Con i suoi programmi, da Canzonissima a Milleluci e Studio Uno, il grande regista scomparso ha fatto sognare generazioni di connazionali. Creando una televisione piena di talento e professionalità che non ha lasciato eredi. Ma solo tanta nostalgia.
Ci son di quei nomi che profumano d’epoca. Racchiudono passaggi storici, società che cambiano, si divertono, passano dal Dopoguerra post rurale alla post modernità da bere e da trangugiare. Antonello Falqui è un nome così, scomparso a 94 anni.
Un secolo lungo il suo, lunghissimo, e fecondo altrettanto. Professionalmente inaugurato con la televisione, prima ancora che la televisione fosse: ancora in fase sperimentale, ma il giovane Falqui, figlio d’un critico e scrittore, era già lì, a sperimentare, proveniente dal Centro Sperimentale di Cinematografia.
FALQUI HA ACCOMPAGNATO I NOSTRI MIGLIORI ANNI
Il nuovo, futuribile mezzo l’ha rapito dalla facoltà di Giurisprudenza, e le due vite andranno sempre insieme: è lui a inaugurarla, la tivù, col primo Arrivi e Partenze con cui dirige un giovane occhialuto italoamericano, tale Mike Bongiorno, scoperto da Vittorio Veltroni. Da quel momento, Antonello Falqui accompagna i migliori anni della nostra vita: c’è lui dietro i programmi che diventano modi di dire che cambiano gli italiani, Musichiere, Canzonissima, Studio Uno, i cicli degli Stasera: Stasera Rita (Pavone), Stasera Patty Pravo, Gianni Morandi, eccetera.
Sono gli anni della grande televisione in bianco e nero, tra i Sessanta e i Settanta, «quando», per scippare le parole a Giorgio Gaber, «si faceva un tipo di televisione sontuosa, meravigliosa, attenta a ogni dettaglio e oggi quella televisione lì non si fa più».
UNA VITA GRANDE, DIVERTENTE E DIVERTITA
Falqui prosegue, Sai che ti dico?, con gli irresistibili Sandra e Raimondo, Milleluci (ah, quella Carrà e quella Mina insieme!), Dove sta Zazà e Mazzabubù entrambe con l’immensa Gabriella Ferri, il ciclo di Bambole, non c’è una lira, in sei puntate, tratto dalla commedia teatrale, e avanti ancora dentro gli Anni 80 e 90.
Quando Falqui, ormai assurto al ruolo di storico, memoria vivente del mezzo televisivo, giustamente si riposa. Mai del tutto, quelli così hanno sempre una scintilla da scoccare, fino alla fine. Il suo congedo testimonia di una vita grande, divertente e divertita: «Sono partito per un lungo lungo lungo viaggio, potete venire a salutarmi lunedì 18 novembre alle 11 alla chiesa di Sant’Eugenio a viale Belle Arti a Roma». Parole che qualcuno ha messo sui social.
UN’ITALIA INGENUA, BUGIARDA E SENTIMENTALE
Dalla televisione che non c’era alla post televisione di internet, del tablet. Parole di un uomo sereno, consapevole di essere stato una compagnia di vita per i suoi connazionali: arrivava il sabato sera e la schedina era un rito e il giro delle botteghe liturgia, e dopo le serrande si calavano, una per una, cadeva un dolce silenzio sulla città sconcertata e ci si tappava in casa e arrivava la trasmissione che ci divertiva, ci intontiva, il lunedì a scuola ne avremmo replicato tutte le battute. Un’Italia più ingenua, che si vedeva apparecchiare scenette e balletti da gente come Antonello Falqui, Gino Landi, Mario Landi, Romolo Siena, fiato alle trombe Turchetti! Un video immaginario: le facce stravolte, indimenticabili di Walter Chiari, Paolo Panelli e Bice Valori, Alberto Sordi, Franca Valeri, le gemelle Kessler, «la notte è piccola per noi, troppo piccolina», e cento altri in un‘Italia sfocata, scintillante, eccitata, crudele, bugiarda e sentimentale che si perdeva in vapori d’etere e di misteri, segreti che avremmo saputo tardi o forse mai.
SPETTACOLI RIMASTI NELLA NOSTRA MEMORIA GENETICA
Antonello Falqui era uno dei demiurghi. Ci ha reso più sopportabile la difficile transizione democratica, ha aiutato tre o quattro generazioni a crescere senza prendersi troppo sul serio, magari inseguito dai rimbrotti di una classe intellettuale che ci vedeva ottundimento, manipolazione delle masse: ma che si doveva fare con quel popolo ancora acerbo, che si riuniva in 50 in un bar davanti a una scatola magica? Le cose hanno bisogno di tempo. I mutamenti hanno bisogno di tempo. Quegli spettacoli, tra il geniale e lo sciocchino, però sono rimasti e non solo nella nostra memoria genetica: non è venuto niente di meglio a sbiadirli.
UNA TIVÙ DI PAZZI PIENI DI TALENTO
«Quella televisione lì oggi non si fa più». Perché era un’epoca di pazzi, ma veri. Tognazzi e Vianello anche loro praticamente inaugurano la televisione italiana, Un due tre e siamo nel 1954, bavagli vaticani e democristiani a piovere. Eppure, già parodie carogna, magliaie, ciclisti, mondine, tronci della Val Camonica, chissà come fanno a farle passare.
Nel 1959, il Presidente Giovanni Gronchi nel palco reale della Scala casca dalla sedia e, inesorabile, pochi giorni dopo, Ugo rifà la scena con il finto candido Raimondo che lo apostrofa: «Ma chi ti credi di essere?». Il programma finisce lì, in quel momento.
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Quando i due tornano in camerino, ci trovano già le lettere di siluramento. Li tengono in ghiacciaia un anno e mezzo, poi li richiamano: «Abbiamo deciso di perdonarvi, avete qualcosa di nuovo per la televisione?». Pronti, Tognazzi e Vianello rispondono: «Sì, ci sarebbe una cosettina sul papa» che è il bergamasco Angelo Roncalli, e a Bergamo, lo sanno tutti, si smoccola che è un piacere e Ugo, spietato: «Mi sun de Bèrghem, porco…». Fuori! Pazzi completi, incontrollabili, meravigliosi. Mica solo loro. Guardali nel video immaginario, quelle facce parlano. E quelli come Antonello Falqui a dover contenere, dirigere, organizzare una banda di scatenati senza ritegno e con troppo talento. O ci crepi, o ti diverti una vita. Per questo un 94enne artista degli artisti può congedarsi dal mondo con tanta garbata serenità. Come chi sa che aveva una missione da compiere nella vita, e l’ha compiuta.
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