati che dopo mesi di negoziati è a un passo dal traguardo.

TESTO NON PIÙ NEGOZIABILE: APRITI CIELO

La bagarre è scoppiata a Montecitorio dopo l’audizione del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che ha definito «comico» il rischio paventato dall’opposizione che vedrebbe l’Italia messa a in pericolo dalla riforma del trattato istitutivo del Mes. Gualtieri a Palazzo Madama ha anche detto che, «no», il testo ormai non si può più rinegoziare, «è stato chiuso». Tanto è bastato per scatenare il putiferio.

SI PARLA ADDIRITTURA DI «ALTO TRADIMENTO»

Il ministro del Tesoro così si è attirato l’accusa di «alto tradimento» (già peraltro paventata con nonchalance in televisione da Matteo Salvini per il premier Giuseppe Conte) da parte della presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Il leghista Claudio Borghi ha invece parlato di «infedeltà in affari di Stato», invitando il governo a riferire alla Camera: «Altrimenti porteremo Conte in tribunale».

E C’ERANO PURE GLI STUDENTI AD ASSISTERE

Nel frattempo in Aula si è quasi venuti alle mani, tanto che il presidente Roberto Fico è stato costretto a sospendere la seduta e convocare una Capigruppo. Con l’aggravante che lo “spettacolo” è andato in scena di fronte alle scolaresche presenti. Dai banchi del centrodestra sono arrivati fischi e urla e vicino a dove siedono gli stenografi si sono accalcati diversi deputati: Giorgio Mulè di Forza Italia ha provato a mettersi in mezzo e ne è uscito con un polso slogato.

Ho sempre pensato che ci chiamassero onorevoli perché dobbiamo comportarci in maniera onorevole. Stasera non c’era onore, solo violenza e io me ne vergogno


Rossella Muroni di Leu

Un altro parlamentare – secondo alcuni colleghi sarebbe stato il leghista Daniele Belotti – ha presino distrutto una sedia. Rossella Muroni, deputata di Liberi e uguali, se n’è andata piangendo. E sui social network ha scritto: «Abbandono l’aula di Montecitorio in lacrime e non mi vergogno a dirlo. Mi vergogno invece per la scena di violenza a cui hanno assistito due scolaresche in visita. Una rissa in piena regola come ci si aspetterebbe in un bar malfamato. E invece era l’aula di Montecitorio. Ho sempre pensato che ci chiamassero onorevoli non perché qualcuno ci debba rendere onore, ma perché dobbiamo comportarci sempre in maniera onorevole. Stasera non c’era onore, solo violenza e io me ne vergogno».

FICO: «ISTRUTTORIA DEI QUESTORI SUI DISORDINI»

Su Facebook invece è intervenuto Fico: «Quello che è successo nell’aula della Camera è inaccettabile. Lo voglio stigmatizzare in maniera netta. Sono comportamenti che non possono appartenere alle istituzioni. Ad assistere a questo indecente spettacolo sono stati anche dei ragazzi delle scuole che erano in visita qui alla Camera. Al più presto i questori faranno un’istruttoria sui disordini e l’Ufficio di presidenza provvederà alle opportune sanzioni».

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I veti incrociati tra M5s e Pd bloccano le nomine Rai

Dietro il nuovo rinvio lo stallo sulle testate. No dei pentastellati a Orfeo al Tg3. I dem replicano mettendo in dubbio la permanenza di Carboni al Tg1.

Nuovo stop sulle nomine Rai. Dopo il rinvio dell’11 novembre, un altro nulla di fatto all’indomani di riunioni e trattative che non hanno portato a una fumata bianca. I curricula, che dovevano essere presentati la mattina del 27 novembre dall’amministratore delegato Fabrizio Salini, non sono arrivati ai consiglieri, nonostante l’intesa sembrasse vicina. La seconda rete dal 29 novembre è priva della guida di Carlo Freccero, pronto a lasciare il suo incarico per aver raggiunto il limite del mandato. L’ipotesi più probabile è un interim, che potrebbe essere assunto dallo stesso Salini o da Marcello Ciannamea, in pole poi per la direzione della rete.

IL VETO DEI CINQUE STESSE SU ORFEO

Stando a fonti parlamentari riportate dall’Ansa, lo strappo è stato provocato dalle possibili nomine alle testate. I cinque stelle, in particolare Luigi Di Maio, avrebbero posto il veto su Mario Orfeo alla direzione del Tg3, provocando una reazione dei dem che avrebbero a quel punto messo in discussione la permanenza di Giuseppe Carboni al Tg1. Mentre per quel ruolo si fa avanti, con supporto di Italia Viva, Andrea Montanari, il Pd pare pronto a far saltare anche la candidatura di Franco Di Mare a Rai3, poltrona che sarebbe lasciata libera da Stefano Coletta che passerebbe alla guida della rete ammiraglia. Anche l’uscita di Giuseppina Paterniti dal Tg3 in direzione RaiNews non metterebbe tutti d’accordo, anche perché non resterebbe più alcuna donna al timone delle tre principali reti e testate Rai. I cinque stelle vogliono che mantenga un incarico di peso e spingono nel contempo la candidatura di Francesco Giorgino per una direzione.

IL NODO DEI TAGLI IN MANOVRA

Nel Consiglio di amministrazione del 28 novembre si parlerà del percorso di attuazione del piano industriale, di ordini e contratti, della situazione immobiliare. Il discorso nomine è rinviato al Cda di dicembre o a una riunione straordinaria. I tempi non saranno brevi. Anche perché a influire sullo stop sarebbero stati i possibili nuovi tagli ai trasferimenti alla tivù pubblica previsti in una serie di emendamenti alla manovra. L’ad in Commissione di Vigilanza ha lanciato l’allarme sull’impatto che la riduzione delle risorse avrebbe sulla realizzazione del piano industriale. In caso di un taglio del budget, rispetto a quello preventivato al momento della stesura del progetto, sarebbe necessario rivederne il perimetro. In particolare in relazione agli oneri specifici derivanti dal contratto di servizio, come la realizzazione del canale inglese e del canale istituzionale. Le nomine sono fanno parte di un percorso delineato che, a questo punto, rischia di essere modificato.

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Confermata in Appello la seconda condanna per Lula

L'ex presidente del Brasile riconosciuto colpevole dei reati di corruzione e riciclaggio da due giudici su tre. Rischia fino a 17 anni e un mese.

Il Tribunale Federale Regionale di Porto Alegre ha confermato la seconda condanna a carico di Lula. L’ex presidente del Brasile è stato riconosciuto colpevole dei reati di corruzione e riciclaggio da due giudici su tre.

Gebran Neto, magistrato relatore del processo, non solo ha confermato la pena a 12 anni e 11 mesi imposta in primo grado. Ma accogliendo la richiesta della procura ha chiesto che venga aumentata a 17 anni e un mese.

Il suo collega, Leandro Paulsen, ha accompagnato questa decisione nel merito del caso, ma non si è espresso sulla possibilità di aumentare la pena. Si attende ora la dichiarazione del terzo magistrato, Carlos Eduardo Thompson Flores Lenz.

LE ACCUSE NEI CONFRONTI DI LULA

Lula è accusato di aver ricevuto in dono, da parte di varie aziende edilizie, l’uso di una residenza nella località di Atibaia, nell’entroterra dello Stato di San Paolo, come compenso per il trattamento preferenziale dato alle società da parte del suo governo.

DA POCHE SETTIMANE FUORI DAL CARCERE

Si tratta del secondo processo in cui è imputato l’ex presidente, dopo quello detto del “triplex di Guarujà”, per cui Lula ha passato 580 giorni in carcere per una condanna confermata in Appello, prima di essere scarcerato l’8 novembre in attesa di esaurire tutti i possibili ricorsi.

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Confermata in Appello la seconda condanna per Lula

L'ex presidente del Brasile riconosciuto colpevole dei reati di corruzione e riciclaggio da due giudici su tre. Rischia fino a 17 anni e un mese.

Il Tribunale Federale Regionale di Porto Alegre ha confermato la seconda condanna a carico di Lula. L’ex presidente del Brasile è stato riconosciuto colpevole dei reati di corruzione e riciclaggio da due giudici su tre.

Gebran Neto, magistrato relatore del processo, non solo ha confermato la pena a 12 anni e 11 mesi imposta in primo grado. Ma accogliendo la richiesta della procura ha chiesto che venga aumentata a 17 anni e un mese.

Il suo collega, Leandro Paulsen, ha accompagnato questa decisione nel merito del caso, ma non si è espresso sulla possibilità di aumentare la pena. Si attende ora la dichiarazione del terzo magistrato, Carlos Eduardo Thompson Flores Lenz.

LE ACCUSE NEI CONFRONTI DI LULA

Lula è accusato di aver ricevuto in dono, da parte di varie aziende edilizie, l’uso di una residenza nella località di Atibaia, nell’entroterra dello Stato di San Paolo, come compenso per il trattamento preferenziale dato alle società da parte del suo governo.

DA POCHE SETTIMANE FUORI DAL CARCERE

Si tratta del secondo processo in cui è imputato l’ex presidente, dopo quello detto del “triplex di Guarujà”, per cui Lula ha passato 580 giorni in carcere per una condanna confermata in Appello, prima di essere scarcerato l’8 novembre in attesa di esaurire tutti i possibili ricorsi.

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Clima e migranti tra le priorità della nuova Europa di Von der Leyen

Via libera alla Commissione. La presidente cita l'emergenza dell'acqua alta a Venezia come simbolo della lotta al riscaldamento globale. E sui profughi chiede «solidarietà» da parte degli Stati membri, parlando di un approccio «umano». Le sfide.

Adesso che ha passato la prova del voto del parlamento europeo, la Commissione targata Ursula von der Leyen può insediarsi a Palazzo Berlaymont il primo dicembre 2019. Con sfide definite «esistenziali» di fronte a sé, come quella dell’ambiente e della protezione del clima. Ma non solo.

GREEN NEW DEAL NEI PRIMI 100 GIORNI

Nel discorso prima del voto di fiducia alla sua squadra, l’ex ministra della Difesa tedesca ha citato il caso di Venezia sott’acqua, lanciando poi un monito a «non perdere neanche un secondo». Propositi pronti a prendere forma nel pacchetto sul Green New Deal che il neo esecutivo comunitario intende mettere sul tavolo nei primi 100 giorni.

«ITALIA, SERVE EQUILIBRIO TRA CONTI E INVESTIMENTI»

Sull’Italia, in particolare, ha detto poi a SkyTg24 che è «molto importante trovare un giusto equilibrio tra conti pubblici solidi, di cui c’è ovviamente bisogno, e gli investimenti per cui c’è abbastanza spazio».

MIGRANTI DA TRATTARE IN MODO «UMANO, EFFICACE ED ESAUSTIVO»

Spazio in Aula anche al tema dei migranti, che va trattato in modo «umano, efficace ed esaustivo», ha avvertito Von der Leyen, con ogni Stato membro chiamato a «mostrare solidarietà». Alla neo presidente non resta che mettersi al lavoro, conscia del fatto di avere alle spalle «un’ampia e stabile maggioranza», ma di poter contare allo stesso tempo anche su maggioranze trasversali a seconda dei temi affrontati di volta in volta.

POPOLARI, S&D E LIBERALI COMPATTI A FAVORE

In effetti il via libera è arrivato con numeri larghi: le tre grandi famiglie politiche dell’Eurocamera – Popolari, Socialisti & democratici e liberali di Renew Europe – hanno votato in modo compatto a favore, con qualche piccola sbavatura solo tra le file socialiste. Si è invece spaccata la delegazione dei cinque stelle (a luglio era stata determinante per eleggere la tedesca): 10 hanno votato a favore, due si sono astenuti e altri due hanno detto no.

CONSENSO MAGGIORE RISPETTO AL PREDECESSORE JUNCKER

Divisi anche i conservatori, con la bocciatura di Fratelli d’Italia e i sì del Pis polacco. Ma pure i Verdi si sono sfilacciati, e la maggioranza del gruppo si è astenuta. Dai sovranisti di Identità e democrazia (di cui fa parte la Lega) è invece arrivata una unanime porta in faccia. Complessivamente comunque la nuova Commissione – promossa con 461 sì, 157 contrari e 89 astenuti – ha portato a casa un ottimo risultato, facendo meglio di quella precedente targata Juncker: nel 2014 l’esecutivo del lussemburghese ebbe 423 voti a favore, 209 contrari e 67 astenuti (su 751 eurodeputati). I numeri ci sono, alla squadra composta da 27 commissari – manca quello britannico – ora non resta che affrontare le sfide enunciate.

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Le carte di Corbyn, tra voto giovanile e indipendentisti scozzesi

I 4,1 milioni di nuovi elettori sono un'ottima notizia per il leader laburista, popolarissimo tra i ventenni. Mentre l'Snp apre a un'alleanza progressista contro Johnson.

Oltre 4 milioni di nuovi elettori. A loro si aggrappa il partito laburista di Jeremy Corbyn per rovesciare il tavolo e sorprendere il premier conservatore Boris Johnson alle elezioni britanniche del 12 dicembre. Il dato rappresenta un record, nel 2017 furono 2,9 milioni. Su questo voto giovanile fa leva il Labour contro i conservatori favoriti dai sondaggi. Di quei 4,1 milioni di nuovi elettori i tre quarti sono under 34: una platea che 2 anni fa aveva quasi fatto saltare il banco portando i laburisti a un 40% non previsto da nessuno, con tassi di consenso pro-Corbyn fra i ventenni a livelli da plebiscito. Il dato va preso con le molle, anche perché le nuove iscrizioni vanno validate. Ma comunque rischia di minacciare i piani di BoJo, che per vincere le elezioni (e onorare la promessa di attuare la Brexit entro Natale) ha bisogno di assicurarsi una maggioranza assoluta di seggi nella nuova Camera dei Comuni. Al Labour e al resto delle opposizioni potrebbe invece anche bastare il risultato di un parlamento frammentato.

OCCHI PUNTATI SULLA SANITÀ

Per recuperare consensi Corbyn ha giocato la carta di una conferenza stampa sulla difesa della sanità pubblica (Nhs), uno dei suoi cavalli di battaglia più popolari. E ha svelato 451 pagine di documenti riservati sui negoziati preliminari fra i governi Tory e l’amministrazione di Donald Trump sui temi di un futuro accordo bilaterale di libero scambio post Brexit che sembrano almeno in parte accreditare lo scenario d’ipotetici cedimenti a infiltrazioni delle corporation Usa negli ospedali del Paese. La conferma che «la Nhs sarà messa in vendita», nelle denunce laburiste liquidate da Johnson come «assurdità e bugie». Corbyn poi ha incassato l’apertura degli indipendentisti scozzesi dell’Snp – potenzialmente cruciali nel parlamento del dopo 12 dicembre – all’idea di «un’alleanza progressista»: l’appoggio a un eventuale governo Corbyn di minoranza cementato dall’obiettivo comune di un secondo referendum sulla Brexit, pur con la condizione-capestro ripetuta dalla first minister di Edimburgo, Nicola Sturgeon, di un parallelo bis referendario sulla secessione della Scozia pure nel 2020.

TORNANO LE ACCUSE DI ANTISEMITISMO

Segnali di incoraggiamento che tuttavia non cancellano il coro ostile anti-Jeremy dei media mainstream, rilanciato dalle accuse di appeasement verso «il veleno» di certi rigurgiti «anti-ebraici» scagliate il 26 novembre contro il numero uno laburista dal gran rabbino del Regno Unito, Ephraim Mirvis. Accuse da cui Corbyn ha tentato di difendersi in un’affannata intervista alla Bbc di fronte alle incalzanti domande di Andrew Neil, ex firma del conservatore Spectator, condannando con forza l’antisemitismo. Ma ostinandosi a non rinnovare le scuse rivolte alla comunità ebraica un anno fa. Scuse che invece Boris s’è d’un tratto affrettato a fare, dopo essersi rifiutato per mesi, sui fenomeni d’islamofobia imputati ai Tory. Un modo per lasciare al solo Corbyn l’etichetta di “cattivo”.

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Borghi minaccia di portare Conte in Tribunale per il Mes

Secondo il deputato della Lega, il premier avrebbe «approvato un testo definitivo senza informare il parlamento».

Il deputato della Lega Claudio Borghi minaccia di portare il premier Giuseppe Conte in Tribunale per la gestione del dossier Mes, il fondo salva-Stati che i Paesi membri dell’Unione europea si apprestano a riformare.

LEGGI ANCHE: Cos’è il Mes e perché Salvini e Meloni attaccano il governo

Il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, nel corso di un’audizione in parlamento ha detto che le preoccupazioni in merito sono «del tutto infondate».

LEGGI ANCHE: L’insopportabile leggerezza del dibattito sul Mes

Ma secondo Borghi «quanto detto da Gualtieri sul Mes è gravissimo ed evidenzia comportamenti che potrebbero anche configurare eversione. Il premier Conte ha nei fatti approvato un testo definitivo e inemendabile senza informare il parlamento. Una cosa gravissima. È stato scavalcato il parlamento su un trattato internazionale da approvare a scatola chiusa. Questa è infedeltà in affari di Stato. Vogliamo che Conte riferisca subito in parlamento. Se non arriva, lo porteremo in Tribunale. L’avvocato del popolo si cerchi un avvocato».

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Il caso della villa di Renzi sulle colline di Firenze

Il settimanale l'Espresso pubblica un'inchiesta esclusiva. L'ex premier avrebbe ricevuto un prestito dalla famiglia Maestrelli, che ha finanziato la fondazione Open. Uno dei membri nominato in Cdp.

Il settimanale l’Espresso, con un’inchiesta esclusiva in edicola domenica 1 dicembre e anticipata dal sito web, mette in imbarazzo il leader di Italia viva Matteo Renzi.

Secondo i giornalisti Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian, un imprenditore nominato dal governo Renzi in Cassa depositi e prestiti, e che figura tra i finanziatori della fondazione Open, avrebbe prestato 700 mila euro all’ex premier tramite l’anziana madre, per comprare una villa sulle colline di Firenze.

L’acquisto, per un totale di 1,5 milioni di euro, risale a luglio 2018. La villa è intestata per metà a Renzi e per l’altra metà alla moglie, Agnese Landini. Il prestito sarebbe arrivato, sempre secondo l’Espresso, dalla famiglia Maestrelli.

La stessa famiglia cui appartiene Riccardo Maestrelli, che a maggio 2015 è stato nominato dal governo presieduto da Renzi nel cda di Cassa depositi e prestiti.

Contattato da l’Espresso, il leader di Italia viva ha minacciato querela: «Vi risulta il prestito e non vi risulta la restituzione? Sicuro sicuro? Non confermo e non smentisco nulla. Andremo in causa».

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Fondazioni e Think Tank, perché i controlli non funzionano

Aver equiparato associazioni e partiti e istituto una Commissione ad hoc non ha risolto i problemi. I cinque magistrati designati dovrebbero monitorare 6 mila organizzazioni e 56 mila persone. Ma mancano risorse e personale. Il report di OpenPolis.

Fatta la legge per i controlli sulle fondazioni, trovata la mancanza. Di risorse e personale. Con la conseguenza di vanificare gran parte delle intenzioni della riforma.

La norma, che equipara le fondazioni ai partiti, è entrata in vigore con il decreto Spazzacorrotti ed è stata ritoccata dal decreto Crescita e impone alle associazioni di pubblicare gli organi direttivi, il bilancio, lo Statuto e le donazioni. Ma presenta comunque un grande bug: non ci sono adeguate dotazioni di personale per verificare chi opera nelle fondazioni, tornate al centro della cronaca per le indagini su Open, la cosiddetta cassaforte renziana.

Su questo caso sarà l’inchiesta a chiarire le cose, ma un fatto è già assodato: la riforma voluta dal governo gialloverde non cambia le cose, almeno se si parla di controllo. Anzi fa perdere i magistrati, responsabili delle verifiche, in un mare magnum di nomi e informazioni. Smarriti in una platea sterminata da monitorare. 

LA COMMISSIONE DI GARANZIA È COMPOSTA SOLO DA 5 MAGISTRATI

La Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici, chiamata a monitorare su questi enti, è formata infatti da cinque magistrati, esattamente come quando è stata istituita. Alla nascita aveva però solo il compito di controllare i partiti e i movimenti politici, che – per quanto numerosi – sono comunque inferiori alla fioritura di fondazioni. Uno studio OpenPolis, pubblicato qualche giorno fa, fornisce numeri impressionanti: dovrebbero essere sottoposti a verifiche quasi 54 mila persone, per un totale di oltre 6 mila organizzazioni.

IL MARE MAGNUM DELLE ORGANIZZAZIONI

«Per la legge rientrano nel novero delle organizzazioni da monitorare tutte quelle strutture i cui organi direttivi sono composti per un terzo da persone che hanno avuto incarichi politici negli ultimi sei anni nel parlamento europeo e nazionale, nel governo, nelle regioni e nei comuni con più di 15 mila abitanti», spiega nel dettaglio il dossier. «Stiamo parlando di 53.904 persone, un numero talmente elevato che rende la fattibilità stessa dell’operazione un’illusione. Di fronte a questi numeri gli allarmi lanciati dalla commissione di garanzia sul non avere i mezzi per svolgere il proprio mandato sembrano legittimi». Il giudizio è quindi tranchant: «La normativa per com’è ora serve infatti solo ad anestetizzare il problema: una legge scritta male e un organo di controllo che non ha i mezzi per vigilare».

SEIMILA ASSOCIAZIONI DA MONITORARE

Una relazione della stessa Commissione, risalente allo scorso maggio, ha evidenziato la questione dell’immane lavoro da svolgere a fronte di risorse limitate: «Nell’ampliamento della nozione di partito e di movimento politico segue il notevole incremento dei compiti di controllo e sanzionatori della Commissione, a cui si aggiunge un’intensa attività istruttoria per l’identificazione delle diverse realtà associative destinatarie della nuova normativa, che si possono ipotizzare in circa 6 mila unità», si legge nel documento consegnato alla Camera. Nel passaggio successivo c’è la denuncia della situazione: «Funzioni da espletare con risorse umane e organizzative invariate e in assenza di ogni supporto economico dei compiti di istituto». Insomma, una precisa richiesta di potenziamento dell’organico, uno degli ultimi atti dell’ex presidente, Luciano Calamaro, che ha rassegnato le dimissioni a giugno. Al suo posto è stato nominato Amedeo Federici, affiancato dagli altri quattro componenti dell’organismo, Fabrizio Di Marzio, Salvatore Cacace, Laura Cafasso e Luisa De Petris. Peraltro, ai componenti della Commissione «non è corrisposto alcun compenso o indennità per l’attività prestata», come recita la legge istitutiva.

NEL MIRINO SOPRATTUTTO CONSIGLIERI, ASSESSORI E SINDACI

OpenPolis ha messo insieme un po’ di numeri, utili a capire le dimensioni del fenomeno. La fetta maggiore delle persone da monitorare riguarda chi ha occupato ruoli nei comuni con più di 15 mila abitanti: si parla di 48.955 tra consiglieri, assessori e sindaci. Il 90% del totale. Mentre sono 4.949 i politici in ambito nazionale ed europeo, così suddivisi: 208 nel parlamento europeo, 245 nel governo, 663 nel Senato, 1.303 nella Camera, 2.530 nelle Regioni. Una cifra impegnativa, ma che renderebbe possibile uno screening. «È ingenuo mettere sullo stesso piano organizzazioni strutturate come Italianieuropei o Aspen, con realtà associative locali coinvolte dalla normativa solamente perché un terzo degli organi apicali è composto da politici con incarichi comunali», chiosa OpenPolis.

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