Il doppio fronte che rischia di mandare in crisi il governo sull’ex Ilva

Guerra aperta tra il governo e ArcelorMittal: la chiusura sarebbe un colpo mortale per il Conte 2. E sullo scudo il braccio di ferro tra M5s e Pd può riscrivere i rapporti di forza all'interno della maggioranza. Già messa alla prova dal nodo Regionali.

Il binario della guerra tra governo e ArcelorMittal è doppio. E duplice è il rischio della crisi per l’esecutivo. In primis c’è il binario del futuro dello stabilimento: una chiusura sarebbe un colpo mortale per l’esecutivo. Il secondo binario è invece prettamente politico e viaggia sul filo di quello «scudo penale» attorno al quale si consuma lo scontro tra Movimento 5 stelle e Partito democratico.

DI MAIO E FRANCESCHINI GIÀ AL LAVORO SU UN PIANO B

È uno scontro, al momento, solo verbale, al quale Luigi Di Maio e Dario Franceschini accompagnano già l’ipotesi di un piano B: quello di sedersi attorno a un tavolo, dopo la manovra, per un patto che puntelli programma e esecutivo. Quel tavolo, prima di gennaio, non vedrà la luce. Infatti, come condizione preliminare, i partiti di maggioranza sono chiamati a sotterrare l’ascia di guerra sulla manovra e, soprattutto, sull’ex Ilva. Non sarà facile. Su ArcelorMittal le posizioni sono rigide.

IL M5S IRRIGIDITO DALL’IPOTESI SCUDO

Pd e Italia viva restano ferme sulla necessità, comunque vada la trattativa, di ripristinare quello scudo che il M5s, sotto la spinta dei ribelli pugliesi, ha tolto dal dl imprese. È una posizione nei confronti della quale Di Maio si irrigidisce, sposando la causa “identitaria” cara a gran parte dei parlamentari. In realtà il capo politico ha poche alternative. Il nodo dello scudo, che ricorda ormai quello della Tav, rischia di far implodere i gruppi in un momento in cui perfino il dissenso sembra non avere una linea comune. Inutile, ragionano nel Movimento, impiccarsi al principio di uno scudo penale che, al momento, non è risolutivo neppure sull’ex Ilva. Certo, lo stallo sulla trattativa tra il governo e i Mittal potrebbe sbloccarsi da un momento all’altro. E, nel caso lo scudo si rivelasse necessario per salvare lo stabilimento il capo politico metterebbe i suoi parlamentari di fronte a una scelta decisiva. Tra l’ex Ilva o il governo. Di Maio fa il punto della situazione con i “suoi” ministri nel pomeriggio, nell’appartamento che, solitamente, ospita i vertici più delicati. Si parla di ex Ilva, ma anche di una rivolta interna ormai permanente.

IL NODO DELLE REGIONI AUMENTA LE TENSIONI

I vertici del Movimento, in un altro momento storico, forse avrebbero fatto scattare la tagliola delle epurazioni. Di Maio, per ora, opta per la “carota”: accelerare sulla riorganizzazione del Movimento e prospettare, per il 2020, degli stati generali “rifondativi” per i Cinque stelle. Non è detto che basterà, anche perché ad aumentare la tensione c’è il nodo Regionali: l’ipotesi di un’alleanza con il Pd, almeno per Emilia-Romagna e Calabria, è sepolta. E’ vivissima, invece, l’idea di non scendere in campo in alcune Regioni. Idea contro la quale si scagliano Danilo Toninelli e Barbara Lezzi. Alla fine sembra difficile che il M5s non scenda in campo in Calabria, dove la prospettiva di una campagna all’insegna del civismo non dispiace ai vertici. Ma in Emilia l’ipotesi di una desistenza, nonostante le divisioni interne in atto, è tutt’altro che da escludere. Il nodo Regionali scuote anche i rapporti Pd-M5S. Sull’Emilia-Romagna Nicola Zingaretti si gioca tutto o quasi. E non vuole arrivare al 26 gennaio con un governo ansimante. «Meno polemiche e più solidarietà», è l’invito del segretario.

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Segre, lo stupore per la scorta e l’incontro con Salvini

La senatrice a vita: «Mai l'ho chiesta e mai me la sarei aspettata». A casa sua riceve il leader della Lega accompagnato dalla figlia. E il futuro della Commissione contro l'odio resta incerto.

E alla fine Matteo Salvini incontrò Liliana Segre. Il senatore faccia a faccia con la senatrice a vita sopravvissuta ai lager nazisti. Dopo le polemiche per l’astensione del centrodestra nel voto che ha istituito la Commissione contro odio, antisemitismo e razzismo. E dopo quell’uscita infelice del leghista in seguito all’assegnazione della scorta proprio alla Segre: «Le minacce contro lei, contro Salvini, contro chiunque sono gravissime», aveva detto l’ex vicepremier parlando di se stesso in terza persona. Per poi aggiungere: «Anche io ne ricevo quotidianamente». Nel pomeriggio i due si sono visti nell’abitazione della Segre: Salvini si è presentato con la figlia, ma c’è massimo riserbo sui contenuti del loro colloquio.

MATTARELLA RICHIAMA AL SENSO DI RESPONSABILITÀ

Di certo quei 200 messaggi di odio che giungono quotidianamente alla Segre non sono passati inosservati e il capo dello Stato Sergio Mattarella è intervenuto richiamando alla «convivenza» e al «senso di responsabilità» come mezzo per contrastare «intolleranza» e «contrapposizione».

Certamente non mi aspettavo la scorta, non l’ho mai chiesta e non pensavo mai che l’avrei avuta


Liliana Segre

Sul caso che la vede suo malgrado protagonista la Segre ha rotto il silenzio in cui si era blindata: «Certamente non mi aspettavo la scorta, non l’ho mai chiesta e non pensavo mai che l’avrei avuta», ha detto ai microfoni di Rainews24. Quanto alla Commissione parlamentare da lei voluta, non ha sciolto il nodo se la presiederà o se comunque ne farà parte: «Vedremo quale sarà il mio ruolo». Su un punto però è stata molto chiara: «Non ho voluto la Commissione contro l’antisemitismo, ma assolutamente contro l’odio e come tale vorrei fosse programmata. C’è un’atmosfera di odio e odio è una parola orribile». Mentre i partiti continuano a litigare tra di loro anche su temi che non dovrebbero essere divisivi.

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L’ex presidente brasiliano Lula è libero

Scarcerazione sprint per l'ex leader. La Corte suprema ha deciso il 7 novembre di cambiare la propria giurisprudenza. E l'8 è stata accolta la richiesta della difesa.

Libero, grazie a un cambiamento nella giurisprudenza. Il presidente brasiliano Danilo Pereira Jr, del tribunale penale federale di Curitiba, ha accolto la richiesta della difesa dell’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva per la sua scarcerazione e lo ha autorizzato a lasciare la prigione di Curitiba, dove sta scontando la sua pena dall’aprile del 2018.

Manifestanti davanti alla prigione dove era incarcerato l’ex presidente Ignacio Luca da Silva. EPA/HEDESON ALVES

L’ex presidente brasiliano era agli arresti dal 7 aprile 2018 con l’accusa di corruzione e riciclaggio di denaro nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato, considerata la Mani Pulite verdeoro. Ma era talmente sicuro di essere scarcerato da avere addirittura annunciato “un grande discorso alla nazione”, una volta fuori, oltre a far sapere che lascerà la prigione “più a sinistra” di quando vi è entrato. L’ottimismo era giustificato visto che il 7 novembre la Corte suprema di Brasilia ha deciso a maggioranza risicata (5 contrari e 6 favorevoli, grazie al voto decisivo del presidente del tribunale, Antonio Dias Toffoli), di modificare la propria giurisprudenza stabilendo che un imputato possa essere privato della libertà solo dopo aver esaurito tutti i ricorsi possibili.

MANCA IL RICORSO ALLA CORTE SUPREMA

L’ex presidente-operaio è già stato condannato in tre gradi nel caso del cosiddetto “triplex di Guarujà”, ma può ancora ricorrere proprio alla Corte suprema. E infatti i suoi legali hanno presentato subito l’8 novembre una richiesta di “scarcerazione immediata” alla giudice Carolina Lebbos, del foro di Curitiba, città dello Stato meridionale di Paranà dove Lula si trova attualmente detenuto. E gli è stata concessa immediatamente.

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Un’altra donna ha accusato Polanski di stupro in Francia

Valentine Monnier, fotografa ed ex modella, ha detto che il regista l'avrebbe violentata nel 1975. «Mi riempì di botte, avevo solo 18 anni».

Una donna francese, Valentine Monnier, ha accusato il regista Roman Polanski di averla violentata nel 1975. A raccoglierne la testimonianza è stato il quotidiano Le Parisien. Fotografa, ex modella a New York, attrice in qualche film, la donna ha detto di essere stata stuprata «con estrema violenza, dopo una discesa in sci, nello chalet di Gstaad, in Svizzera», del regista. «Mi colpì, mi riempì di botte» – ha raccontato – «fino a quando non opposi più resistenza, poi mi violentò facendomi subire di tutto. Avevo appena 18 anni».

LA CONFESSIONE ISPIRATA DALL’ULTIMO FILM DI POLANSKI

«Nel 1975», ha scritto in un testo dopo aver più volte chiesto sostegno a personalità come Brigitte Macron o la ministra Marlene Schiappa – «fui violentata da Roman Polanski. Non avevo alcun legame con lui, né personale, né professionale e lo conoscevo appena. Fu di estrema violenza, dopo una discesa sugli sci. È stato l’ultimo lavoro di Polanski, J’accuse, l’ha spinta a uscire allo scoperto. Dopo aver ricevuto sempre risposte evasive o di impotenza da un punto di vista giudiziario vista la prescrizione dei fatti, ha deciso di rivelare tutto a Le Parisien: «Il ritardo di reazione non significa che si è dimenticato» – dice – «lo stupro è una bomba a orologeria. La memoria non si cancella, diventa fantasma e ti insegue, ti cambia insidiosamente. Il corpo finisce spesso per risentire di quello che la mente ha tenuto in disparte, fino a quando l’età o un avvenimento di rimette di fronte al ricordo traumatico». Nel film, Polanski mette in scena l’errore giudiziario per antonomasia, la storia del capitano Alfred Dreyfus.

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Torino, dopo la bufera politica una donna travolta da un monopattino

La città è ancora senza regolamento dei nuovi mezzi di trasporto. Nonostante l'addio del capo della polizia municipale. Le opposizioni all'attacco.

Dopo le multe, e le polemiche che hanno portato alle dimissioni del comandante della polizia municipale Emiliano Bezzon, il primo incidente. Un monopattino ha investito su un marciapiede di Torino un pedone, una donna 56enne di origini moldave ferita in modo lieve. L’uomo alla guida del mezzo è stato identificato dai vigili urbani; potrebbe essere sanzionato. Il condizionale è d’obbligo, dal momento che c’è ancora incertezza sulle regole d’uso dei monopattini. E le opposizioni tornano all’attacco dell’Appendino.

«L’AMMINISTRAZIONE PROMUOVE UN USO SENZA REGOLE DEL MEZZO»

L’incidente all’ora di pranzo in corso Giulio Cesare, al civico 97. Per Fabrizio Ricca, capogruppo della Lega in Comune e assessore alla Sicurezza della Regione Piemonte, «assurdo non è che ci sia stato un incidente, cosa che purtroppo era preventivabile, ma che l’amministrazione di Torino non abbia previsto una possibilità così plausibile e abbia incentivato e promosso un uso deregolamentato dei monopattini». «In questo modo – accusa l’esponente del Carroccio – Appendino e i suoi assessori hanno esposto i cittadini non soltanto al rischio di multe, ma anche a quello di trovarsi a dover affrontare un sinistro stradale senza avere dalla propria alcun tipo di regolamento per il mezzo che stanno guidando. Senza parlare poi del rischio per i pedoni».

FDI CHIEDE LE DIMISSIONI DELLA SINDACA

«Cosa capiterà, adesso, a chi si trova, come in questo caso, coinvolto da un incidente mentre guidava un monopattino? Cosa capiterà per chi è stato investito? Difficile dirlo – osserva ancora Ricca – visto che fino ad oggi né il Comune né il Governo hanno detto parole chiare e Appendino oltre alle campagne social non ha parallelamente lavorato per fare sì che questi mezzi non diventassero un rischio per i torinesi». Dura anche la reazione di Fratelli d’Italia. La parlamentare Augusta Montaruli rinnova l’invito ad Appendino a dimettersi e chiede al Comune di risarcire la donna infortunata. «Da quanto abbiamo appreso – dice la deputata – la signora non ha fortunatamente riportato ferite gravi, ma questo non alleggerisce le responsabilità politiche del sindaco Appendino. Quanto tempo passerà – si chiede Montaruli – prima che qualche altro pedone faccia le spese di questo far west di monopattini elettrici senza regole? Non ci resta che rinnovare il nostro invito al sindaco Appendino: si dimetta per il bene dei torinesi. Questa città – conclude – merita di più».

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Confermata in Appello la condanna a un anno per Maroni

Pena sospesa per l'ex governatore della Lombardia nel secondo grado di giudizio del processo che lo vedeva imputato per le presunte pressioni per favorire due ex collaboratrici. Respinta la richiesta di un aumento.

Niente aumento di pena come aveva chiesto la procura generale, ma nemmeno uno sconto né l’assoluzione chiesta dal legale di Roberto Maroni che, nella scorsa udienza, si era anche difeso di persona con dichiarazioni spontanee. È stata confermata, infatti, la condanna a un anno, con sospensione della pena, e a 450 euro di multa per l’ex governatore lombardo, tra gli imputati nel processo di secondo grado con al centro presunte pressioni per favorire, quando era alla guida del Pirellone, due sue ex collaboratrici di quando era ministro dell’Interno.

RIQUALIFICATO UNO DEI DUE REATI RIMASTI IN PIEDI

«Con una sentenza di condanna di sicuro non è felice. Questo perché è un processo dove chiunque si aspetta di essere assolto», è stato il commento a caldo dell’avvocato Domenico Aiello, difensore dell’ex numero uno della Regione. La terza sezione penale della Corte d’Appello milanese, presieduta da Piero Gamacchio, ha solamente riqualificato, come richiesto anche dalla procura generale, uno dei due reati rimasto in piedi dopo la sentenza di primo grado del giugno 2018, quello di «turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente» in «turbata libertà degli incanti». Una riqualificazione, ha aggiunto il legale Aiello, che «necessita di una lettura delle motivazioni. Certamente impugneremo, perché non siamo d’accordo».

PER L’EX GOVERNATORE ERANO STATI CHIESTI DUE ANNI

Quest’accusa, per la quale è stata comunque confermata la pena di un anno, riguardava un incarico in Eupolis, ente di ricerca della Regione Lombardia, «preconfezionato», secondo l’accusa, e con «reddito e termini concordati» con Mara Carluccio (confermata la condanna a sei mesi) e da lei ottenuto anche grazie all’intervento di Andrea Gibelli, ai tempi segretario generale del Pirellone e ora presidente di Fnm spa. Per lui anche in secondo grado una pena di 10 mesi e 20 giorni. Confermata anche la condanna, pure per lui a un anno e a 450 euro di multa, per Giacomo Ciriello, all’epoca capo della segreteria di Maroni. Il sostituto pg Vincenzo Calia, però, coltivando i motivi d’appello del procuratore aggiunto Eugenio Fusco, aveva chiesto per l’ex presidente della Lombardia due anni e mezzo di reclusione (e per Ciriello due anni e due mesi), chiedendo che fosse dichiarato colpevole anche dell’altra imputazione di «induzione indebita». Una contestazione che riguardava il tentativo di fare inserire, a spese di Expo, Maria Grazia Paturzo, altra sua ex collaboratrice, nella delegazione che, nell’ambito del World Expo Tour, tra il 30 maggio e il 2 giugno 2014, aveva come meta Tokyo. Ipotesi che non ha retto nemmeno in secondo grado.

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L’annuncio della Turchia: iniziano lunedì le espulsioni di jihadisti

Il ministro degli Interni Suleyman Soylu a muso duro contro i Paesi europei: «Che vi piaccia o no, che ritiriate o no le loro cittadinanze, vi rimanderemo i membri dell'Isis, che sono la vostra gente, vostri cittadini». Gli italiani sono poco più di una decina.

A muso duro contro l’Europa. «Sono vostri, fatene quello che volete», ha detto il ministro degli Interni turco Suleyman Soylu venerdì 8 novembre, annunciando che lunedì 11 novembre la Turchia inizierà l’espulsione verso i Paesi d’origine dei jihadisti dell‘Isis catturati dalla Turchia. «Che vi piaccia o no, che ritiriate o no le loro cittadinanze, vi rimanderemo i membri dell’Isis, che sono la vostra gente, vostri cittadini».

100 FOREIGN FIGHTER BRITANNICI E POI FRANCESI E OLANDESI

Per Ankara è una prima risposta agli alleati Nato, accusati di averle voltato le spalle nell’offensiva contro le milizie curde in Siria, «schierandosi con i terroristi». Non è stato precisato quali saranno i Paesi inizialmente coinvolti, né come Ankara intenda forzare la mano in caso di mancato accordo con gli Stati di destinazione, visto che diversi accordi internazionali, tra cui la Convenzione di New York del 1961, vietano l’espulsione di apolidi. Oltre 100 sono i presunti jihadisti cui la Gran Bretagna ha ritirato il passaporto, tra cui figure note come Jack Letts, alias Jihadi Jack, o Shamima Begum, fuggita in Siria a 15 anni per unirsi all’Isis. Casi analoghi riguarderebbero Francia e Olanda. L’ultimatum non dovrebbe invece preoccupare l’Italia. Nelle prigioni turche, si apprende da fonti qualificate di intelligence e antiterrorismo, non ci sarebbero infatti combattenti del nostro Paese.

GLI ITALIANI SONO SOLO 13

Dalle ultime informazioni disponibili, i foreign fighter che hanno avuto un legame con l’Italia sarebbero circa 140, di cui una cinquantina morti. Gli italiani e i naturalizzati italiani sarebbero però solo 25 e di questi 4 risultano deceduti e 8 già rientrati in Europa e costantemente monitorati dagli apparati di sicurezza.

I 4 COMBATTENTI ITALIANI NEI CAMPI DI DETENZIONE CURDI

In Siria è stato invece arrestato, dopo esser stato catturato dai curdi e dagli americani, Samir Bougana, italo-marocchino di 24 anni partito nel 2013 per andare a combattere prima con Al Qaeda e poi con l’Isis. L’uomo è già in carcere in Italia. Nei campi di detenzione sotto controllo curdo, almeno fino all’offensiva di Ankara, tra Al Hol, Ayn Issa e Roj, si troverebbero invece almeno 4 combattenti italiani: Alice Brignoli e suo marito italo-marocchino Mohammed Koraichi con i 3 figli, Sonia Khediri, italo-tunisina e moglie di Abu Hamza al Abidi, figura di spicco del Califfato ucciso in combattimento, e Meriem Rehaily, 23enne padovana di origine marocchina, condannata per arruolamento con finalità di terrorismo. Anche loro avrebbero 2 figli ciascuna. Nelle carceri turche sono al momento detenuti complessivamente 1.149 jihadisti legati al Califfato, mentre almeno 242 sono i foreign fighter di 19 Paesi catturati in Siria dall’inizio un mese fa dell’operazione militare Fonte di Pace e pronti a essere rimandati a casa.

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Arrestato un clochard per l’incendio alla Cavallerizza Reale di Torino

L'uomo, incastrato dai filmati della sorveglianza, è stato individuato a Genova.

È stato individuato dalla polizia il piromane che, il 21 ottobre scorso a Torino, ha causato l’incendio che ha distrutto le ex scuderie della Cavallerizza Reale, patrimonio Unesco, occupata da quattro anni. Si tratta di un clochard di 38 anni di origine marocchina nato in Spagna. L’uomo è stato fermato dagli agenti del commissariato Centro di Genova, su provvedimento della procura di Torino, a seguito delle indagini sviluppate dalla polizia.

RIPRESO DALLE TELECAMERE MENTRE VERSAVA MATERIALE INFIAMMABILE

Le telecamere del commissariato Centro di Torino, installate alla Cavallerizza per un’indagine su un’attività di spaccio nello stabile, l’hanno ripreso mentre versava materiale infiammabile e tentava di appiccare il fuoco con un accendino prima nella zona del Tempietto, poi in quella dei Granai. Il giorno dopo il rogo, il clochard era stato sentito dagli agenti, ma aveva negato di trovarsi della Cavallerizza al momento dell’incendio e di aver trascorso la notte ai Murazzi del Po, sempre nel capoluogo piemontese. Le sue parole sono state smentite dalle immagini dai filmati.

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Conte fuori dall’Ilva a Taranto tra cori e contestazione

Ad accoglierlo una folla di operai, cittadini e ambientalisti. Con una richiesta chiara: «Vogliamo la chiusura dell'impianto, qui ci sono più morti che nascite». Il premier: «Parlerò con tutti».

L’avvocato del popolo circondato dal popolo. A Taranto, fuori dallo stabilimento ex Ilva. Dove il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è presentato per parlare con gli operai, accompagnato da alcuni dirigenti del siderurgico, nel giorno in cui si sono fermati tutti gli stabilimenti per lo sciopero. E dalla folla sono partiti cori, richieste, anche qualche contestazione.

«IL DOSSIER EX ILVA PRIORITARIO PER IL GOVERNO»

Il premier ha partecipato anche al Consiglio di fabbrica permanente di Fim, Fiom e Uilm. Ha ascoltato per oltre un’ora gli oltre 200 partecipanti. Dicendo che «il dossier ex Ilva è prioritario per il governo. Dobbiamo gestirlo tutti uniti, non solo il governo, ma anche voi. Tutti insieme dobbiamo combattere questa battaglia. Come sistema Paese».

CHIESTA LA RICONVERSIONE ECONOMICA DEL TERRITORIO

Conte era entrato dalla portineria D, quella riservata all’ingresso degli operai. Lì c’erano rappresentanti di comitati e movimenti con striscioni che hanno chiesto la riconversione economica del territorio.

Mi sento in colpa, ogni volta che vado al lavoro faccio del male alla mia famiglia


Un operaio a Conte

Molti all’esterno hanno scandito cori inneggianti alla chiusura dell’impianto. Conte, un po’ travolto dalla confusione in mezzo alla ressa, ha reagito promettendo: «Parlerò con tutti, ma con calma». Un cittadino gli ha urlato: «Dovete conoscere la situazione». E lui ha risposto: «Sono qui per questo». Un altro ha detto: «Mi sento in colpa perché ogni volta che vado al lavoro faccio del male alla mia famiglia».

«CI SONO PIÙ MORTI CHE NASCITE, BASTA CON QUESTA FABBRICA»

Diversi erano cittadini del vicino quartiere Tamburi, nel quale si contano i maggiori danni ambientali e alla salute. «Qui ci sono più morti che nascite», ha detto una madre. «Abbiamo fiducia nelle istituzioni, ma non fatela perdere a noi», ha aggiunto un altro. E ancora: «Questa città richiede altro, perché continuate a insistere su questa fabbrica?».

DIALOGO SU LAVORO E ARCELOR MITTAL

Il presidente del Consiglio ha dialogato con alcuni. Riportando il tema sul lavoro. «Tu lavori?», ha domandato a un cittadino. «Ora sono disoccupato», è stata la risposta. E quando gli è stato chiesto un giudizio sulla società che ora gestisce l’impianto, ha replicato al premier: «Mittal non si è comportata mica tanto bene».

Cosa volete, la riconversione? Stiamo lavorando tanto per l’energia pulita


Il premier Giuseppe Conte

Nella calca c’erano anche ambientalisti. Il premier a molti cittadini ha chiesto: «Cosa volete, la riconversione?». Ma il gruppo che lo ha assediato all’esterno prima che potesse entrare ha avuto una parola d’ordine: chiusura. Solo qualcuno ha accennato alla possibilità di una riconversione, impiegando per questo gli operai per la bonifica. Conte ha rivendicato attenzione all’ambiente: «Stiamo lavorando tanto per l’energia pulita».

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Chi è Brasile, il neofascista protagonista della rissa con Vauro

Sul corpo i tatuaggi del Duce e di Hitler. Nel passato le spedizioni anti-rom e gli attacchi agli immigrati. Come Massimiliano Minnocci è diventato una star di social e tivù portando avanti le idee dell'estrema destra.

La levata di scudi è già partita. Sono in molti a chiedere che personaggi come Brasile (o il Brasiliano), al secolo Massimiliano Minnocci, vengano lasciati fuori da talk show e rutilanti programmi in prime time della tivù generalista. Per chi se lo fosse perso, Minnocci è l’agitatore di estrema destra arrivato quasi allo scontro fisico con Vauro nel corso del programma Dritto e Rovescio, in onda la sera del 7 novembre su Rete4.

«A ROMA DEVI FARE QUELLO CHE DICO IO»

Lo scambio poco cortese tra i due è arrivato al termine di un vivace botta e risposta tra lo stesso Brasile e la giornalista Francesca Fagnani, nel corso del quale il nostro ha rivendicato con orgoglio «ordine e disciplina» della borgata romana da cui proviene. «Roma non è fascista», è l’opinione Brasile, prima, però, di aggiungere un “energico” «devi fare quello che ti dico io».

Non è nuovo a performance di questo genere Minnocci, diventato negli ultimi mesi un habituée dei salotti televisivi, per nulla inibiti dalle idee poco ortodosse del personaggio, diventato una star sui social con migliaia e migliaia di follower di fronte ai quali non ha esitato ad autoproclamarsi più volte «l’ottavo re di Roma».

«A CHI RUBA TAGLIEREI LE MANI»

Di lui si dice che debba il soprannome alle qualità da calciatore, passione che sfoga quotidianamente da ultrà romanista. Ai microfoni della Zanzara non si è fatto remore, interpellato sulla questione rom, a dire che lui, a chi ruba, «taglierebbe le mani». E gli immigrati? «Dalle mie parti si stavano comportando male ‘sti zozzoni. Non servono le guardie, perché qui la legge la faccio io. Questa è casa mia. Ci penso io, non lo Stato». E ancora: «Io posso sbagliare perché sono italiano, loro no perché sono ospiti in questo Paese».

Sul suo fisico forgiato da ore e ora di palestra fanno “bella” mostra i tatuaggi di Adolf Hitler e Benito Mussolini, oltre a svastiche e croci celtiche su varie parti del corpo. A far compagnia a dichiarazioni da far accapponare la pelle: «In Italia ci vuole un po’ d’ordine. Manca zio Adolfo che fa pulizia. Voi dite che è incompatibile con la cocaina e col casino allo stadio? È vero, ma Hitler prendeva gli allucinogeni…».

«HO PIPPATO L’IRA DIO, MA ORA HO SMESSO»

Un riferimento ai suoi passati problemi di tossicodipendenza. «Ho o pippato l’ira di Dio, i grattacieli proprio. Ma non torno a pippare. Questa è un’altra vita. Ai ragazzini consiglio di non prendere sostanze stupefacenti».

In molti, evidentemente, credono che personaggi come Brasile incarnino alla perfezione lo spirito delle periferie romane e poco importa che finiscano per divulgare in prima serata messaggi razzisti e xenofobi. La tivù preferisce concentrarsi sui disagi del passato, evitando di prendere posizione, per esempio, sulla protesta, di cui è stato protagonista, contro l’assegnazione della casa popolare a una famiglia rom che ne aveva diritto, lo scorso mese di maggio. O sulla sua fedina penale macchiata da una condanna a cinque mesi («pena sospesa», tiene a precisare). Richiesto di un’opinione sulla classe politica italiana, Brasile no ha dubbi: «Salvini mi piace, ma sta militarizzando Roma, mettessero gente delle borgate che davero ce li magnamo i rumeni e i talebani che vanno a rompe’ er cazzo. Adesso non voto niente. Però se dovessi votare, voto ’a Lega Nord, tutta ’avita».

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